LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA CON FRAMMENTO

Di Giorgio Linguaglossa

UNA POESIA di Giorgio Linguaglossa
Preambolo del Signor K. «La «nuova poesia ontologica»?,
suvvia Cogito, siamo seri…»

di Giorgio Linguaglossa

Il treno è in viaggio. Porta soldati con l’elmo a punta.
Verso il fronte russo.
Il Signor K. siede nel vagone ristorante,
ha con sé la valigetta diplomatica.
Cogito ha nella tasca interna della giacca
la fotografia di Enceladon.

[…]

Il Signor K. misurò con ampi passi lo spazio del vagone ristorante.
«L’ideale sarebbe far fuori i tipi come Lei, Cogito,
voi siete dei rompiscatole, con tutto il rispetto
per il vostro ruolo.
La bellezza di Enceladon? Suvvia, Cogito, non sia ridicolo.
Che vuole, sarebbe semplice per me
far premere il grilletto da uno dei miei sodali,
ma, sarebbe, appunto, eccessivamente ludico,
ed io detesto le soluzioni finali, preferisco, invece,
complicare ciò che è semplice.
Giocare con Lei, Herr Cogito, tutto sommato, mi diverte,
è come il gioco con il gatto e il topo.
Del resto, in fin dei conti, l’arte è un’attività onanistica.
Ha qualcosa dello specchio da toeletta, ma rammenta
lo specchio ustorio …
Qualcosa di… dis…dicevole …».

[…]

«A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero
mentre fuma un sigaro italiano.

[…]

«Ecco, diciamo – rispose il Signor K. –
che interverrò, di persona,
di quando in quando, a secondo dei miei umori atrabiliari
negli eventi del mondo.
Lei, Mario Gabriele e Steven Grieco Rathgeb?
Sì, penso che possiamo prendere un caffè, insieme. La «nuova poesia ontologica»?,
suvvia Cogito, siamo seri…
Mi congedo. E mi prendo la libertà di comparire.
E scomparire.
Di quando in quando …».

………….

«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole, in alto, sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!».
Fu così che mi decisi… Ed entrai.

[…]

C’è un bosco pieno di foglie parlanti che gridano:
«Il presente è il passato e il passato è il presente».
C’è un chiasso del diavolo. Tante parole quante sono le foglie.
Una quercia mi parla:
«Apri la prima porta a destra – mi dice –
e segui la via della mano destra
che porta a sinistra».

[…]

Apro quella porta.
Ci sono tre vascelli a vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili. Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri.
Apro la seconda porta a destra.
C’è una colluttazione di ombre che entrano
dentro altre ombre e ne escono; lottano furiosamente
per il palcoscenico della mia anima.
«Ma non c’è nulla per cui lottare, sono già morto!»,
pronuncio con un filo di voce.
“Farsesca costipazione di ombre”. Penso con tristezza
che anche loro sono morte e non possono udire le mie parole.

[…]

Attraverso come a nuoto la stanza. Apro una finestra.
C’è una statua nella piazza deserta:
Portici risucchiati dal vuoto.
Pontili su un mare di basalto.
Città di cristallo.
Colonne in marmo, stoppie. In alto, sopra il frontone,
una civetta accompagna con il singhiozzo il passo dei mortali.
La donna di Fayuum mi osserva. Vorrebbe dirmi qualcosa,
ma non può.

[…]

A tentoni nel buio della stanza apro un’altra finestra.
C’è una torre in un cortile deserto.
Puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto
e il lucore fosforescente di una luna gialla
che si posa sulla toga di un imperatore triste…
Mi precipito alla cieca in avanti, apro una terza finestra.
C’è un calendario dal quale si staccano i fogli, un orologio,
una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome
e la mia data di nascita…
una scrittura annerita che gratto con l’unghia:
«Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra»

[…]

«È tutto qui? – mi chiedo – non c’è nient’altro?».
L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba.
Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.

*

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Balenano fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.
Sulla terra battuta risuona il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.
Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.
Giocano con le bambole, giocano con le murene,
accompagnano al pianoforte la bella Marlene
che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.
Beltegeuse è una stella nana e Enceladon è lontana
nel firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato
sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».
Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella di un polittico nella stanza del pittore.
Gira per la stanza, vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni o Madonne col bambino.
Anteprima: Un uomo in nero è accanto al letto di morte del poeta.
«Ospite sgradito! La tua fama da tempo s’è sparsa»,
scrive il poeta sul letto di morte.
Un gendarme cammina tra gli hangar, agita il frustino
in mezzo ad un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi,
intuiscono gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.
Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte
ma la luce della finestra non li raggiunge.
Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo Gozzoli alla corte degli Estensi dipinge
un cardellino sul ramo di corbezzolo
e fischia un motivo di Mozart,
sa che non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma,
«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».
Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo. Berlino.
Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.
«Gutentag Herr Cogito».

(da Risposta del Signor Cogito inedito)

*

Siamo ancora vivi?

Grandi camion con autorimorchio trasportano le stelle
le scaricano qui nel nostro giardino dove abbiamo
seppellito il sole.
Una cornacchia solitaria batte il becco
sul vetro della finestra;
tu coltivi le rose e le viole sulla staccionata
del giardino, Osip Mandel’štam scrive
poesie per bambini, le chiama «Il fornello
a petrolio»; le armate bianche
e le armate nere hanno smesso di combattere,
le guerre non sono finite si sono moltiplicate,
Paganini prova l’archetto del suo Stradivari
per un pubblico di oziosi
e Rembrandt ci osserva da una cartolina.
«Siamo ancora vivi», mi dici, «non è straordinario?».
Le porte si spalancano su altre porte,
l’atrio dà sul giardino…
e la veranda si apre sul mare;
tu sei dentro un abito di seta blu 
a fiori cinesi con le maniche ampie, svasate,
i capelli color rame, l’ampia scollatura del décolleté
e un chapeau de paille blanche…
«È un fatto del tutto trascurabile», ti rispondo
come da un altro mondo mentre
un sole bianco sale allo zenit, un passero
cinguetta sull’albero…
«Sai, a volte ho il sospetto che siamo tutti morti
che la nostra vita sia il pensiero di un premoriente
defunto tanto tempo fa».
Sulle chiome degli alberi sventolano gli uccelli
come bandiere colorate per la festa della Repubblica.
«E c’è differenza, dimmi Giorgio, e se anche fosse?» 

*

La polizia segreta cerca il quaderno nero

I
La polizia segreta cerca il «quaderno nero».
Perquisisce ogni centimetro quadrato della abitazione
del Signor Cogito, getta le masserizie all’aria, sfonda le pareti,
smonta le mattonelle. Dicono che c’è «un sole inabissato»
da qualche parte.
II
Finestra buia. Finestra illuminata.
Enceladon è nuda esce da una porta della notte e si pettina
i capelli color rame davanti allo specchio.
Un merlo gorgheggia sull’albero. Gli uccelli tossiscono.
Lanterna rossa. Fascio di luce conica.
Un riflettore è puntato sulla faccia del Signor Cogito.
Un cono di luce sugli occhi del Signor Cogito.
La polizia segreta scava nel giardino.
Cerca ciò che non può più trovare
perché Cogito ha distrutto il quaderno nero
gettandolo nel fuoco.

III
Sono le tre. Il rintocco argentino del carillon
disturba la tranquillità del Signor Cogito.
Il suo pensiero è simile al moto del pendolo,
va dallo zenit alla fossa delle Marianne
dal fumo delle puzzolenti nazionali
all’etere del pensiero teologale.
Nella Kammerspiel c’è silenzio. Di tomba.
Improvvisamente, uno scalpiccio di passi.
I cinque poliziotti sono usciti in corridoio.
«Arrivederci», «Passate più spesso a trovarmi»,
dice agli ospiti il Signor Cogito.

.
La Lubjanka interroga il musicista

I
Le blatte si accalcano nella fessura della porta.
Il Signor K. esce dalla notte
sbatte la porta ed entra nello specchio
esce dallo specchio ed entra nel cono di luce.
Entra il commissario con un occhio di vetro.
La polizia segreta interroga la bellezza di Enceladon
mentre la Lubjanka fa catturare tutti gli uccelli.
Dispone che gli uccelli vengano impiccati
ai rami degli alberi e lasciati oscillare
come idrocaedri al vento del Favonio.
Interrogano il musicista.
Interrogano il Signor Cogito.
Cercano «un sole inabissato».
«È colpa del Signor Retro – dice il Signor Cogito –
quel maleducato è sempre avanti di un passo,
e non c’è ragione che possa voltarsi indietro».
La polizia segreta perquisisce il violino,
smonta la cassa armonica, fa a pezzi l’archetto.
II
La Lubjanka ha convocato il violinista
negli uffici della polizia segreta.
La tigre bianca siede sulla sedia rossa.
La tigre rossa siede sulla sedia bianca.
La tigre sorride.
Il Signor Retro mastica un chewingum.
La Gioconda mi guarda dalla parete.
Hanno interrotto le perquisizioni.
Hanno requisito il violino.
Hanno divelto la porta rossa e la finestra azzurra.
Hanno abbattuto le pareti.
Il Signor K. dice che il violino non ha colpe.
«Signor Cogito, non c’è nessun sole inabissato».
«C’è un solo colpevole». «È lei il colpevole».

 

Il corvo è volato via dalla finestra

Il corvo è volato via dalla finestra.
I candelabri degli alberi fumano sotto il cielo.
Fiammeggiano d’un fuoco algido.
Il cielo è immobile. Il mare è immobile.
Il bosco è immobile.
La bottiglia e il bicchiere del quadro di Morandi
sono immobili, integri, il tempo non li ha frantumati.
La Lubjanka ha impiccato tutti gli uccelli.
Sette corvi beccano i vermi nello stagno.

Enceladon mi guarda da una cartolina.
Anche la sua bellezza è immobile.
Ha un sorriso esangue, sembra evasa
dalla prigionia del suo archetipo in fondo
al ritratto di Simonetta Vespucci.
L’intero universo è immobile.
La sedia rossa è di fronte al mare.
Il sole nero entra nella costellazione dello Scorpione.
I mocassini del Signor Cogito scricchiano
sulle falene morte e sulla polvere del parquet.
Il pensiero del Signor Cogito precede sempre
d’un palmo la giostra delle parole, indugia all’ingresso
tra il pensiero nero e il pensiero bianco.
«Tra il pensiero e la parola cade l’ombra.
Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra»
dice il Signor Cogito.

Teatro. Si apre il sipario. Sedia rossa.
Il musicista prende posto sulla sedia rossa.
Imbraccia il violino.
Posa l’archetto sulle corde del violino.
All’improvviso, tutto scompare:
la sedia rossa, il musicista, il mare,
le stelle, gli alberi in fiamme.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito

I
Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio il Signor K.
La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.
Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca
impolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».
Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.
Il Signor Cogito guarda attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio
di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.
Il Signor K. indugia.
Il Signor Cogito attende.
Sceglie con cura le parole,
aspetta che il buio entri dalla finestra.
Parla sempre dopo il Tramonto.
E prima dell’Aurora.

II
Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».
La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».
La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».
La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».
La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

*

Un balcone. Una siepe con sopra i lillà

Un prato verde. Pettinato come un tavolo da biliardo.
Ghiaia. Bambini. Giocano a palla qua e là.
Panchine verniciate di fresco. Una giostra.
Un balcone. La siepe con sopra i lillà.
Margherita e il Maestro con il cappello a cilindro,
il frac lurido e scarpe di vernice. Il romanziere Bulgakov
ha fretta di finire il romanzo, si attarda in cucina
a bere un caffè.
[…]
La nursemaid fa oscillare la carrozzella.
Un Signore con il berretto a visiera degli hockey club.
Una testa mozzata rotola sulla ghiaia.
Un borghese con i pantaloni a righe legge il “Corriere della Sera”
sulla panchina rossa.
Alla destra, prima della cornice del quadro,
l’uomo, gilè a scacchi e maniche di camicia, osserva
il pittore che dipinge un quadro.
Il quadro osserva il pittore che dipinge il quadro.
Sul cavalletto, una tela. Il sole giallo ritratto nel quadro
illumina la stanza. Si alza dal cavalletto,
esce dalla finestra, e se ne va a zonzo per la città.
[…]
Un balcone. Una siepe con sopra i lillà.
Il sole si è annoiato di aspettare il pittore.
Il pittore si è dimenticato della tela e del sole
e corteggia la modella del quadro precedente.
Nudo in un interno. C’è la modella davanti al cavalletto.
Qui, all’esterno, ci sono io. O forse, sono là.
Il pittore se n’è andato, chissà dove, tra i lillà.
Una signora canta: «che sarà, sarà».
Un dio che deve ancora venire. Ma non verrà,
perché ha dimenticato di essere un dio,
e adesso ha indosso abiti borghesi, sta fermo
alla fermata del tram, alla Potsdamer Platz.
Mentre il sole dichiara che domattina verrà,
puntuale come al solito, prima del caffè, a bere caffè.
La sfera di vetro con ghepardo delle nevi e presepe.
[…]
Di nuovo, tutto si capovolge.
Cadono all’insù fiocchi di neve. Cadono all’ingiù.
Il prato verde, i bambini che giocano con la palla di caucciù
sotto il balcone con i lillà.
La nursemaid con la carrozzella. Un Signore, là
con i pantaloni a righe che legge su una sedia rossa
il “Corriere della sera”.
Il signore con il berretto a visiera degli hockey club.
Bulgakov è irritato perché ha perso il tram.
E così via. Davvero. Tutto si capovolge.
Il prato verde. Il balcone con sopra i lillà.

*

(da Risposta del Signor Cogito inedito, 2014)

Il corvo è entrato dalla finestra

Il corvo è entrato dalla finestra.
Una stanza. Atelier del pittore.
C’è solo l’ombra del pittore distesa sul pavimento.
Un cavalletto e una tela bianca.
Il pittore dipinge il mare e un sole livido.
Il sole prende vita dal quadro e se ne va.
Nel quadro è rimasto solo il mare.
Anche il mare se ne va.
E resta un abito in gessato bianco in una barca
che rema verso una proda.
Ma la stanza è vuota, il mare non c’è.
Il Campari rosso è nel calice di cristallo
che il Signor K. sorseggia.
[…]
Osservo il suo pomo di Adamo, che va su e giù.
Un’ombra bianca si guarda il volto nello specchio.
Nello specchio il calice del Campari. E l’ombra.
Ombre bianche escono dalla tromba delle scale
(al trentunesimo piano della Fifth avenue)
nascono dal cimitero chiamato terra
e vanno verso il mare. Si spogliano nude.
Entrano nel mare. Bevono il sonno a sazietà.
[…]
Le ombre nere bevono il sonno bianco.
Le ombre bianche bevono il sonno nero.
Il direttore d’orchestra ripiega le sue ali nere
dietro le spalle, e chiede al musicista:
«Suonate qualcosa, Signore?».
«Non c’è nessuno qui, sono tutti
morti». «Non posso suonare».
[…]
Finestre buie, Finestre nere. Porte buie. Porte nere.
Non c’è musica. Brusio di fondo.
Il musicista imbraccia l’archetto.
Il violino si avvicina al fuoco.
Tra poco dalla finestra entrerà il ghiaccio.
[…]
Bussano a una porta. La maniglia di ottone
gira con un flebile stridio: è il Signor K.
«Vostra Grazia…».
Il Campari si dirige verso le labbra del Signor K.
L’archetto cammina verso il violino
le mie dita corrono verso l’archetto.
Il fuoco incespica, s’impenna, li insegue,
tra poco li raggiungerà.
[…]
«Quale “capriccio”, Vostra Grazia?».
«Paganini, l’ultimo, il ventiquattresimo».

di Giorgio Linguaglossa


Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Escher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Márquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit! Je le jure, sans ironie.

*

Una lettera nella cassettiera.
Due o tre riviste letterarie: Il Caffè di Vicari
e i Quaderni piacentini.
La signora Dominich senza più un memorial day.
Non ti riconobbi più
con le scarpine di pelle di lòntra.
Il primo poster alle pareti:
Il Moulin de la Galette di Picasso:
girandola di danza con due Madame
al tavolino in primo piano. Festa borghese.
Uno stabsunterroffizier cercava Daniele.
Anni 60. Il bello dell’Hermitage.
Qualcuno doveva aver abbandonato
la Cappella Sistina e il Ponte dei sospiri.
La ragazza Carla  mi lasciò un fil rouge.
Alle sette apriva il Magazine.
Nel fortilizio Gina attendeva uomini e cani.
Fu un inganno la Befana.
Ma per Jodie tutto era un teatro.
Ritornava marzo con i campi di mais.
Si spezzò il fil rouge.
Non ho mai capito chi fosse il baro,
se il tempo o la luna.
Abbiamo sempre avute le malinconie.
-Piccolina! Qui c’è solo Sigmund
a prenderti per mano-.
Non abbiamo fatto nulla,
se non restituire la vita ogni giorno.
Le sedie non hanno retto.
Due volte, soltanto due volte,
ci fu una fuga sui monti matesini.
L’abbiamo giocato alla roulette
il jolly del biscazziere,
e ora tu bussi alla porta, Miss Memory?

*

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

*

Un leggio senza spartiti per pianoforte e orchestra.
Il cruccio di Donovan dopo il gioco delle tre carte.
Il giorno che finisce, occhi asciutti e nessuna luce;
ma tutto il cottage non regge: tutta la vita, Hayden!
Ci  batterai la testa, sarà  come il rubinetto che cola,
il Circolo di Warren Daddy sempre chiuso.
Una Signora  con steli di dalia e pause di respiro
si fermò su per il colle e giù per la King William Street.
Il tempo fa rapine, agita le clessidre.
Miss Lory segna chi va e chi viene,
aggiorna  il calendario mentre l’anno se ne va.
Si cambiano gli almanacchi.
C’è un raduno in Piazza Oberdan.
Uno di sinistra, uno senza bandiera  e slogan
legge la Steppa di Tarkowskij.
Un campesino aspetta il suo turno.
Ce ne andiamo tu ed io
lungo la strada per Guildford
a cercare Jabberwochy
tra gli squarci della giornata
e il fumo dei bistrot.
Tornarono gli amici del Delaware
a rinnovare febbri di tristezza,
sotto la balaustra dei ribes di settembre.
Mai più di un giorno sono stato nel Kentucky,
qui la vita si è fatta già discesa.
Fu il grande Slam
a portarci al Being myself della Navratilova.
Il passato, se lo incontri, è una ringhiera
dove non irrompono i mulinelli d’acqua
e si recita a soggetto Maurice Bejart
sotto il poster color lumaca e old time.

Tornammo alle idee. Fummo un solo centro,
un unico soffio di mistral.
Vennero turisti dall’aldilà,
senza fiori e trolley da viaggio.
Mary offrì dolci. Chiese notizie.
Offrì agli ospiti crema Chantilly.
                  Poi domandò:
-How long they were there?-.
Un gentleman, già in partenza su vaporetto,
e la luna sotto il braccio:
-Sono anni- disse,- che nella terra riposiamo.
Abbiamo conosciuto Oxford e Lisbona,
e Potsdamer Platz,
visitato il Museo Castillo di Dalì,
puliti i chiodi del Crocefisso,
sentita la Sinfonia n.6 di Beethoven
diretta da Janowski-.
Oggi, il mio pensiero è ritrovarti
come la ragazza bruna ritta
vicino a una barca a remi sulla riva del lago.
Hai rimosso le coperte,
tolto il blazer di Crizia,
pure l’aria risale le scale.
E’ tempo di superare il check-in,
fuggire dal cappio che stringe la gola.
Madame Sorius capovolse la clessidra.
Parlò di oroscopi.
Un Tutankhamon alle spalle  
sussurrò che Aprile era vicino.
Per credere al domani
dovrò ascoltare ciò che mi dice la primavera.
Il palco all’aperto aveva già il giravento.

 *

La malattia era da tempo un serpente boa.
Hellen vedeva il mondo a doppia rifrazione.
Ieri occhi azzurri hanno incontrato la primavera
e a Green Village, per fortuna,
i crickets cantano ancora.
Un day Hospital da dimenticare con tutti quei visi
cui avrebbe fatto bene un po’ di sole.
Questa volta parleremo chiaro con Buttler
di non darci più le griffe truccate
quando sarà l’ora del viaggio.
Questo è il secolo che non perdona.
Si, leggo Eliot e Marlowe e tanti libri di anime pie.
Il paradiso, se qui c’è, è una conversazione galante
con Kelly e la sorella di Webster.
Sulla chioma dei pioppi la neve era già sciolta.
C’era sul comodino un vaso di gigli e di rose scarlatte,
un abat-jour con lampada Led.
La voce di Tommy sembrava uno squittio nella stanza
come di un falco pellegrino.
Il Bacio di Klimt stava in biblioteca,
la sabbia sul viso di Caravaggio.
Uno spleen scendeva sopra le case.
Rividi  l’infanzia, le foto di Humphry e di Elisabeth.
-Non voglio bruciarti standoti accanto-,
confessò Hellen.
Le accarezzai il viso, le tolsi il fondotinta dermablend.
Giocavo col pensiero, giocavo
come i fanciulli del Vieux Chateau finiti nel fango.
-Ma guarda un po’- disse  la volontaria del Saint Club.
-Anche ieri non ha mangiato.
A volte, non respira, dorme-.
Allora Jasmin cominciò a scrivere, e prendere appunti,
si rivolse al custode del Cielo, ma era chiuso il castello.

*

E andammo per vicoli e stradine.
In silenzio appassirono il vischio e il camedrio.

Più volte tornò il falco senza messaggi nel beccuccio.
Restarono i giorni guardati a vista, arresi,
un gran vuoto dentro il link e la scritta sopra i muri:
– Non cercate Laura Palmer -.Correva l’anno……

L’erba alta nel giardino preparava un’estate
di vespe e calabroni. La nostra già era andata via.
Giusy trattenne il fiato seguendo il triangolo delle rondini.
– Se vai pure tu – disse, io non so dove andare!
Con i ricordi ci addormentammo e non fu più mattino.
L’alba non volle metterci lo sguardo.
Il boia a destra, il giudice a sinistra.
Caddero rami e foglie.
Fuggirono l’upupa e il pipistrello.
Nel pomeriggio confessammo i nostri peccati.

La condanna era appesa a un fil di lana.
I capi del quartiere si offrirono per la pace.
Li conosciamo – dissero. – Hanno dato tutto a Izabel
e Ramacandra. – Aronne è morto.
– A chi daremo allora ogni cosa di questo mondo? –
– La darete a Lazzaro, e a chi risorge
su questa terra o in un altro luogo e firmamento,
prima del battesimo dell’acqua,
non qui dove una quercia in diagonale,
come in una tavola di Poussin,
fermerà il tempo, e sarà l’ultima a fiorire – concluse il giudice.

*

(da L’erba di Stonehenge, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)

La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.

Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.

L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.

Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.

Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.

*

Abbiamo  parlato superando  il climax,
gli agguati dei serpenti  sotto i rovi.
A volte, trovi un graffio sulla pelle,
un’ecchimosi. Il sangue  che non fluisce,
abbandona la valvola mitralica.
E non so come e quando e chi al mattino
rimuove  i materassi  dei clochard
sotto i marciapiedi, lungo la Mozartplatz,
senza musica e pianoforte.
Ci stai dentro e non ci stai in questa stagione
che ti abbandona e ti tradisce.
E nessuno  che  dica:
-tornate a riprendere le vostre cose,
i pigiamini dell’infanzia,
le scarpine per lo jogging;
non importa se c’è il sole, o nevica,
se lo slang rimane tale e quale.
-Signora Hopkins, il Sideral le ha fatto bene-,
disse l’analista, e i leucociti sono tornati
 tutti alla normalità-.
Questi giorni sono come corone di gelsomini.
A New Berry ogni movimento è un sisma.
Oscillano i lampioni. Giusy puoi tornare a casa,
rimettere le tazze di Keit Haring nella cristalliera.
La sera che non ami
è quella che s’incunea nel pietrisco
e fa della vita una fragile voliera.

 di Mario M. Gabriele


FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

*

IL BUON AUGURIO ovvero
 “Die Entzauberung der Welt”

La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera,
e questo paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“Fermi!» esclamò d’un tratto il Regista:
«avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!»

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.
Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le spente scenografie
come fantasmi, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte, «Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!» e tonfi sull’assito, le grida di stupore
quasi visibili nell’aria
che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista,
sprofondato nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su,
quasi gioisse di noi, o di queste fronde d’albero che ora stormivano
solo immaginandosi;
quasi ce l’avesse fatta, avesse infine preso il largo
un re dalla mantella azzurra in una barca sull’oceano,
in viaggio verso la salvezza.

Altro non potei fare che cercare in me
il tuo viso nella sua estrema, sfaccettata durezza,
da cui tuttavia sorgevano molteplici profondità,
sul semplice amalgama di sabbia
la luce respinta si approfondiva in un lungo
corridoio, e da laggiù avanzavi,
seppure di sbieco superavi uno dopo l’altro i rovelli,
lo sguardo non più derubato avanzava fermo
oltre i molti presenti in ogni dove, la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.

Di nuovo guardai lo specchio. Era una finestra. E il paesaggio
un inaspettato presagio.
I campi di grano, morbida onda, prossimi ormai alla mietitura,
il fiume verde-bruno che muove tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri:
e molto più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
qualche usignuolo.

“Non vedete,” gridò ancora la voce fuori campo,
“come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo – volto del paesaggio
– in questo conoscersi e non riconoscersi
sorgeva un tasso d’intensità sconosciuto, come se irradiassimo luce
inaudita.

Come se fossimo sempre stati
nient’altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.

La partita l’avevamo stravinta.

*

Altmount Rd., 1997

Risalgo Altmount Road, per raggiungere la cima:
la via familiare, popolata di memorie e case
familiari, ormai introvabili
in questa folla di finestre ignote.

Di coloro che conobbi chi è andato via,
chi è diventato estraneo.
Altri sono rimasti nei loro grandi appartamenti,
vecchi amici incupiti che io visito
ora che il sole ha girato l’angolo.

Giù in giardino
i bambini ancora giocano sul prato luccicante
sotto il peepal che ha perso le foglie.

E i figli grandi,
ormai quasi adulti,
irrompono dalla porta d’ingresso
pieni d’entusiasmo… e quante notizie!

Ma la sera inoltrata, il tramonto
così profondo e pago di sé
questa vita è un bicchiere pieno
che non abbiamo più sete di vuotare.

Presto raggiungerò la vetta, guarderò la città dall’alto
rivedrò il Mar Arabico

Dopo l’imbrunire, oltre il vuoto nero del terrazzo
ho sentito sospirare quel corpo lontano,
inanellato intorno alla notte,
come stringeva d’assedio i nostri aperitivi
e le nostre luci inquiete –

Io, irriflesso – e tutta la ricchezza delle mie lingue,
la difficoltà di cogliere ed esprimere
solo una guida per sfuggire alla frase tornita

finché le parole indicandomi il loro contrario
mi lasciarono a tentoni come un cieco.

La notte viene dopo l’imbrunire, l’alba dopo la notte:
il mondo lo spio come un’ombra: ma lui è troppo veloce,
scorre libero come un racconto dei tempi antichi.

Da laggiù, oltre la città sconfinata,
arriva il fischio delle navi –
i corvi gracchiano da tutti gli alberi
nell’aria fumosa prima della luce.

In nessun luogo c’è silenzio.
Solo al centro del cuore.

*

Altmount Rd., 1997

Risalgo Altmount Road, per raggiungere la cima:
la via familiare, popolata di memorie e case
familiari, ormai introvabili
in questa folla di finestre ignote.

Di coloro che conobbi chi è andato via,
chi è diventato estraneo.
Altri sono rimasti nei loro grandi appartamenti,
vecchi amici incupiti che io visito
ora che il sole ha girato l’angolo.

Giù in giardino
i bambini ancora giocano sul prato luccicante
sotto il peepal che ha perso le foglie.

E i figli grandi,
ormai quasi adulti,
irrompono dalla porta d’ingresso
pieni d’entusiasmo… e quante notizie!

Ma la sera inoltrata, il tramonto
così profondo e pago di sé
questa vita è un bicchiere pieno
che non abbiamo più sete di vuotare.

Presto raggiungerò la vetta, guarderò la città dall’alto
rivedrò il Mar Arabico

Dopo l’imbrunire, oltre il vuoto nero del terrazzo
ho sentito sospirare quel corpo lontano,
inanellato intorno alla notte,
come stringeva d’assedio i nostri aperitivi
e le nostre luci inquiete –

Io, irriflesso – e tutta la ricchezza delle mie lingue,
la difficoltà di cogliere ed esprimere
solo una guida per sfuggire alla frase tornita

finché le parole indicandomi il loro contrario
mi lasciarono a tentoni come un cieco.

La notte viene dopo l’imbrunire, l’alba dopo la notte:
il mondo lo spio come un’ombra: ma lui è troppo veloce,
scorre libero come un racconto dei tempi antichi.

Da laggiù, oltre la città sconfinata,
arriva il fischio delle navi –
i corvi gracchiano da tutti gli alberi
nell’aria fumosa prima della luce.

In nessun luogo c’è silenzio.
Solo al centro del cuore.

di Steven Grieco Rathgeb


Matrimonio

Tu non lo vuoi un animale domestico. E nemmeno una sposa.
Oh, sarebbe bello invece: per tre giorni, un mese, due anni…
Sono la donna Uno, lei direbbe. E tu chi sei?
Scuoteresti il capo tra quel che sei, senza dire una parola.
C’è un triangolo tra lei e me. Qualcosa si sta muovendo tra le sue cosce.
Se è questo il nostro matrimonio, allora è senz’altro una trappola.
Tua madre è morta, Maylor, ma puoi sempre recuperare il prototipo.
Ho perso la visuale.
Però la cucina era in ordine. Ci penserei io. Sono a casa, direi.
Volevo ringraziarti. No, ti prego.
Ora cerca di dormire. La notte soffia nel grande tubo di gomma.
Un suono nero ma dolce, di terra.
Al mattino, servizio on line: sono io che ti chiamo dall’ingannatore elettronico.
Allora, come sto?
No, no no no no no.
No!
Vado nella camera adiacente. Ultima posizione.
Dieci 33, richiedo rinforzi immediati.
Papà…
Dobbiamo portarlo via da qui.
Non preoccuparti, non intendo morire.
Infatti papà è qui. Che succede? dice.
Come non lo sapesse.
Io scarabocchio.

*

Un’immensa solitudine

Gli occhi aperti sul bordo della custodia del proiettore, e poi la matita rossa col gommino davanti alla cucitrice gialla con l’occhietto rosso, uguale identica a una mantide religiosa.
Il campo sportivo è deserto, le magliette dei colori nei vasetti hanno i coperchi infangati dalle ditate del pittore: partita finita, sbiadita. Verde e rosso si guardano, le O con le C della marca.
La baraonda di un quadro scuro, Ombre sulla neve, sta rupestre sulla parete moderna. Non parla di quest’epoca, è un quadro del duemila millennio e lo sa benissimo.
L’avessi io la possibilità di compiere un simile viaggio, dal mese scorso al novemila senza muovermi, ché tutto è stato fatto per un buon tratto di eternità, luce più luce meno.
L’interlinea dei versi lascia tracce da sci di fondo. Non so come faccia la poesia a becchettare tutte queste lettere in una volta. Ma guarda! il manico dell’ombrello se la fa col bastone, dice.

(Candia Lomellina, giugno 2015)

*

Tra di noi

Nessuno ci aveva avvertito, nessuno sapeva. Fu in prossimità della Luna Che cominciammo a dire parole senza senso, per Di Più cantando. Tutta colpa della gravità musicale Che Ronza Attorno al pianeta serra.
Stai sorridendo. Chi, io? Sì tu. Già, sorrido.
C’è qualcosa di Pericoloso su questo pianeta. Non Sarà stupefacente?
Com’eravamo ingenui!

L’infinito volo della farfalla Sfuma Nel tinello di una casa condominiale, e dentro l’acciaieria il bianco della sposa; la guancia di tuo figlio mentre solo scrivi e ti accarezzi la fronte
infinita sponda, luce del mattino e richiamo delle cose come onde, come Tra le onde il pudore del mare.

Nasco e muoio Tra il collo e le scarpe. Il collo per i colpi ricevuti, le scarpe Perché Già lo so Che saran di me l’ultima parte che se ne andrà. Qui la morte abbonda, non è Una rarità. La vita è breve e il tempo oscilla, d’un tratto son cinque anni, poi Cinquanta.
Affonda Nel lavoro lo sterco della povertà. Perdona se l’epoca è questa ma son centinaia d’anni Che aspettavo. Non si muore in eterno.
Come bolle d’aria nel vento, come sguardo senz’occhi, Nella matematica pura e l’economia del dare.

E tu che Camminando danzi? Io no. Tu, sì. E’ il Corpo: come mi sta? Come ti senti?
Mi tremano le gambe, tremo all’idea, tremo alla voce. Scrivere è come non voler Parlare, come Quando mi venivi in mente.

Candia Lomellina – gennaio 2015

*

DNA

Nella via percorsa da motorette, lui prese a destra. E subito entrò nel sistema di sicurezza delle Nazioni Unite con l’idea di sottrarre La moltiplica del tempo, un programma adattabile all’umano DNA.

Lo pose tra un caffè e l’ultimo articolo del giornale sportivo, messo a disposizione dal bar. Il programma agisce sulla percezione del tempo, così che, mentre pensi, l’ora indietreggia. Si ha più tempo per riflettere.
In un tempo diverso la moglie del gestore ripete i gesti della loro prima notte: si chiude in bagno, lo fa aspettare. Poi tocca a lui, che si lava i denti, rientra, spegne la luce, e si addormentano. Notte, notte.
Non c’è niente qui. Solo una tuta. Mi dispiace molto, Frank, so che avevi bisogno di soldi. Ci sono abituato, è da mesi che rinuncio anche al discount. Ricordo che l’ultimo aperitivo mi costò ben sei euro. Inoltre lo bevvi da solo.
La piazza sembrava l’uscita di una discoteca. Il neo di un piccione si staccò dalla bocca della chiesa. Là dentro il programma del tempo non serve. Giorno più, giorno meno, il bilancio dei peccati resta invariato.
Rischio vent’anni a San Quintino, si disse cercando di non vomitare. Ma il nuovo programma sembrava funzionare a meraviglia. Tra l’altro, grazie all’uso di parole dette “Proiettili giganti” poteva comporre intere frasi, anche se molto semplici. Provò con: ti andrebbe un tè?
“Che idea” disse la moglie del gestore, “Lo sai che il tè mi toglie il sonno”. “Da quando in qua mi vedi bere il tè?”. “Un tè a quest’ora? Che ore sono?”. “Non ti senti bene?”. “Grazie, con un velo di latte”.
Nel soggetto reale, il filo del programma garantisce una certa tenuta. Le formiche di fuoco… ma non ho tempo adesso per le spiegazioni. Il capitalismo è inquieto: vista la posta in gioco, i morti e tutto il resto.
Sta pensando a cosa sia meglio fare: come trasformare un problema in un vantaggio? L’importante è che tutto si svolga nell’arco di dieci anni, al massimo. Così ragiona il capitalismo.
Chiudi la porta. Bravissimo James, un tè è quel che ci voleva. Immettere un “Ti amo”, potrebbe funzionare? Scrisse: hai messo a repentaglio la missione. Ma ora non soffermiamoci sul passato. Ti amo.
“Che ti succede, stai per morire?” disse la moglie del gestore. E lui: “qualcuno dovrebbe raggiungere i bocchettoni dell’aria condizionata”. Lei approvò, le andava bene qualsiasi cosa lui decidesse. ” Sono contenta

che tu abbia deciso di portare a termine la missione”. La bambina non dorme ancora. L’importante è non dare nell’occhio, dicevano. Si sentiva della musica, probabilmente la grande nave stava uscendo dal sistema solare.
Papà!!!
Getta la pistola!
A tutto volume.

(Candia Lomellina, settembre 2015)

*

Woody Allen

– Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson.
– Ci vuole della cannella sul Lìsson?
– Sì, perché no.
Lo sai che sono innamorata di te.
Le tende del davanzale coprono le mie gambe.
Lampeggia il semaforo sul gommino della matita.
Gli studenti sul terrazzo della villa guardano
danzare le luci accese in giardino.
Scommetteresti che dietro quelle siepi ci sia il mare.
Voce del violoncello.

*

Cinema

L’uomo esce sul ballatoio della casa a ringhiera.
Ha piovuto. Non sa dove sta andando, né se rientrerà.
Scende le scale: le sue scarpe, la rampa vista dall’alto.
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania.
“Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”.
La donna guarda attraverso le fessure della tapparella.
Ha sentito sbattere la portiera.
“Abbiamo fatto l’amore senza baciarci”.
In anticamera, le ombre hanno qualità marine.

(Candia Lomellina, agosto 2015)

*

Non importa.

Vuoto, mio caro, come mi avessero ferito le meningi
per una lobotomia. Due parrucchieri mandati dal cielo
travestiti da esattori di gas e luce. Fine davvero triste
per un navigante del tempo, amico della storia;
nato da amori comunisti, nei mezzo di tanti matrimoni,
sulla ghiaia di confetti, nel lungo giorno di tante
primavere. Nubi di bambagia. Il cielo di una corsa
– fa ancora freddo – Fino agli ippocastani.
I grandi erano Babbo Natale. Come il Maestro spirituale
che mi venne a trovare, mentre in un sogno credevo
di stare per morire. Comunista anche lui. Amico di sottotetti
e cantine, di torri antiche e Rolls Royce.
Molte cose non si possono dire. Perché non importa a tutti.
Come essere innamorati.

*

Il cuneo

– Ah! che piacere che piacere
dice questa mia voce nella testa.
Benvenute maledizioni!

Il carro funebre si sposta con lentezza esasperante.
Un cuneo di versi indica strade nuove da percorrere.
Voi che leggete non siete poeti – i “poeti” starebbero ancora al primo verso –
I “versi” sono, per la scolastica, il tabellario delle parole messe liberamente
in ordine. 
Se con cappello inclinato sembreranno ladri, o ladre affascinanti
Così è suddiviso il mondo in uno dei suoi tantissimi ripiegamenti. 

L’immagine del cuneo andrebbe spiegata:
la forma è data dalla pressione su una delle parti del triangolo
ad opera di una forza esterna.

Il poeta Gino Rago è un classico vero, visceralmente classico.
Squilli di tromba sul portello della gattaiola.
Ma dove fa male il cuneo?
La Cina che pressa sull’economia occidentale.

Con una freccia si collega al vuoto (morte) della disoccupazione.
Finestre di pesante smeriglio viste all’interno di una camera mortuaria.
Un lento pomeriggio. 
Dico la Cina ma è una dei tanti.

L’emozione sta nello stomaco come una pesante palla di cannone.
Cos’è il cuneo?
Non vedo l’ora di finire questa poesia. E mandarvi tutti affanculo!

Mentre il poeta Gino Rago squittisce all’ombra del Partenone
un altro poeta, il signor Mario M. Gabriele
osserva come un bambino attraverso la rete. Occhi taglienti, di serpente.
Sempre ho avuto per amici, ladri e borderline.
Questo mondo senza di noi finirebbe. Se non in campo di concentramento,
sicuramente in un immenso manicomio. Più grande di quel che è adesso.

Ma poesia mi fa dire baci.

*

Tchaikovsky in 4D

Un fossile di controfagotto fu ritrovato tra i ghiacci della Siberia.
Passò un intero concerto di Tchaikovsky. Musica modernissima.
Nell’improvvisa sordità vedo le mani della pianista muoversi sui tasti
come smarrite. Gli accadimenti precedono la scrittura.

Tchaikovsky, si espande nell’aria. Profumo di caffè.
L’oro dei polsini, le dita magre lunghe sottili. Nello specchio al mercurio
non si riesce a vedere il volto. Flauti e oboe. Gatti sul tetto.
Disegni alla Modigliani. Un fumetto di Tiramolla.
– Nella casa di un’amica che aveva allora tre anni. In soffitta.
Ci sentivamo al sicuro. Come morti.

Quando invecchierà, questa giovane pianista resterà sola. Ogni tanto
verranno i nipoti a trovarla. Come per sfogliare un libro prezioso.
L’ottocento scaldava le case. Cuori battevano forte sotto le camicie.
E’ musica. Un grillo esce dalla naftalina.

*

Un’immensa solitudine

Gli occhi aperti sul bordo della custodia del proiettore, e poi la
matita rossa col gommino davanti alla cucitrice gialla con l’oc-
chietto rosso, uguale identica a una amantide religiosa.
Il campo sportivo è deserto, le magliette dei colori nei vasetti
hanno i coperchi infangati dalle ditate del pittore: partita finita,
sbiadita. Verde e rosso si guardano, le O con le C della marca.
La baraonda di un quadro scuro. Ombre sulla neve, sta rupestre
sulla parete moderna. Non parla di quest’epoca, è un quadro del
duemila millennio e lo sa benissimo.
L’avesi io la possibilità di compiere un simile viaggio, dal mese
scorso al novemila senza muovermi, ché tutto è stato fatto per un
buon tratto di eternità, luce più luce meno.
L’interlinea dei versi lascia tracce da sci di fondo. Non so come
faccia la poesia a becchettare tutte queste lettere in una volta. Ma
guarda! Il manico dell’ombrello se la fa col bastone, dice.

 

di Lucio Mayoor Tosi

Prove mostruose
(8)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

Miris è davvero morto!

E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose – su tutto!

Così cantavano i miei passi, le orbite volate via!… e su tutti i ponti gli occhi e le visioni
di un’altra creatura che mi tallonava… accanto – e mi assillavano le sue letanie
di voler esistere come un refrain la mia vita su un arazzo sfilacciato:
come è artificiale questo sole che infine si riposerà e modellerà i nostri volti
con una maschera gelata!

E dopo il gelo, che saremo? Chi di noi sarà come prima, mostruosa Poesia !

Campomarino, 13 luglio 2015
(notte, marina, all’ora terza)

*

Il pretesto fu l’attesa di una condanna prescritta dai loggioni.
La corda era timida come la lingua di Giovanni nei suoi occhi.
Il patio sofferente per l’assenza di un Antonio qualsiasi,
ma la sua parola era tortile come il pensiero di Giuditta.

La città era pavesata da recise lingue in fiamme eretiche, come rossastre – grida!
Letale crollava dai balconi sangue di giumenta – il tramonto, sgozzato!
Il sorriso del canto sugli occhi delle meridiane. Sii serena, Claudia, io non sognavo
le destinazioni, non potevo lacrimare dalle orbite straniate degli anelli di Saturno.

Come l’alloro reclamava dal favonio la sua giurisdizione!
L’appello all’arsura era la perdita di una gloria proscritta dai pulpiti.
I viali latini del diritto erano una fogna per lo spavento del tripudio a un franco
cielo. Le istanze – non la memoria dei mentori – ma la morte dei Trionfi!

E ancora, come sempre, la stessa città rullava la propria inconsistenza
sui tragitti romani, e sui selciati – lascivie di gatti tufacei e minzioni d’urine umane –
l’Ospizio scatarrava sentenze dai senili orecchi, e dai pelosi occhi di madonne,
e dai ratti del Riformatorio uno sputo barocco inondava e levitava le viuzze

col mestruo delle lanterne e delle chiaviche – in volo!

(Maruggio/Campomarino, 15 agosto 2014)

*

ARLECCHINATA MARINA

Bambino orientale, ginocchio d’allodola, l’avorio nei sonagli,
negli stracci di segale, abbraccia grondaie e razziate colombe
salmastro
“Di vino nei letarghi sono pazzo. Sono pazzo di fate e…
di leggende.”
Cavalli nei chiostri, avventure boriche fra criniere di fango, strelitzie e smorfie incoronate, ostensori e talloni di platani e pellicani
greggi, razzolate canicole, rugiada imbavagliata, tenerezza fra
corridoi di feltri.
“Carri e sberleffi, ossa e corolle scaglio, fra bottoni e pinete,
fra gabbiani del pianeta Antares, una zamina germoglia, amata Bruna d’infanzia!”

Ecco gli anni dei funghi nelle città d’oriente!

Un giunco con drappi e muraglie, precisa cristalli sulla vetta dei turaccioli
della vanità.
Marine gioie, la staffa rotta a sognare, bagliori e grucce che odia,
il mosaico raccolto dai passeri è un madrigale oscuro: balocchi e inverno,
e parole.

La città aveva ciglia violette. Di mattino, finestre e corvi danzavano,
sottovoce parlavamo dei labirinti, ma la rugiada invecchiava, vanità
delle lune!

Libertà è un inverno e non vi puoi indugiare. Ah, gli alberi! Il sentiero granato stimolava le orme…
“Quando i nostri figli ameranno i morti… grideranno i corvi,
si scioglieranno… queste strane parole staccate dal corpo, fra un pianto e
un rubino…”

Sulle vette sterrate dai sogni, sulle teste che presero a battere nelle foglie innocenti, monti della rosa di fiocco, create leggende, filastrocche,
cateratte scheggiate: bordelli e zaffate, chiarori di mulesche
nei sacri cortili!
Io, girino di lumache moresche – nei sogni dei galli – proclamo inutilmente
Amore.

Coronato, e con le mani che puoi, se vuoi scoprire il sole,
i campi frinivano di capelli notturni la torre. Ombre, le doglie
di neve e gridi di iena. Lei, brillante scioglieva duelli d’ulivo,
tornei di grano.
“Amica, entrerò calpestando la tenerezza, pazzo se amerò il futuro!
Parleremo sottovoce dei fiocchi di neve…”
Uva epica, un antico poeta cantò:
“udrai persino cristalli franare nei sogni.”

Questo silenzio il cuore, la partenza, sull’orlo calmo e vulcanico: un po’
prima degli alberi, al di là dei vetri: questo volto gioca rosso
d’ombra nel vento! Sospetti: questo, questo oblio.
“Lascia, Marta, che le voci tornino!
Senza fine e fra noi questo passaggio è un’eco,
un’incisione il sangue!

Salivano a migliaia nel riverbero oscuro. Dal rovescio di fuoco mi bruciava
la notte, nel bosco di un idolo di ferro torturato, e lei succhiava nella
mia bocca secca la sua vita.
Era come il cielo il suo veleno, quel dolore lento e intelligente…
“Tu, su la lama di un coltello rosso non sei la mia memoria!”

Dove nulla è toccato dal sole, c’è un’incisione nel vuoto cancellato:
come un bambino di vetro nella corteccia ucciso, fuori del dolore luminoso,
il fiottìo si raccoglie e aspetta, frena il coltello di questa città, nel crollo
degli echi, sola e invisibile.

Disarcionare i re degli atroci amori, capelli di gesso dalle labbra, tappeto
di stami, marine fenici. Secchio di prugne, battaglie delle Lucie!
Sovrana filigrana dall’alto scirocco, farsa di sterili gemme bruciate alle sbarre
di nicchie nere, in ghirlande su bianchi rosoni. Bambino levigato, ossicino,
come ciocche granata i galli e le scale, sono gocce puntellate fra spalle
infantili e il talco di questo cranio di foglie!

Cavaliere, tu ascolti un eco:
“Silenzio è antica neve, o forse di rugiada – direbbe la rosa – mai soltanto
è un ombra.”
Ed io ti dico:
“Sui bastioni ci vuole il cuore!”

Addio è una giovane donna coronata.
Marta, sono tornei di tenerezze vere.
Cristina, sono tornei fra i misteri: teatri di rugiada, rosari di canicola
dove smania la tortora.

“Scovate meglio regine fra i sigilli la spada, le coppe spumose, il calpestìo,
la fuga!”
Arlecchino impazzisce e plana dove il nespolo abbandona le gemme, gli aghi
e i mirti e le rocce. Se autunno fosse un bacio. Quando calda neve non
fiocca, come vorrebbe una donna pazza amare i venti e gli amici!
Autunno e i tuoi occhi sono una follia splendida, le tue labbra, due confini
esemplari, e dirai alle lucciole, per me, nella strada
disperato!
“Baciami, con gli stiletti aguzzi di una trappola!
Come un pazzo ho smarrito la follia”.

“Sirio, Regina!, ruberò gli equinozi a deserte contrade di contrappunti e… violini.
Ruberò magli di sferruzzanti baci, dove piagati liquidi sogghignano e un guanto
di foreste gialle fiocca sincero. Ruberò baciate marionette e tarlati frac.
Mani pazze, pazze, fra i castelli e le arcate”.

Incasellato autunno, Arlecchino appollaiato, lucida cateratta, frescura
e fregio di vigne, spirale d’alghe di nidi marini.
“Fra i papaveri, balconi a groppa di madreperla, sogno giardini rosa, scabrosi
oleandri. Giullare illusione, catapecchia di sole e di licheni a stormo, staffe
di zucche e calici fischianti dalle bocche, nelle feste di muschio!”.

Sulla pietra tenaglia marina, (vede) navi uncinate, pavoni di boschi e bicchieri:
“Io ti farò lampada, Arlecchino: Don Giovanni, Poesia, Mare!”.

a.s.
Roma, 1969-1974

*

Prove mostruose
(10)

Ti ho sentito
piangere dalla camera dove non ci sei
Helle Busacca

Erano una vigilia pagana le sei colonne corinzie, e come un santo sui padiglioni
miravo il volto tumefatto della Supplica e fra movenze cardinali s’inceppava il mio
passo, ma nel suono dei sandali gli accesi ceri invocavano la cadenza di un ordine…
la povertà su uno stendardo disegnava ecumeniche e sordide denunce.

Attraversavo la soglia dei miei passi che mi chiedeva udienza sul banco dei pegni
scellerati, l’assise era smaniosa perché fosse plenaria la condanna della Sapienza,
e ti sentivo piangere dalla cella dove non c’eri… l’istanza vagava fra le navate come
un alato magistrale cerebro sulle cattedre, l’assise era plenaria sui cartoni e disegnava

il Perdono della Misericordia… mi chiese udienza presso le sei colonne corinzie…
passavo e cinguettavo un motivetto come il poeta sul Ponte delle Legioni e le mie
lagrime erano sospese come quelle degli Impiccati, degli Arsi Vivi, delle Streghe-
Vergini, ché Amore fu un rosario d’elissi in fiamme indulgenti… teatri in lagrime

di legno! Una vigilia pagana le sei colonne corinzie, la soglia dei miei passi
declinava sonore udienze… non sapevo le istanze o le condanne sottratte ad una
colpa recidiva! Il tribunale mi chiese se le mie lagrime come quelle delle sante
fossero vergini come le navate mai percosse dai voli di candide colombe e se con

gli occhi ecumenici nell’indulto mostravano ai tribuni le loro dita grasse come vermi…
e che ogni esecuzione per loro era una cuccagna… per questo i roghi erano una gioia
incontrollata, un carnevale approntato perché la santità degli atti fosse un sigillo o un
sacrificio cretienne, e mi chiedevo se lo stile pagano fosse stato meno – crudele!

Maruggio/Campomarino, 12 sett. 2015
(all’ora sesta)

*

Prove mostruose
(11)

Se ne tornava coronato di nastri funebri da un banchetto nuziale, l’idea fissa
di scalare le immagini perlacee dietro le quinte lo tallonava come un segugio,
si staccava dal moccolo con lo schiocco della sua lingua mercuriale… lordogravido
di ex-voto infine salpò con la gorgiera gonfia al vento verso Citera, l’irraggiungibile!

C’era una fittizia tempesta, cartonata! Ahimè, l’ancora fu scordata sul palco,
il suggeritore era in pianto più o meno dirotto, il molo sussultava come una prateria
in fiamme, il battello convulso come la bellezza secondo Tommaso-Riccardo indifferente
agli stermini… io raccoglievo le parti, confondevo le trame e le scene:

il raccapriccio non era previsto!. La polena-drago se la rideva attorcendo la prua
come un viticcio! Era di cartapesta la barocca ira di uno spiritato elfo che con una
celeste madonna danzava il foxtrot.. si leggenda che in un’alcova sotto le travi i complici amanti giocavano agli astragali i propri destini erogeni, violacee le ugole… e

chissà dove le aiuole rosse della platea erano le poltrone rivestite di polpa di donne…
Il pianto aizzava le lagrime a deglutire gli affanni e i tormenti, qualcuno indicava
sulla carta moschicida i puttini in volo… io sul molo, irreale, come in un patio miravo
Platero che ragliava davvero, e Ramon e Federico con le orbite in panne – delle vele!

Maruggio-Campomarino, 14 sett. 2015
(dall’ora 16esima alla 17esima)


GINO RAGO

Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
[come Roland Barthes fece con sua madre].
La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna.
La città oggi è nella tristezza dell’autunno
[la mia amica dice che piove da tre giorni].
Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert].
I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.
Mi dicono il menù da lei desiderato.
La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti.
Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio.
Ha scritto in un suo verso.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Forse per questo al Buffet della Signora Schubert
l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
dice ancora alle mie spalle qualche verso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
il perché di quel nome:
«Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

andrò con la mia amica di Vienna
a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
[sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].

 

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5 commenti su “LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA CON FRAMMENTO

  1. giorgio Linguaglossa il said:

    Caro Mario Gabriele,
    qui c’è un piccolo campionario di ciò che la Nuova poesia Ontologica vuole essere e già è. Sono testi che dichiarano, si dichiarano, non hanno bisogno di null’altro…

    • mariomgabriele il said:

      Dici bene, caro Giorgio. Ho inteso fare una miniantologia su 5 autori sempre fissi e non di più, con testi in continuo aggiornamento.

  2. mariomgabriele il said:

    La Nuova Ontologia Estetica rimette in discussione il concetto di poesia. Se poi ad essa collochiamo anche l’introduzione del frammento, allora si viene a immettere un nuovo Jolly linguistico e poetico. Non si tratta di scollamento strutturale dei testi come interruzione del discorso poetico, ma di uno scatto introduttivo per creare una pausa, per ripartire subito dopo, con un nuovo allacciamento. A ben vedere, e se si notano le capacità espressive, alla fine ci si trova di fronte ad un impianto armonico che a colpi di fratture, si presenta come la forma oggi più fisiologica del dire poetico intorno alla realtà e alle dinamiche che la caratterizzano. In ultima analisi, il frammento diventa una statica fissurazione che taglia, divide e ricuce la materia organica del linguaggio.

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