Carte della città segreta (1982)

Casa Editrice SEN, 1982

PREFAZIONE DI DOMENICO REA

 

NUIT

Neppure così, mia nuit che un poco mi stringi
nei tuoi giri di lana,
quando l’albero è già menzogna di frutti
e si recede un pò tutti dai pozzi artesiani,
si può resistere a lungo
a queste gote a stento illuminate
attorno a stipiti abbandonati
come leggende d’Atlantide e muri di Bikini,
in questi luoghi segnati da alti casamenti
dove mi perdo nel freddo e nel fumo di sere protratte,
neppure così è facile dimenticare caligini e astri,
ogni giorno a metà strada, a metà vicoli ciechi,
soli come domenicani,
le memorie accanto al gruppo di famiglia,
un interno di piccoli elisir e di tristezze,
la rosa sui dipinti
ogni volta come una ferita o una preghiera
e ovunque – segnali, appunti,
s e r m o n e s per tutti -,
o mia nuit che un poco ci recludi
oltre i muri invasi dalle ortensie
come dentro ad una città che si chiuda all’alba
con tutte le sue diaspore accese
e come sento, come attendo
i contorni dell’altro paesaggio
dove chiamano i passeri,
troppo pochi perchè si parrli di essi,
mentre nel verde già accolto
s’accorcia il blunotte di maggio,
dì, puoi tu con questo affermare che è già primavera?

***

PIAZZA ARMELLINI

Il freddo, in piazza Armellini,
portava restrizioni, viaggi indiani
allo Spaccio del Grande Orso.

Modigliani sotto la tettoia sbiadiva nei colori.

A quest’ora sarà mutato il tuo nome
e disperso altrove il piedino dello struzzo,
dono dell’artista alla replica di Brecht.

Difficile è resistere al tempo che dilania,
passare illesi tra le lame dei ribaldi,
gustare con ipocrisia i tuoi glacés,
eludere il transito festoso del cane dei Duval,
mentre la città annega negli agguati, sprilla sangue,
ci proietta nel passato esploso coi falò.

***

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI

Sebbene l’inverno dilagasse a Sud
col suo crogiuolo di vendette
su un mondo affumicato di gusci e di pagaie
(qualcuno interpretando instabili barometri
pronosticò neve oltre i rilievi di mille metri,
e c’era chi desiderava i soli di Cipro e di Cafarnao),
ci si accorse che nè i fiumi, nè il legno delle staccionate
avrebbero annullato i rilievi d’un inverno molisano,
prima che la ragazza, dal cuore un poco crepuscolare,
una Cocotte, forse, ne dicesse tutto il bene e il male:
poi, accumulando le ortiche
in un gesto che non era nè segno, nè ira, o altro,
le chiedemmo il giardino dei supplizi,
qualche rametto d’ulivo e di boldo, le corde tirate a nodi,
la punta del fioretto a taglio sulla carne,
benchè sembrasse strano capire il gioco delle pause,
i ritorni delle due ghiandaie,
mentre le carbonaie bruciavano nel piano
un friabile anno d’astri spenti,
e la colomba, delusa nella sera,
ricorreva alle tue mani come ad una provvida stagione,
dopo i soli di Cipro e di Cafarnao
ove si narra che la neve, quando appare,
non sia poi un disguido dell’equinozio
o il colmo del crogiuolo appena rovesciato.

***

EXIT

Al mattino lasciammo villaggi e boschi
e qualche baita di montagna senza la bianca Ofelia.
Uno corroso dalla vita,
additò due o tre gironi d’ozio e di piacere,
disse EXIT agli inganni del silenzio
(un triangolo di terra e tanti fiori appena colti,
l’amico che ritorna dall’Ogadén,
dopo una stagione di pene e di torture
a sussurrare parole oscure:
– resisti prima che ceda la brossura,
indugia fino all’ora nona e oltre),-
mentre molti, dal cuore già contrito,
s’attardavano tra panche e cànapi
o discutevano tra loro di storie un poco antiche,
poi una donna aprì un tugurio,
si diede come agnello al sabato che entrava,
parlò dieci o venti lingue, tutte rare e sconosciuite,
indicò con gesti un pò minuti, il fuoco della vita,
senza lasciare tracce e indizi all’ultimo venuto
o a chicchessia.

***

POESIA/JULIET

Nei margini d’un giorno semifestivo
possiamo anche decifrare l’impotenza delle ore,
arrischiare con il notiziario della sera
qualche notizia sui fatti di Kabul,
trovare un senso alle trappole del tempo,
discutere, se possibile, su quest’ultima plaquette
(la mia morte segreta è il silenzio di Juliet),
dimenticare l’essere e il non essere
(l’essere al di qua o al di là delle prodezze dell’acqua),
quello che rimane
(si è ripetuta anche quest’anno la follia di vento e di gelo),
dopo le costrizioni,
(o mia piccola alouette/Juliet, ti guardo l’ali,
la tua tristezza maledetta,
ti sfoglio il pessimo diario che nessuno leggerà,
già graffito d’Altamira),
prima che si faccia mille volte più mille il giro
del lazzaretto
o si giunga alla tua casa con un piccolo regalo nelle mani,
un libro, forse il tuo roman de vivre,
oggi mai sfogliato a fondo o letto tutto.

***

ESODO

All’alba qualche striscia di fumo ancora usciva
dagli ammassi di pietra e di catrame.
Si tornò indietro, per viottoli e stradine,
un vecchio cambiò patria, dimenticò le ossa
miste a radici di sughero e di cactus,
così ci dissero tornando nelle case
(alla settima di Beethoven, tirata avanti da piano
e violoncello,
ritrovammo l’assurdo dei lapilli),
senza più sogni collodiani,
poi tre volte cantò il gallo e tre volte ancora
senza che nessuno fosse rinnegato o crocifisso
(intanto dischiudi gli usci, tocchi i capelli radi e bianchi,
arresta le metamorfosi del tempo),
mentre molti già si piegavano al dolore
o lo spezzavano come fuscello tra le dita
e qualcuno, raccogliendo quel poco che restava,
se ne andava per viottolo e sentiero
dopo la Pasqua che da molto più non viene
sul fronte delle genziane e oltre.

***

CAPO HORN

La rete di tralci nell’orto di salici e di more
celava al vento la pietà dell’ulivo genuflesso;
a scatti passavano sopra le tettoie
i picchi muraioli.

Per te e per questo innominato mese
risalirò chiocciole di nevi,
ritorneranno storie di Tebe e di Smirne,

qualcuno, qui e altrove, viaggiatore o anacoreta,
lasciando vecchie pietre annerite dagli assedi,
dirà il senso delle sere occulte,
(traccerà mappe e mete, fuori dai gorghi di Capo Horn,
quando i boschi cedono alle forre
e la calva stagione non desiste con i suoi aspri umori
lungo i sentieri dei mufloni
se l’agave cresciuta sotto i ponti
trema per la piena che la travolge
e il pane diviso profuma nelle mani di chi lo lievitò.

Bianca tra il verde del fiorame,
la casa invita ancora a riferimenti d’aurore
le voci protette dal silenzio
nel freddo luccichio dei corridoi.

Come un’ombra resta nel dirupo la bruma della vita:
sovverte la memoria, inasprisce il suonatore di clarino
in questo giorno di festa e di povertà
che come un seme ti cresce in petto

ed era l’autunno non il male che guasta i colli
ma la strada aperta in mezzo al mondo
col fumo che saliva da sottocosta
e annullava nel riflesso del vetrino
la tua segreta pagina di polvere e di luce.

***

IL ROVETO DI MARZO

Si potrebbe resistere al vuoto d’ombra,
abbattere steccati che chiudono paesi d’anima,
muri difficili da scalfire,
dilagare nella pianura perchè è Pasqua
e tutto intorno è avventura di sole;
riemergere come accecanti bucaneve,
dopo il lungo transito sul ghiaccio
dove ci lasciò il roveto di marzo.

***

LA TRANCE DE VIE

Il paese assoluto (memoria o pinacoteca),
più non ti esclude dal giro equinoziale
dove l’ignoto è un piccolo Pierrot
che non accenna per noi
mai passi di danza il sabato sera
quando il lumaio rigetta con astuzia
il flusso delle ellissi
(Ofelia, più triste di Pierrot
mi traeva dai giorni di larva),
fuori dalle croste consumate.
(Prima delle idi concedi un varco al nugolo di vespe,
prova almeno una suite su questo schema universale).

Dunque erano vere le pause di marzo
quando parlammo del mese innevato
come di un dolce armistizio
mentre uscivamo dai luoghi di pena e di dolore,
un poco desiderando epistole e incunaboli,
prima di svanire nei meamdri di Medina
dove ci cingeranno il capo di serpi e di mirtilli
o ci chiederanno, dopo gli urli e gli scudisci,
la trance de vie per l’inferno o il paradiso.

***

IL COLMO DELLA CITTA’

Poche astrazioni e poi il riflusso nella privacy
lasciava la domenica violata dalla brina.
Mancava l’ipotesi gentile o il fiore all’occhiello
sull’abito festivo, un poco smarriti per le strade
(ma poteva essere una qualsiasi avenue o street
di Parigi o di Liverpool se il clamore era dettato
da poche torri di controllo per un tragitto
Roma. Glasgow),
dentro un pensiero dominante.

Alienante era la solitudine serale,
chiedere ai pochi tombaroli, usciti dalle cripte,
residui di scavi clandestini,
lasciare messaggi o tracce,
mentre si sfarinava qualche idolo di sabbia,
passava intatta la polvere negli occhi
o trafiggeva la nebbia da parte a parte
il colmo della città e il suo margine.

***

CARNET

Come l’allegoria dell’acqua
giunse al calvario delle selci dopo il talento dei fuochi,
brevi, perchè consunti dalla cenere,
fu trama di vicoli e stradine
(gli uomini macinavano tragedie di spighe,
giungevano trafelati al carro delle lacerazioni),
in una vicenda di salici prossimi a soffrire
oltre un surplus di anni indecifrabili,
e poi il livello di guardia sempre uguale
dentro paesi o mura,
l’amuleto al braccio
che non scaccia il più piccolo dei folletti
per la ballata della vita en rouge,
e ogni giorno solo davanti al simulacro dei visi morti,
le persiane sempre chiuse
(diresti quasi una casa inabitata
dopo il diluvio o la bufera);
questo è un carnet che lacera gli occhi,
così è se vuoi,
se non vuoi al confine ci lasceremo
e poi il vento che distrugge,
la tristezza chiusa in pugno,
per aprire o per chiudere con la sera
il tragitto d’una mongolfiera che mai s’alzerà.

***

MODULAZIONI DI SPAZI

Una poetica di brume o forse solo il transito
di luce greve su quest’orrido parallelo
(consentimi questo dire acerrimo e crudele,
queste pause brevi ora che s’accendono gli spari
e si tramuta in guerra anche l’ultimo pensiero),
l’alfiere sempre in campo per lo scacco alla regina,
non puoi tu ignorare i brividi che salgono alla schiena
o l’allegria del tempo sopra ferite e squarci;
meglio sarebbe parlarne al settembre vespertino,
a chi promette un giugno di pace
con una danza o giga:
proponilo, ora che tutti hanno punte per ferire,
racconta che non esistono per noi,
nè qui o altrove,
modulazioni di spazi e luoghi per morire.

***

ALFABETO ASSIRO

Che ne sa il paese, vocina stridula,
arazzo indisturbato, orto invalicabile
del dramma delle foglie?

Ha un bel narrare la sera
con le sue parafrasi accese,
corposità nell’ombra,
tra gatti fosforici e assassini.

Così le rivedo tutte o quasi
le penombre antelucane
e lei che scrive un suo alfabeto assiro
venuto alla luce dal fondo delle immagini,
oltre i chiusi tombini di gennaio,
avaro di luci e di fiorame.
perchè così vuole l’anno
crocifisso ai muri,
– l’anno senza più strade lampeggianti a sera,
come boulevards-,
tra vecchi ospedali di quartiere
dove la nebbia annulla l’ultima speranza,
mentre ammette una morte-intermittenza,
scruta ciò che è prossimo o lontano,
prima di aprire piste d’anemoni e di croco
ai giorni che avanzano e che verranno.

***

PUNTO DI FUGA

Non è questo il quartiere
passato oltre il bosco d’amore e di betulle,
nè nostra la pena di ritrovarci soli
tra mura antiche e un poco ostili
– si diceva parlando con gli amici
di Brema e di Torino –
(ho ascoltato anche loro nel freddo di novembre
in un’aria di violino, punto di fuga e di paura),
di storie mai sopite,
mia città nemica
che chiudi oltre i ponti di tufo e travertino
la via al beghino insonnolito.

La breccia è dove un gorgogliare d’acque
ritenta la strada invasa dai cespugli
quando non lasciano più fumo
gli sterpi a macchie sotto i muri.

Scioglila questa luce che sboccia poco
lungo i prati toccati dal garbino
dove s’alza a vortice l’ombra come vespa.

Dissolvi tu, in neve o fiordaliso,
la vita breve, la vita che resta.

VALLECHIUSA

Il giro elle lucciole sopra le rovine
non offuscava la fragile specchiera
del fiorito maggio di nespoli e di salici
nei paesi ancora chiusi dalle nevi
dove chi lasciava il perduto estuario
non riportava che pochi segni
e poi anfore, amuleti, carte della città segreta,
di rari cacciatori, oltre i tumuli disfatti,
come se il vento li avesse sospinti altrove
o dispersi su qualche cima del Lavaredo
dove è vano chiedere notizie del Dio dormiente.

Molti si dispersero prima del viaggio
o chiesero dell’anno che fa più maturi i tuberi nei vasi
se mai vi fossero globi accesi nelle case
o bandiere da portare al vento,
chiusi tutt’intorno dal piccolo fogliame
fino alle porte dei freddi lari
dove il giorno si spezza e muta il tempo
in labili vigilie.
Riappari,
ma non sei tu il tumulto che preme nelle vene
e fa sicuro il trapezista dell’Holiday on ice
nell’abbaglio che apriva l’intimo paese
dentro un chiaro schemo.
Così morivano le stagioni a Vallechiusa
e ogni pozza era fonte per la volpe
braccata dalla muta.
Stupiva il ritmo delle ceneri,
la costanza delle ore,
la fiamma serbata a lungo
se il fumo che saliva
tutto cedeva nell’incontaminato mese
prossimo a salpare lungo l’angiporto.

SCATTI E TRANSITI

Non è poi un dirupo o un giro inutile
di città e paesi,
nemmeno il riflesso di specchi accesi
su immagini e silhouettes.
Riesco così,
ora che la stagione non è ancora diventata colle,
a seguire i ritmi di quadranti e sfere
e chi con colbacchi e sciarpe,
attraversando il mese,
resta ai margini di feste e sagre,
tutte le volte come un male fino all’osso
e mai nessuno a scompigliare tele
o a portare anfore di pace,
quasi una stagione di scatti e transiti:
tutto un bruciato d’anni e di comandi
e la calcina che non regge,
il fiume che trascina,
l’ansia di te che viene e va
dopo l’ostracismo delle rondini.

Discretamente ci inabissa la stagione,
discretamente e ovunque ogni brocca è colma.

Qui la contemplo la stagione,
qui la seguo negli umori,
nel suo perfettissimo disordine.

LETTERA DA EFESO

La luce a sghembo sulla golena
si sciolse svelando il paese d’afrori e di belletti
e chi s’inoltrò lungo il sentiero
trovò solo l’erba nuova di dicembre
e qualche bracconiere senza cani
e fischietti di richiamo
dentro oscure palafitte
ignote solo a chi restava nelle case
a narrare storie inascoltate,
mentre la donna apparsa dietro i vetri,
esile come un giunco, benediceva le vecchie piaghe
e i giorni acerbi come verghe
prima che qualcuno, profeta o vecchio sherpa,
dicesse a tutti: – questo è il sentiero
e qui discendono le nevi
dopo l’inganno della giovinezza. –
Allora, i pescatori che stavano alle reti,
approdando all’altra riva,
s’unirono alla folla,
s’accordarono col nettare e col fiele
bruciando la vita come sterpo.

HISTORIA

Allora (era un tempo di méliga ed erbe alte),
chi lasciava la brughiera per le nevi del vulcano,
con i templi nella valle un poco distrutti e abbandonati,
si disse che non avrebbe più smarrito il fumo delle case
o il sentiero aperto in mezzo al bosco
ove è raro trovare gnomi e quadrifogli,
perchè tutto sarebbe tornato come prima
– l’acqua all’acqua
e il sale al sale –
nel mite vento che fa spiga il ricordo nella sera
tra segni, volti, parolechiavi
che non dicono più nulla ai fiori sul sagrato,
come se il guru o altro venuto a portare il fuoco
e ad allargare il mare
avesse il giglioluce nelle mani,
o la felicità che non teme il grimaldello
perchè tutto è stato già detto o scritto
riferì il vecchio spiando la primavera un poco
in mezzo ai rovi.

L’ACQUA DEL DOMANI

A svanire il murmure del mare come un’eco
nelle stanze
fu il passo dell’inverno, silenzioso sulle piazze e
nell’erbario.
Chi parlò di pace,
(tornando da baie un poco solitarie), conobbe le lame
e i dardi,
disse poco della pioggia che si fa oasi agli occhi del tuàreg,
poi spingendo al largo la piròga, staccò i chiodi dalle travi,
mitigò il dio-ciclope con i petali e gli aromi
mentre i pastori, fuori dalle dimore, leggendo antichi libri
o tomi,
dimenticarono botri e fiumi disseccati,
luoghi-miti, sentieri di Moses e di Rebecca
ove ripartire dopo l’ibrido equinozio
che qui ci assale, ci disperde nel chiuso nòcciolo del tempo
con dolzore et plazimento
mio delta, mio rivo arborescente
che inondi di miele le nostre ampolle
e illumini at iorno il bosco, il monte et onne sera
umbrosa et humele.
Lieve volò la passera dal ramo alla grondaia
e fu un guizzo il raggio che scattò nel limpido vivaio.

Nè sapemmo mai da quale antro uscisse quella luce
ad accendere nell’ombra l’acqua del domani.

DETERMINAZIONI DI FINE ANNO

L’ora che riporta ipotesi di genesi
per un messaggio oscuro del piccione fuori rotta
nei giorni grevi, come cerchi nel cuore dell’abete,
l’ora che mette fine ad una improvvisata allegria
di mezze lune colorate come in una chiassosa
Chinatown
e ci abitua alla rossa veste del ciliegio
o si sconfina nel freddo e nell’afa
e nessuno chiede notizie di te
e di tutta l’acqua del mare per le nostre piccole giare,
lasciamola alle serrate sere che non brillano più,
all’ignoto liutaio valligiano
nel paese di muschio e bucaneve,
proviamo a discuterne ancora
assieme ai ragazzi di padre Kolbe,
come se la primavera ci avesse svegliati o appena
illuminati.