Astuccio da cherubino (1978)

 

La presenza più folta allora finisce ad essere quella di una poesia che cerca di manifestare un messaggio di livello coscienziale: soprattutto rivolto alla meditazione della morte (e, in misura minore e più fragilmente, al ritratto sentimentale). Si recuperano, a questo livello, gli affetti familiari, ma come ritratto di personaggi disegnati con forza, senza cedimenti al patetico.

Giorgio Bàrberi Squarotti

EPIGRAFE N.1

Bisognava attendere,
essere composti nel dolore,
trovare un angolo e rimanere soli
mentre c’era chi trafficava per le stanze,
chi raccattava la speranza caduta a pezzi
e l’abisso oscuro allontanava da me
ogni tua forma, i molteplico colori.

Anche così
la morte non ha reciso molto
se qui, nella tua casa,
ancora c’è chi ti ravviva di porta in porta,
riesumando oggetti, incespicando storie
per nulla desuete o lacrimose,
se m’ostino come sempre
ad attendere nel vetro che s’incrina
il tuo graffio dall’aldilà.

***

EPIGRAFE N.2

A volte
è come un rito d’altri tempi:
c’è chi accende il lucernario,
chi divaga sulle notizie della lapide
e gennaio fa prodigi contro un muro
di gerani e non ha senso abbellirti
come un piccolo giardino
se per te mi fingo
una nuova vita e mi calmo soltanto
sapendoti felice, in altre ionosfere,
fuori da questo luogo
che se mi volgo intorno
è una lunga città di morti, di segni,
di epitaffi strani.

***

EPIGRAFE N.3

Non sempre la tua assenza
è un lunghissimo black-out.
Spesso riemergi dal buio
in piccole intermittenze, baluginii,
vicino al lumino sopra la cònsolle.
– Non è che si ricavi molto con le preghiere –
dico agli altri
mentre sgranano la corona e attendo un tuo segnale
– tremolio o luccichio -,
brevi notizie dal tuo mondo.
A quest’ora,
– essenza o crsalide –
probabilmente già in un’altra dimensione,
dovrebbe soccorreti un Dio di pace e non di guerra.

***

La tua fede si riduceva al minimo:
pochi idoli, feticci effimeri
di chi crede che la vita sia solo un caso.
Ma Pasqua ti abilitava,
ti scioglieva dal martirio
del Dio assente o presente.
E come avrei allora potuto non amarti,
scioglierti dal dubbio totale?
– Si trattetrà -dicevo,
– di un vuoto da colmare -.
E ne venivi fuori titubante,
un poco in disagio per il lungo subbuglio
della ragione al profilo morbido dell’aurora.

***

Il tuo guscio di noce,
troppo angusto in un viaggio d’eccezione,
era un astuccio da cherubino
e tu un archetto incantatore
per cipressi e rododendri,
sempre più in fondo ad un cunicolo di sogni
se mai allora ne avessi uno.
Ma è assurdo
pensarti altrove, chiudere per sempre
con gli anemoni e le cose
lungo un fiume di nebbie e di carrubi,
con un lupo trifauce a guardia dei tuoi occhi,
lasciati al buio, al silenzio che deturpa.

***

Rinuncio all’assurdo, ai contatti
con le ombre, mentre gira a vuoto
il nastro del vecchio Grunding
per un tuo messaggio che non arriva.
Dicono
che morire è un lento allucinogeno,
un rapido svanire senza una stabile traccia.
Ma tu sei vivo, palpiti ancora nelle cose,
nè io ho bisogno di chiederti altre storie
se i miei figli piantano semi,
coltivano fiori per novembre,
se gli amici, i nemici riemersi
dalla penombra, ogni tanto cercano te,
a chiedere ragione della morte,
a far violenza del passato.

***

Come posso ritrovarti
tra mattoni e calcina,
qui tutto ben squadrato, livellato,
con questa frana all’improvviso
di terra e di radici?
E’ già molto
ricomporti nel ricordo,
mentre c’è chi tenta l’omelia
sul tuo bozzolo di neve.
Se qualcosa emerge
è subito un collage di fossili e lumachine.
Io, in disparte,
lontano da quella archeologia,
ti penso altrove: bruco, passero, girino…

***

Può darsi che sul tardi qualcosa emerga
dal fondo dei crepacci – buio o balume -,
tutto il diario di giornata
con le mappe e i sestanti,
che qualche reporter o viandante di passaggio
si fermi sulla tua terra strana,
fredda più di una dàcia
e ne sveli il segreto della tua staticità.
Non io,
fermo in mezzo a lenti prismatiche
e istantanee
vecchie, un pò in disuso,
come il tuo nome ormai.

***

Parlarti è impossibile
se in fumo o in sogno
sempre mi ritorni
per un monologo o per le tue pozioni.
Ma fu il colpo d’ala quando ti chiesi
perchè mai ti trovassi nella necropoli.
Ora l’inferno è sapere
quando riapparirai,
come farai a battere alla porta
con quelle mani già ali di farfalla?

***

All’orologio di San Bailon
nessuno fece caso nemmeno il vecchio boxer
insonnolito contro il muro.
Forse era il sogno del destino
il lungo scampanellio, il messaggio
di ignoti spazi, d’altri ponti radio.
Fuori c’era poco sole, poca brina
per le vie.
Al ritorno,
mi salutava una esangue giovinezza.
Era mutato il luogo,
il volto di mia madre, tra il pianto
e la pazzia.
Ed io a lei,
a dirle inusitate bugie, a calmarle
l’amara acqua della vita,
prima che il mondo, gli altri….

***

Sciamava sui monti una mite estate,
lungo il fiume tramava l’inganno
l’ignoto pescatore alla spalletta.
Tutto intorno batteva l’arsura
fino al muro d’ombra.
Era settembre un bisturi
sui fianchi della terra.
Tra boschi e colli diluiva a poco a poco
tutto il male dell’inesistenza.
Lento il giorno traeva dalla bigoncia
liquide ore di pace per il beghino insonnolito
e mi lasciava nel fondo
l’eco del Salmo appena sussurrato,
la vertigine del Tempo,
il solco della barca uscita allo scoperto.

***
Piegasti la schiena non una
ma mille volte
perchè si dicesse a tavola
al tuo ritorno:
– Signore, grazie di questo pane che ci dai –
perchè sia il buono che il cattivo
avevano per te ognuno
il bene in fondo all’anima.
Oggi che non abbiamo più nulla
da chiederti e tu da darci,
noi figli, tremiamo di paura, padre,
al pensiero del domani,
come chi porta tra le mani
un vaso di cristallo.

***

Sempre verrà l’autunno,
il rosso delle vigne
a terrazze sulle colline
fin che dura l’estate
sui boschi e i ramarri.
E’ un’erba verde
la voce che non torna
chiusa nell’orto amico
nel tempo dell’amore.
Legno nero e fumo.
Si riapre il dolore
come una finestra vuota.
Sempre se ne va l’autunno
in una tristezza
che nessuno più direbbe antica,
di ramo in ramo, di foglia in foglia,
come un furto vero
il nostro pianto greve.