Carlo Felice Colucci (2001)

UN FIERO TRACCIATO DI VERSI E DI SUONI BECKETTIANI

Prima parte

In uno dei suoi libri più recenti Tempo di bilanci (Einaudi), Cesare Segre si chiede se sono utili i consuntivi e se si può credere ancora alla loro funzione pedagogica in un tempo in cui l’umanità sembra rifuggire dall’esercizio della memoria cancellando quel che resta del suo patrimonio culturale e civile, dandosi alla fine una risposta negativa. Il fatto è che i bilanci letterari, al di là di qualsiai frenaggio pregiudiziale, sono una necessità culturale irrinunciabile, non potendo la critica sottrarsi al suo ruolo informativo, per ridursi, come ha affermato Romano Luperini, a chiacchiera impressionistica e mero intrattenimento. Questo saggio monografico vuol essere un consuntivo dell’impegno letterario di Carlo Felice Colucci; un poeta di lunga militanza che, nel suo congedo dalla poesia, così si esprime: “Una cosa ancora: è nelle intenzioni mie che i versi de “Il tempo del seme” siano gli ultimi che pubblicherò, seppure certamente continuerò a scrivere poesie: ché senza di esse la vita mi risulterebbe ancora più squallida e impraticabile. Ma dopo aver tanto scritto ed anche pubblicato, perseverare a dare alle stampe cose che quasi nessuno legge, non vale più la pena. Meglio interromperlo in tempo, questo “viaggio inutile”…. Meglio andarsene in punta di piedi, mentre vi è — forse — ancora nell’aria l’eco di qualche applauso, divenuto ahimè sempre più raro. Né credo, fermamente, di riuscire mai più a scrivere dei versi belli — almeno per me — quanto quelli pubblicati negli anni 70 e 80… E poi, combattere con gli editori è terribile! Oggi più di ieri”.
Certo è che “ogni rinuncia ha i suoi canoni”, come insegnava l’avvocato Clamence di Albert Camus:” può essere drammatica e farsesca, dolorosa o serena”, e quella di Colucci è sicuramente una decisione sofferta, che chiude quarant’anni e più di esperienza poetica, caratterizzata da un linguaggio, fluido ed ellittico, sul tema dell’assenza, con la citazione postuma “fate questo in memoria di me”, che ci riporta a certe gestualità da Ultima Cena, in un viaggio, contrassegnato da una mappa di messaggi laterali ad un discorso tecnico-scientifico, patologico?, anamnèstico?, rivolto ad una umanità condannata al disamore e all’oblio, come i due personaggi-giocatori, Hamm e Clov di Samuel Beckett, in Finale di partita, in cui gli spazi della vita si restringono nella loro inesorabile nullità. In questa realtà in frantumi s’innestano ologrammi di memoria, a cominciare da “Una vita fedele”, (1963), sebbene qui il paesaggio si esteriorizzi come metafora del Sud e radicalizzazione dell’elemento naturalistico e mentale. Ma è con “La pagaia” (1967) e “Placebo” (1975), e, in particolare, con i volumi successivi, che Colucci abbandona ogni residuo incantamento del territorio esterno, per accompagnarsi ad una poesia riflessiva, in cui Egli stesso svolge il ruolo di un giocatore perdente, di fronte al volgere di un’età, dove il senso riduttivo delle cose, è riportato con una scrittura introversa e di lutto permanente, con brevi pause nel ricordo, come approdo ad un paradiso perduto, dove la felicità è nel tempo ritrovato e solo, momentaneamente sottratto al suo inesorabile processo di autodistruzione.(Remo Bodei, in Destini personali, L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano Feltrinelli, 2002, pag. 131).
Tutto questo è ampiamente rilevabile nella sua poesia di ieri e di oggi, difficilmente cancellabile dalla nostra memoria, per via dei tanti incipit, che si distinguono per la loro originalità, come in “Preghiera occidentale“: un volume fondamentale per assimilare la poetica del Nostro, qui documentata: “E certi hanno profonde cunette / ho finito i gettoni, / altri i mocassini a punta / gambe di legno cuori d’anginosi / e svolto agli angoli del tempo, / di sogni siamo fatti / miei compagni cancerosi /”, o ancora : “Uno con due valigie grandissime / e mai sapremo chi, e cosa portasse / e il soldato che arriva trafelato / assieme a cifrati ordini matti / io sto solo invece, e non ho donne / o le serene monachine estive dal gelato innocente sotto i voti / chissà come sarà dopo tanto / né somiglio all’uomo dei lustrini / ma dentro un vecchio lessico infedele / un bastardo buono da odiare / con cura e nostalgia ragazzi / nati vissuti nel terrore, / chissà uno come farà dopo tanto / un diario di sistoli e diastoli / se manca perfino la memoria “ /, fino alle tante chiuse d’intervento autobiografico: “Ma in pigiama nessuno mi ricorda / nessuno crede che sia dottore / che abbia una paura più grande / pro e contro dentro e fuori fa buio / e so di non rispondere a tutto / solo rifarei il cammino a ritroso / lentamente, con estremi passi / dicendo a ognuno per sempre “/, realizzate con un linguaggio di carattere cifrato, franto ed emozionale, (diverso dalle sequenze surrealistiche, continuamente portate al limite del grottesco da Cesare Ruffato, un altro medico-poeta), per scandagliare le patologie umane, e ricavarne specifiche similitudini sul terreno dell’esistente, con retrospettive domestico-familiari: “Col rimpianto amaro degli orti / il pendolo tradito / a Natale papà viveva ancora / attento alla sua digitale in gocce”; versi che hanno il ritmo affabulatorio del racconto, quando i temi puntano su un Eden lontano, come approdo ad un paese di piccole cantine, racchiuso in un’arancia, con tanti spicchi di memoria, ognuno con un proprio elemento di rifrazione, modulato da un lessico attestante la fine delle illusioni e della speranza. Su questi parametri oggettivi si forma una poesia di grande amabilità, nonostante le spietate relazioni sugli aspetti residuali della vita, riproposti con criticità espressiva, tramite l’aggancio ad una lingua ironica e mitopoietica, alta, rispetto alla verticalità dell’ispirazione, (si legga, ad esempio, il testo dal titolo “Eurobarcarola” (All’Europa) da “Il viaggio inutile”, nel quale si armonizzano insieme, letteratura e poesia, citazionismo e plurilinguismo; ma ve ne sono tanti che meritano una doppia lettura e attenzione), e poi ancora, naufraga e superstite, erogatrice di pulsioni, immaginosa e reale, crepuscolare e nostalgica, transitiva e luminescente, eversiva nella costante dichiarazione del negativo, ma sempre coerente nei dati assertivi, correlati al paradosso dell’esistenza, come all’ossessione del conoscere del ricercatore, sembra poesia dell’assurdo, qui e là. Ma è molto altro. Più in generale, è un viaggio poetico di concretezza espositiva, alla ricerca di punti di fuga, per depressurizzare il negativo, subito dopo ricomposto in La bella afasia- Lacaita -(1983); “Memoria e fuga” (1987); “A fuochi spenti” (1992); “Il viaggio inutile” (2003); pubblicati presso le Edizioni del Leone e, ultimamente, ne “La Materia dei sogni” -Lo Spazio, Ed. d’arte, (2004), in “Io per le strade”, (Sabatia Editrice, 2004) e ne “Il tempo del seme”, Gazebo, (2005): volumi che testimoniano un’operatività poetica, compressa da una visione esterna, drammatica e inquietante: un vero teatro dell’assurdo, contaminato da continue prefigurazioni della morte, con tante piccole sentenze, in un pessimismo che “appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò l’universo con il male e ne rimpianse l’esistenza” (Giancarlo Rugarli). Si comprendono, così, certi esiti testuali, portati a incenerirsi di fronte alla realtà, e al gioco poetico dell’assenza e dello smarrimento. In questo caso, il senso critico del poeta, si scinde in mille atomi concettuali che, come ha scritto Giorgio Caproni di sé, sono “la condizione dell’uomo contemporaneo con sulle spalle un passato che crolla”e di cui si fa fatica a puntellare, tanto che anche nell’ultimo volume Il tempo del seme, Colucci rimarca le tracce di un viaggiatore cerimonioso, che ha dialogato con la Morte nelle buie stanze delle dissolvenze, attivando tutta una serie di contrappunti, fuori dall’orrido e dall’orrifico, per una ragione più alta: quella dell’umanizzazione del Nulla, per ritrovarsi, alla fine, solo, in un mondo sepolcrale alla Friedrich: a volte, tragico e romantico, ma di un romanticismo che si sbrina davanti agli stilemi e ai neologismi, mantenendo inalterato il proprio linguaggio testamentario e noir, intorno al tema dell’horror vacui; Lui “che dopo aver sfiorato e affrontato anche lenticolarmente gli esperimenti e le avanguardie letterarie del secolo, i loro parasintattismi e i loro iposintattismi pur volando basso, ha preso proprio, ineluttabilmente a volare alto. E certo, non da ora” (Marco Forti). E qui come non citare qualche verso da “Il tempo del seme”: Dovevamo imparare a vivere, noi, / e a morire per essere uomini / a non sentirci Dio, Universo, Luce / quando scrutavi il mare, isole perse / e sapere che l’Atlantide non c’è, / padre come l’ombra che a notte viene / e che non sa, o come il mio doppio per vie / remote e sempre più anguste le porte / ove per traverso bussava il vento, e / capire dovevo chi sono e dove / entrare nel gioco di suoni e foglie, / imparare tutte le voglie strane / il taglio del cordone, una festa, / complimenti, ossequi di vetro, gli addii / quei rochi ebbri ritorni di gabbiani, / l’isola di Arturo qui dovevamo / imparare il pudore violetto, occhi, / pescare nelle sfondate borse, ime, / sigarette e Upanisad quelle sere / invernali (il nastro più non scrive ormai), udire in silenzio di nuovo il cigno / l’ultima sinfonia della partenza / (tango, vivir y morir abrazados,) imparare ad essere il dottor Niente. “Da questo luogo tutto interno e invisibile della sua scrittura in cui dopo aver a sua volta superato un lungo percorso sobbalzando, caracollando, irridendo, inseguendo, contorcendosi e, citando, sacrificando al giuoco sempre mutante della modernità un tenace sentimento poetico: al momento di cantare, di coglierne i simboli in verticale, lo sfida, lo suscita, lo risuscita e lo fa agire sì con forza e furore “(Marco Forti), prima di immaginarsi solo come Malone, col poster d’una vita in due, in tanti / i fiori secchi della ricorrenza / e poco altro, poco. Ed è proprio in questa plurale oggettivazione del dire che si evidenzia l’identità poetica di Carlo Felice Colucci, espressa su un tracciato di versi e di suoni beckettiani, su cui si vengono ad accumulare le fobie esistenziali e i ritmi, percussivi e grotteschi alla Günter Grass, dei tamburi di latta: emblemi di un mondo larvale, fino a denunciarne le cadenze d’inganno, accelerate nella sintesi e nello scatto figurativo, di fronte al martellante remember me, aspettando, inutilmente, Godot. Altri segni diversi da quelli che abbiamo letto, li troviamo negli ultimi Inediti, attraversati da un pensiero nomade, che non esclude nel significato il gioco distruttivo condotto da Hamm e Clov, nonostante il poeta ci abbia abituati da tempo, a sostare in una zona, luminosamente oscura, nella quale naufraga la marginalità della vita descritta con una modulazione lessemica, proveniente da più spazi psicosoggettivi, per rappresentare, nel più aperto spirito di laica religiosità, un viaggio solitario al centro della notte. con un codice linguistico tradizionalmente alleato con il pensiero negativo di certa letteratura mitteleuropea, o del tempo della Krisis, che si riflette sul male di vivere, nell’illimitato senso del Nulla, riportato in tante short stories in cui la riflessione avviene per scansioni temporali nelle quali fibrilla e si perde un Io pluriautobiografico. E’ questa la strada percorsa e amata dal poeta che transenna la propria vita, con immagini urticanti, e di estremo pessimismo, nel denunciare la fragilità delle cose, fino a formulare ineccepibili — cantos — dove la condizione di provvisorietà si allinea col più alto grado di sofferenza che, come scrive Giorgio Barberi Squarotti, diventa messaggio di — bellezza e di verità — di — tragicità e ironia. Un impegno tutto esistenziale, dunque, e quasi mai ideologico.
Dopo la neoavanguardia, i poeti hanno estremizzato i caratteri della Forma, con messaggi inesistenti, attraverso i quali “si può stare in ascolto, si può sprofondare nei suoni, si può, se si desidera, comprendere, attraverso le note, come sono strutturati, ma non si farà molta strada cercando di verificarne il messaggio generale e i nessi logico-causali”(Hans M. Enzensherger). Per fortuna non sempre è così, e più recente, lo dimostra la poesia di Colucci, orientata, una volta smesso quasi il verso libero, su nuclei di realtà oggettivati dall’uso degli endecasillabi, lievitati da improvvisi coups d’aile, che riportano in superficie la centralità del segno poetico, non importa se alla fine del tunnel non troviamo la luce, ma solo il luogo del nostro buio, attraverso considerazioni antropocentriche relazionate con un linguaggio neurofisiopatologico, dopo la perdita della Favola e del Sogno. Non a caso l’esistenza per Colucci è un corpo autoptico, di fronte al quale non esiste prontuario terapeutico, capace di guarire il male di vivere.“Lo strumento di conoscenza” finisce con l’essere la malattia, esplicitata anche nei suoi romanzi, con un lessico gaddiano, di tipo ematologico in La corsia, gerontologico ne I figli dell’arca, orgonico ne I fuochi di Sant’Elmo, e psicologico ne Il gatto e il Rembrandt, nel pieno conflitto di segni e significati, psiche e soma.
E qui, per chiudere, in qualche modo, codesta prima panoramica esegesi, ci vengono in mente, per il viaggiatore notturno, che sembra essere il Nostro nel suo duro, sofferto cammino poetico, i versi di T.S.quattro Quartetti)Eliot, (….) “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà arrivare al punto da cui siamo partiti e conoscere il luogo per la prima volta”. (Quattro Quartetti).

Rovine sparse confuse con la sabbia grigio cenere
vero rifugio. Cubo tutto luce bianco assoluto facce
senza tracce nessun ricordo. Sempre e soltanto aria
grigia senza tempo chimera la luce che passa. Grigio
cenere cielo riflesso della terra riflesso del cielo.
Sempre e soltanto questa fissità immutabile sogno
l’ora che passa.

Samuel Beckett

A colloquio con l’Autore

Quando anni fa manifestai a Colucci la mia intenzione, già da un poco vagheggiata, di dedicargli un saggio monografico – da far nascere nella nostra amata Terra molisana- lessi subito sul suo un po’ attonito, stanco volto un’espressione di stupito disappunto. E, trascorsi i primi momenti di interrogativo silenzio, mi sentii dire che lui, cose del genere non ne aveva mai pensate e tanto meno chieste; che s’era fermato a qualche sporadica prefazione – genere di cui si considerava non simpatizzante, con le debite eccezioni- ed alle recensioni, nate qui e là per la Penisola. Solo una volta, a Napoli -nel 1993-, prima di entrare nel lungo tunnel di malattie da cui stava appena uscendo, Carmine Di Biase, dell’Università di Salerno, gli aveva voluto dedicare un breve profilo critico, cui teneva molto: così concluse, come avesse voluto liquidare lì l’argomento, mentre lo sguardo —ancora un poco spento- sembrò come illuminarglisi appena. Sapevo bene che nemmeno a Napoli, -dove egli ha sempre vissuto ed operato giuntovi in fasce dalla natia Riccia (nel Molise)- qualcuno se n’era preoccupato mai, sulla scontata scia del Nemo propheta in Patria!
Sicché quel discorso, là finì, non desiderando più nessuno di noi due, forse, approfondirlo. Mi dissi, però, che non mi sarei dato per vinto, anche per la profonda stima che ho sempre nutrita per Colucci: da me —e non solo da me—ritenuto il più significativo scrittore vivente della latitudine Abruzzese/molisana, considerando anche la sua ragguardevole produzione narrativa —ed, episodicamente, saggistica- accanto alla prevalente attività di poeta: che certamente ha operato spinte innovative e rinnovative in terra di poesia, già dagli anni Settanta, molto apprezzate da buona parte della critica. Inclusa una parte di quella che non ha disdegnato e non disdegna di rivolgere uno sguardo anche al Sud, dal “lontano” Nord: di quella, per intenderci, che in assoluto non si identifica con i vari Cucchi e Giovanardi e le loro un po’ imprudenti conclusioni neganti l’esistenza di Poeti degni d’esser ricordati in cinque regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna). Ma non sono stati e non sono i soli a praticare questa sorta di “leghismo” letterario strisciante, come pittorescamente si esprime Daniele Giancane in una delle ultime, ahimè neglette, antologie dedicate al Sud (Vertenza Sud) e, detto francamente, anche malfatta ad opera di taluni compilatori regionali poco provveduti! E si ritornerebbe, purtroppo anche qui, al fatidico Nemo propheta in Patria….
Di Napoli e della Campania invero non mi sono mai molto interessato. Ma, in genere e fatte le debite eccezioni di cui sopra abbiamo -seppure fra le righe- citato un esempio di grande disinformazione-, anche nella sua Patria di adozione, il Nostro riscuote una meritata stima, ben presto allargata al campo nazionale, come già accennato. E basterebbe qui ricordare la folta schiera di letterati suoi manifesti estimatori: da Accrocca a Baldacci, a Bassani, a F. Bruno, a Forti, a Manacorda, a Pomilio, a Prisco, a Ravegnani, a Sereni, a Spagnoletti, a Squarotti, ecc., per ricordare solo taluni nomi di più ampia risonanza.
Eppure, Carlo Felice Colucci, ripigliando il discorso della sua più che quarantennale attività letteraria, mi confidava di avvertirsi come spaesato, in qualche modo, dopo essersi ridestato —per fortuna dal lungo letargo patologico ed essersi affacciato, timidamente quasi, sopra l’attuale orizzonte letterario, piuttosto diverso da quello lasciato parecchi anni addietro ed, in genere, assai meno accattivante. Non si rendeva conto, ad esempio, della strabocchevole fioritura di neonarratori, pubblicati -fra l’altro- anche da primarie case editrici.

“Immagina, sebbene qualcosa tu già sappia”, mi disse quasi come confessandosi e non senza una certa reticenza “che tutti i miei romanzi furono regolarmente respinti dalle grosse case editrici, tranne l’ultimo pubblicato dalla Rusconi con il viatico del compianto amico Mario Pomilio. E che, per ottenere la pubblicazione di una decina di poesie sul prestigioso Almanacco dello Specchio Mondadori, apparse col titolo di Check-up nel 1983, occorsero vari travagliati, per me, anni di attesa sotto l’egida di Vittorio Sereni e di Marco Forti, e dopo che Bassani generosamente s’era offerto per una presentazione che, infatti, stilò: comunque, sono rimasto sempre molto grato a questi scrittori e – soprattutto – all’ottimo Marco Forti. Ma fu tale lo shock, per così dire, che poi non riuscii mai più ad inviare un mio testo completo di liriche presso nessuna delle massime collane di poesia esistenti in Italia. Temendo un quasi certo rifiuto, accompagnato dalle solite -odiose- letterine di prammatica. Alle quali, “aggiunse contrariato”, avevo ormai quasi fatto il callo, per così dire, riguardo alla narrativa. Ma per la poesia ho sempre pensato che non avrei sopportato impunemente quei rifiuti ben confezionati e, molto spesso, riservati agli scrittori del Sud più o meno profondo; ai quali è stato quasi sempre negato l’accesso alle collane mondadoriane, einaudiane, garzantiane e così via, quasi sempre un po’ riservate -per non dire altro- salvo miracolose eccezioni a conferma della regola: eccezioni che a me non toccarono mai in sorte”.

“Comprendo bene; e noi tutti, quaggiù, ne sappiamo qualcosa, pur senza volere ingigantire il fenomeno. D’altronde vige sempre il bell’adagio “habent sua fata libelli” e, perché no?, scriptores ! Ma ora un’altra domanda mi intrica, in apparenza appartenente alla sfera dei cosiddetti luoghi comuni, ma che in realtà non lo è. E ti chiedo perché si scrive?”

“Scrivere, come leggere, vedi, io credo sia essenziale nella vita; dalla parte di chi scrive e, reciprocamente, di chi legge. Flaubert diceva che leggere non significa divertirsi (intrattenersi), non significa istruirsi, bensì vivere. Ed io estenderei una tale bella asserzione agli scrittori: lo scrittore, piccolo, o grande che sia, purché in qualche modo degno dell’appellativo e del ruolo, se non scrivesse, metaforicamente morirebbe. E, talvolta, si ammala proprio fisicamente a causa d’una forzata inattività. Ciò premesso, è piuttosto opinabile ed ha fatto il suo tempo, secondo me, quel famoso, banale adagio che: si scrive per sé, si dipinge per sé, e così via. Sarebbe troppo facile, troppo semplice una conclusione simile. L’artista – scrittore, pittore, musicista che sia – opera sì in quanto spinto dal bisogno creativo, insopprimibile, ma vuole, deve, anche riuscire a comunicare agli altri almeno qualcosa della propria creazione, piccola o grande che sia. Lo ha energicamente sostenuto – ed a più riprese — un nostro grande poeta che ho sempre molto amato: Alfonso Gatto”.

“Hai perfettamente ragione. Viceversa il tutto si ridurrebbe a una forma di esercizio piuttosto sterile, ripiegantesi sull’Autore e con lui destinato a nascere ed a morire!”

“Esatto: sarebbe, se si cancellasse l’opera finita, il libro stampato, il dipinto incorniciato, insomma, una mera manifestazione di autoerotismo, solo masturbatoria, a così dire: mentre l’artista ha l’esigenza, anch’Egli, di fare all’amore. Di farlo col fruitore dell’opera, con il lettore. E, naturalmente, più lettori ha e più all’amore fa! Quindi, per concludere, io ho sempre asserito che l’esprimersi sia prioritario per qualsiasi artista. Ma che se poi quest’artista riesce anche e bene, a più o meno comunicare, Egli così raggiunge la meta ambita, la sua massima soddisfazione di creatore d’arte. Io, ti confesso altresì, che quando ho terminato di scrivere una poesia, un racconto, ecc., miro letteralmente a ricorrere alla lettrice mia moglie: la quale, da buona pittrice con una propria sensibilità artistica, talvolta mi elargisce anche ottimi suggerimenti”.

“Ma se questo è stato il passato -seppure un po’ deludente rispetto alle tue aspettative di scrittore-, quali i progetti per presente e futuro, ora che sei fuori da quel terribile tunnel di malattie?,” chiedo a Colucci.
Ed Egli, pacatamente ma con voce ferma, mi anticipa in qualche modo ciò che in pentola già bolle, dicendomi subito che è in corso di stampa (uscirà per i tipi di Alfredo Guida, entro il dicembre) una nutrita raccolta di elzeviri, interviste e note, in massima parte pubblicate nei primi anni Ottanta sul quotidiano napoletano “Il Mattino”.

“Ho preferito rivolgermi all’editore Guida, gloriosa firma dell’editoria napoletana, gruppo editoriale in espansione, piuttosto che “mendicare” un’improbabile pubblicazione oltre il Garigliano; anche perché “ho fretta” di rivedere —dopo tanto- un mio libro. Dopo tanto forzato e penoso silenzio”.

Poi mi parla delle poesie, mentre nei suoi occhi azzurri si riaccende quella enigmatica luce che ormai gli conosco bene quando si tira in ballo la ”nostra” adorata poesia.
Ne possiede una nutrita silloge composta da un gruppo di oltre venti liriche scritte fra il “92 e il 95” (prima della caduta, precisa!) e da un più nutrito gruppo scritto fra il 2000 ed il 2001:circa una cinquantina.

“Ebbene, caro Gabriele, per la stampa di queste poesie, intendo “lottare”. Finalmente le invierò presso lo Specchio mondadoriano (quella collana che già mi tenne a battesimo dei grandi editori nel 1983), la collana “bianca” di Einaudi, la Garzanti, ecc. Ho però un desiderio, prima: di pubblicare un librettino col per me “mitico” Scheiwiller, rimpiangendo io molto la perdita del grande Vanni e quella del favoloso marchio “All’insegna del pesce d’oro”.

“Vedo che stavolta sei deciso a mirare in alto; penso che un poeta come te ne abbia ormai tutto il diritto”.

“Io, francamente e presunzione a parte, immagino di sì. Decisamente di sì. E’ come una sorta di piccolo, onesto risarcimento che infine mi spetta; convinto come sono che i miei elaborati poetici, passati e presenti, possono ben reggere il confronto con quelli di molti, ma di molti poeti del Nord -visto che ci hanno costretti ad una tale assurda “separazione”-, e, talvolta, uscirne perfino vincenti. A parecchi dei quali Mondadori o Einaudi, ecc. hanno già stampato più di una plaquette. Io fermamente
credo di aver diritto almeno alla stampa di un libro… Non mi arrenderò facilmente, stavolta, né mi appagherò delle belle letterine ben confezionate ad uso dei “gonzi” del Sud! Sebbene debba -per obiettività- ripetere qui di non avere mai inviato, finora, ad una delle suddette collane di poesia un mio manoscritto”.

“Ma tu non pensi che oggi qualcosa finalmente sia cambiata rispetto —mettiamo- a cinque anni fa?

“Lo spero, voglio sperarlo, ma -sinceramente- non lo credo. E ti dirò anche il perché di un tale mio scetticismo. Tu forse, non hai avuto occasione di avere tra le mani una delle più recenti -forse la più recente- antologia di poesia, dal bel titolo “Il pensiero dominante, Poesia italiana 1970-2000,” a cura del “dialettale” Franco Loi, operante a Milano, e dell’emiliano Davide Rondoni, di cui invero non ho mai udito parlare prima d’ora: ma sarà certo una delle mie tante lacune. Ebbene, questi due poeti di differente età ed estrazione – come il Loi ripetutamente precisa nella sua non molto chiara introduzione -, hanno avuto il coraggio (sic!) di includere nella loro “opera” ben l’85% circa dei poeti del Nord – più o meno giubilati -, alcuni poeti del Centro, e pochissimi del Sud limitatamente ad operatori per lo più “dialettali”. Ergo, con tutti i distinguo e la richiesta venia per le (volute) omissioni su cui il Loi si arrabatta nella predetta introduzione, al Sud -e forse anche al Centro- NON esistono poeti di gradimento dei due superbi curatori.
Beati loro che sono così esigenti. Io, allorché mi è capitato di parlarne, NON sono stato tanto esigente coi colleghi (sodali ?!) del Nord”.

“Non posso che darti ragione tutta la ragione del caso, naturalmente, rifacendomi banalmente alla “solita storia del pastore.” Ma, lasciando da parte queste autentiche tristezze, cos’altro di bello vai preparando oltre le ormai già pronte poesie?”

“Si, lavoro anche ad un libro di racconti, sperando che il Padreterno mi conceda la salute per portarlo a termine. L’avvenire essendo -ahimé- sempre nel grembo non troppo ospitale di Giove!”

“Te lo auguro di vero cuore, caro Colucci, ben consapevole che potrai ancora darci tanti bei libri.”

Credo, a questo punto, di avere in qualche modo esaurito l’interessante colloquio con Colucci, ma ho la netta impressione che il Nostro voglia dire ancora qualcosa, quasi come a trovare un più concreto finale al discorso. E nel mentre mi stringe forte la mano, a più riprese, con aria rattristata, infatti, soggiunge:

“Sai, al termine del nostro colloquio, non posso non confessarti anche, come, a volte, la fredda mano della depressione, che per anni mi ha torturato, torni a sfiorarmi. Ed allora, per un attimo, vorrei adagiarmi in una sorta di quieta fine e tutto dimenticare magari sussurrando: “Oh allora sballottati, / come l’osso di seppia dalle ondate / svanire a poco a poco”. Perché, vedi, anch’io ho sempre creduto — con Emile Cioran- che la vera quiete, contrario dell’indifferenza, il vuoto, insomma, possano dare come la massima percezione raggiungibile di benessere ”solo quando nessun pensiero sfiora il mio spirito”. E non per parlare di meste cose — giacché ci siamo! — ti voglio altresì confidare di avere scelto per la mia sepoltura, speriamo il più tardi possibile!, il bel Cimitero degli Inglesi, di Napoli, e di avere espresso la volontà che sulla mia lastra tombale sia apposto pure il verso di Ungaretti da me più amato: “La morte si sconta vivendo”.

Orbene, questo colloquio — come forse il lettore meglio capirà appresso — avveniva alcuni anni fa, oltre un lustro per l’esattezza: quando appunto venne subito dopo dato alle stampe il volume “Poesie, 1960 — 2001”, di cui il presente è la legittima continuazione. E chiusura. Anche perché Colucci ha deciso, come si è detto, di non pubblicare più versi…E qui non possiamo — quasi a proseguimento ed “epilogo” del colloquio — non riferire, senza commenti, quanto l’Autore molisano ci ha raccontato della propria vicenda “editoriale” dal 2001 ad oggi. In breve: i non pochi “sogni” di Colucci, a pubblicare presso il mitico Scheiwiller dai big Mondadori, Einaudi e Garzanti, ecc., sono miseramente naufragati: “costringendolo” a stampare la produzione in versi degli anni 2000, come più avanti risulterà, presso piccoli editori, talvolta in odore di anonimato! Il che significa — lo ribadiremo nel capitolo Finale di partita — che anche un ottimo poeta del Sud, oggi ancora più di ieri, non può mirare alto, né in campo editoriale, né in campo critico — saggistico. Più o meno destinato com’è ad una sorta di relativo cronico oblio.

Una poesia lunga quarant’anni e più

Una presenza letteraria e culturale costante nel tempo, quella del Nostro, dunque, tra libri di narrativa, una raccolta di elzeviri, di interviste e note, a Personaggi — grandi e meno grandi — della letteratura italiana, oltre ad un’antologia monotematica sulle Città viste dai poeti, e ad una nutrita sequenza di libri di poesie pubblicati dal 1960 al 2005: ecco il curriculum bibliografico di Carlo Felice Colucci a cominciare da Fenèste ‘int’o scuro, con prefazione di F. Bruno, Roma 1960; un libretto di poesie in dialetto napoletano sul quale Carlo Betocchi ebbe a scrivere una interessante lettera all’Autore, che comunque non si è mai riconosciuto come poeta dialettale; lettera che qui pubblichiamo volentieri come documento storico eccezionale:

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Firenze 17 aprile 1961. ”Egr. prof. Colucci, il buon amico Pomilio mi ha spedito, un mese fa, certi versi che lei desiderava leggessi. Un fascicolo di versi italiani (che è quello che Le restituisco); aggiunto un libretto di versi dialettali con una Sua cortese dedica della quale La ringrazio, e che trattengo. L’amico Pomilio faceva conto, certamente, su una mia maggiore solerzia. Sono stato un gran lavoratore, in passato: ma da un anno a questa parte un’ulcera duodenale, che ha portato a livelli inconsueti i miei già abituali disturbi nervosi, e in questi giorni dopo Pasqua la morte della madre di mia moglie, hanno di molto ridotto le mie capacità, la mia voglia, il mio desiderio di contentare gli amici, e di andare incontro – come usavo fare – a chi mi si rivolge. Pazienza: e soprattutto abbia pazienza anche Lei e mi scusi il ritardo. I versi dialettali ho cominciato a leggerli ma non ho avuto pazienza di continuare: c’era il fatto del dialetto, ad ostacolarmi e c’era il fatto dei versi cantilenanti ai quali le consiglio di non tornare più. D’altra parte a me è bastato il poco che ne ho letto, e il confronto di esso con i suoi versi italiani, per convincermi che se anche Lei parlasse costantemente il dialetto, (dico nella vita sociale e magari nella professione),tuttavia del dialetto non sa fare strumento d’arte; voglio dire che la sua capacità di restituzione poetica della vita non attinge dal dialetto, ma dalla lingua. Ciò significa che la sfera dei suoi interessi di poesia è stata educata nella lingua: che la zona profonda da cui Lei può restituire certi sensi di poesia, i propriamente suoi, è stata toccata solo dalla lingua, non dal dialetto: che perciò stesso i suoi interessi sono intimistici, introspettivi, non estroversi, non capaci di afferrare , col dialetto, la vita del popolo che lo parla, o sia pure la singolar vita e il sentimento di un popolano. Rinunziare, dunque, al dialetto: tutto ciò si ritrova poi leggendo la sua poesia in lingua dove (e qui mi scusi se Le accenno una piccolezza, ma insopportabile al mio orecchio toscano, quel ”pure” che vi si trova così fitto in luogo di ”anche” andrà sterminato senza pietà): si ritrova che la Sua poesia, quando è raggiunta o avvicinata nasce da certe zone dell’animo privatissime ma nelle quali è deposto ed alligna nei casi migliori il seme di quella libertà della fantasia per cui la poesia giunge a trascendere il caso privato. Torna ad essere cioè oggettiva.
Discorso un pochino imbrogliato. Ma che sta bene al caso Suo, e che può essere suffragato rileggendo per esempio una delle Sue poesie a parer mio meglio riuscite,
come “Sosta a un casolare”. Sono fatti di libera fantasia, e di poesia bene oggettivata, le restituzioni di un clima date da:

Un cuore caldo di ragazzo
sui tappeti di granturco.
E non dicono molto.
Un lume accendono a mezz’aria
appena a ridestare l’ombre,
e intorno pare sera.

I vecchi erano fuori
a guardare dentro l’aria,
e il respiro dell’orto ci cullava.

Quello che Lei qui ha detto ha valore anche universale, può servire per un contadinello e per i suoi ricordi di ragazzo di famiglia borghese, ma non potrebbe dirsi così senza la mediazione di una cultura poetica che non ha le sue basi nella tradizione popolare e dialettale: le sue basi sono nei diritti e capacità della poesia accertati dalla rivolta poetica del novecento.
Il fatto che la Sua poesia nasca da certe zone privatissime dell’animo è evidentemente un pericolo grosso: perciò Lei si guarderà sempre dal compiacersi, o meglio dal compiacere a tale intimismo, sfuggirà più che può tutti i temi nostalgici, e cercherà di tener desta nel fondo dell’anima la forza vitale di quel seme della libera fantasia di cui ho dianzi accennato, Questo, essenzialmente, mi pare utile consigliarLe; mentre Lei troverà indicate con puntini rossi le composizioni che a parer mio sono le migliori. Ed ora mi scusi se La lascio: metà della mia vita dipende dalle collaborazioni che riesco a fare; e in questo stato di salute non ci riesco: se poi mi dedico ad altro, addio! Abbia dunque i cordiali saluti. Carlo Betocchi.”

E Colucci ha di certo seguito -forse nel miglior modo possibile- i suggerimenti cordiali del grande poeta in questa lunga lettera che -vogliamo dirlo- è anche un bell’esempio di una -ahimè- quasi perduta civiltà letteraria. Vediamo in dettaglio.
Anagraficamente, Carlo Felice Colucci appartiene al gruppo dei poeti della quarta generazione (dal titolo della silloge di Piero Chiara e Luciano Erba, Edizioni Magenta, Varese, 1957), da cui se ne distacca per un impegno poetico e linguistico più alto, dopo esser passato “con grande intelligenza e saggezza (e anche con un signorile distacco da gran maestro della parola, che sa sempre porre l’ombra dell’ironia, anche nell’esperimento più audace e strano della poesia) attraverso l’avanguardia: con lo scopo di acuire, con gli strumenti che le sono stati propri, da un lato l’analisi tesa e inquieta dei sentimenti, togliendo loro ogni pateticità e ogni carattere autobiografico, nonché i rischi del compiacimento descrittivo, per renderli invece le misure assolute di un giudizio fra grottesco e tragico di un mondo che appare fondamentalmente malato e corroso; dall’altro lato, una visionarietà paesistica e memoriale che sembra, con una lucidità e una razionalità quasi geometrica, accumulare nel verso le immagini di un inferno della ragione ferreamente logico, ma, appunto per questo, insopportabile al limite del grido (che pare circolare sotto la limpidezza rigorosa del verso, come sussultando nelle sfasature, nei lapsus, nelle impuntature che, a tratti, si aprono all’interno di così precise strutture verbali). La favola, che sembra ammiccare spesso nei testi di Colucci, è, in fondo, un incubo: nella misura sapiente del discorso c’è sempre qualche scatto inatteso, qualche iato logico improvviso vi si determina, qualche parola risuona o troppo alta o troppo sommessa, qualche furore d’espressionismo s’innalza a segnalare il carattere fondamentalmente angoscioso e disperato della rappresentazione, pur tanto lucida e ben calcolata, d’una realtà senza salvezza, non più frequentabile dalla poesia se non attraverso l’accettazione in sé dei segni della distruzione di se stessa, come sono le tensioni verso il non senso, la perdita di peso effettivo e di significato del discorso proprio nel momento in cui si propone come esatto, netto, logico, razionalmente costruito”, come ha giustamente evidenziato Giorgio Bàrberi Squarotti in uno dei suoi autorevoli interventi “ Dai Postermetici alla postavanguardia” in “Letteratura Italiana Contemporanea”, Lucarini 1982, vol. III pag;545/546. E così come rilevato da Giacinto Spagnoletti quando scrive di “Una metafora del confronto umano, talora non lontano dal documentarismo di laboratorio (e da ciò una scelta linguistica fra le più pregnanti) che tuttavia si stacca dalla” forma-diario”, da una pseudo relazione tecnica, quale viene tentata da altri, nell’artigianato ormai artificioso dell’avanguardia. Esiste invece per Colucci, visionario a suo modo del reale, la possibilità di scandire col suo affilato mezzo linguistico, relazioni e distanze, quasi che alla totalità del suo sguardo si presentasse un mondo in frantumi, spezzettato, convulso, ma sempre codificabile. Di questo Universo Egli conosce la corrosione, l’autodistruzione e perciò tenta di fermarlo
ironizzandone i bordi, parafrasandone i segni parodicamente” (da una presentazione in “Lunarionuovo”, gennaio/febbraio 1982).
E ancora, proseguendo la nostra analisi critica, da Giuliano Manacorda nella sua prefazione a “La bella afasia”, (1983) “Quello di Colucci è un vero allenamento alla morte, un check-up del vissuto esistenziale, un trattato poetico de senectute anche, in cui dal ghetto del vivere si intravede con certezza solo l’immancabile precipitare lungo l’orribile via d’uscita, ma non la meta
dove essa potrà condurre: Dio è “smarrito”….Semmai sullo sfondo di questa amara constatazione sulla vita che si disfa, su questa sorta di nuova fallimentare sapienza popolare “crepando s’impara”, una nota appena di conforto la danno quelle remote figure familiari- il padre centenario, la mater che possono ancora alludere a un sistema d’affetti che resiste. Così la donna, cui tante poesie sono dirette.…Eppure perché non viene dalla lettura un messaggio tetro e insopportabile? Perché la parola coraggiosa non è mai disfatta e piagnona…La parola coraggiosa, sincera senza crudeltà e senza sadismi. Colucci tira le somme- il pranzo è servito- sulla propria e altrui esperienza d’essere al mondo…non può che chiudere il bilancio in negativo, senza consolazioni illusorie, ma, appunto per questo, senza inganni; con quella verità ritrovata che è il ribaltamento dell’afasia esistenziale nel dire della poesia”.
A questi risultati Colucci perviene gradualmente, attraverso un lento lavoro sulla langue, a partire dal 1967, anno di pubblicazione de “La pagaia,” che già contiene segni verbali interessanti, che troveranno una più ampia diversificazione nelle opere successive, con un linguaggio autonomo risalente dai profondi strati di un mondo fossile e magmatico, caotico e tellurico, con ricorrenti relazioni sul “corpus” della vita, su cui il poeta pronuncia “diagnosi e prognosi,” piccole fedi in extremis, cristallizzando memorie e ferite, con la tenace volontà di andare al centro delle cose, esplorandone le tracce e i segni, al di qua di una lucida denuncia sul “male di vivere”, tra tumulto poetico e avvitamenti psicosomatici, con storie che sembrano non finire mai, da “Placebo” a “Fuochi spenti”, senza punteggiatura, come a voler rimandare il lettore ad un altro appuntamento; caricando d’attesa i percorsi poetici, che si sviluppano con la tecnica del monologue intérieur e della riconiazione della lingua, dando luogo ai “prodotti”; secondo P. Valéry: poesia significa “fabrication”.
In realtà, nonostante Colucci sia stato sempre uno scrittore un po’ appartato nella sua temperie di schivo molisano trapiantato, vissuto ed operante da sempre a Napoli —una realtà letteraria invero poco frequentata da critici e saggisti, molto si è detto di Lui e —va riconosciuto- quasi sempre con una notevole, buona comprensione di ciò che davvero è il nucleo fondante, la partenza da precise radici, il viaggio difficile attraverso la vicenda dell’ars poetica del Secondo Novecento; di quanto Egli ha inventato e puntigliosamente, con costanza e coerenza, creato in uno dei laboratori della parola che, certo, a chi scrive —ed a molti Altri- s’è da tempo rivelato uno dei più laboriosi, produttivi e singolari. Ma siamo convinti che tanto resti ancora da dire, da verificare, da esemplificare, da confrontare, da storicizzare, magari avanzando alla fine un meglio valido ed esaustivo bilancio dell’Opera in versi ed in prosa del Nostro: per la cui migliore conoscenza e —soprattutto- per la cui diffusione, tocca da fare ancora parecchio alla nostra Società Letteraria. La quale, è bene qui ribadirlo senza mezzi termini, permeata dal relativo oblìo, destinato da sempre alla maggior parte degli artisti del Sud, soffusa di quel precoce leghismo strisciante radicatosi anzitempo, rispetto a quello sociopolitico, in letteratura, forte di un potere arroccato soprattutto al Nord, non ha mai prestato al Nostro l’attenzione dovuta.
Eppure Colucci ha operato da autentico poeta e innovatore del linguaggio in tempi nei quali dominavano le riviste underground ed alcune antologie storiche come I Novissimi di Alfredo Giuliani, Tam-Tam, di Adriano Spatola e Niebo di Milo de Angelis ecc. a parte i ciclostili e i samizdat circolanti come materiale di impegno e di lotta. Per meglio definire il quadro poetico e gli iniziali sviluppi della vicenda linguistica di Colucci, è necessario ricordare la sua posizione di innovatore anche nei confronti dei poeti dell’area molisana dalle cui radici Egli non può sentirsi certamente estraneo, avendo coniugato molto bene le realtà del centro e della periferia, realizzando un progetto non verificabile in nessun poeta della tendenza eversiva, quasi tutti impegnati più a decostruire che a realizzare un nuovo segno poetico nella naturale metamorfosi linguistica. Dal caos della parola risorgono la forma, il ritmo, gli stilemi, la musica, l’iperbato, i familiari accumuli della memoria, le transizioni del quotidiano, le percussioni allarmanti e cupe del dato storico, pubblico e privato, l’automatismo espressivo tra sinestesie e vocazione al racconto, in una generale trasformazione del tessuto stesso della lingua. In questa direzione si muove Carlo Felice Colucci, passato, sì attraverso l’avanguardia, ma (…) “in maniera, aggiungerei io, da riuscire a modularne, con i propri strumenti, le intemperanze, i malumori, le ambiguità e da riuscire, spesso, a conciliare l’esigenza di esprimersi e di comunicare senza mai scendere a compromessi” (Giorgio Bassani). Tutto il resto l’ha fatto la sua sensibilità, ma soprattutto il tema della memoria-morte. E poi c’è il trionfo dell’ironia che sembra giocare un ruolo prioritario tanto da essere “protagonista del discorso, con funzione esorcizzante nei confronti sia delle non mai disciolte neiges d’antan, sia della ricerca stessa del linguaggio”(Giorgio Bassani), espletato all’interno di un realismo umanistico, espressione e sintesi di una visione del mondo come pietas di fronte ai mali quotidiani: siano essi rappresentati dalle “bianche leucosi o blastosi” o addirittura dall’incubo della fine.
In un clima, nient’affatto favorevole ai moduli linguistici meno scissionisti, c’era chi lavorava per restituire alla parola il naturale codice genetico, operando sul significante cauterizzato negli anni Sessanta che hanno prodotto anche esempi di poesia autonoma tendenti alla formulazione di un progetto linguistico capace di alternarsi allo sperimentalismo: ci riferiamo, in particolare, ad alcuni esiti poetici di Giorgio Bàrberi Squarotti e di pochi altri ancora. E’ innegabile che anche Colucci, pur del tutto avulso da una certa avanguardia, quale quella del Gruppo 63, dei Poeti e poesia visivi ecc., e pur rivestendo, in poesia (e forse anche in prosa), un particolare ruolo di ricercatore del linguaggio: (con una sorta di metalinguaggio), ricerca cui si potrebbe addire anche l’appellativo di “paravanguardia”, è insomma un singolare caso a sé. Che per qualche verso lo farebbe accostare a Zanzotto: con connotazioni più antropocentriche e meno naturocentriche e con la pratica d’un linguaggio anche medico-scientifico, piuttosto logico e non prelogico, alla Zanzotto; anch’Egli, comunque, innovatore e ricercatore col suo plurilinguismo a sé stante; seppure più destruente che ricostruttivo.
A questa operazione linguistico-culturale e di ricostituzione del testo a livelli di lingua parasperimentale (metasperimentale), Colucci giunge dopo aver valutato le varie possibilità di interpretazione tra linguaggio poetico e linguaggio scientifico, derivante quest’ultimo dalla sua professione di medico-ricercatore. Sul rapporto arte-scienza già Bassani, a suo tempo, si chiedeva se ci fosse un nesso logico tra le due forme; questione più volte affrontata da Colucci in varie interviste e presentazione dei suoi libri, ricordando come fosse proprio il Nobel Rous ad affermare che la scienza e l’arte nascono entrambe dalla fantasia.
Colucci si è sempre sentito un ricercatore sia nel domani scientifico sia nella creazione artistica, via via che le due attività si sviluppavano in direzione del nuovo, e della scoperta. E che proprio nel corso degli anni Settanta, allorché apparivano le poesie di “Placebo” (1975) e poi di “Preghiera occidentale” (1981), Egli pubblicava in sede scientifica, su alcune importanti riviste, anche in lingua inglese, in Gran Bretagna ed in U.S.A., le prime interessanti ricerche sui Ritmi circadiani nei ciechi, che gli valsero l’apprezzamento di non pochi Studiosi in Italia ed all’Estero: ecco l’inequivocabile matrice, la genuina ricerca in utroque, costante e pertinace fino ad un qualche risultato, ad una prefissa meta; il che è di fondamentale importanza per penetrare le origini di tutta la sua scrittura in versi ed in prosa. Anche l’arte, l’opera creativa, ha, al pari d’ogni umana manifestazione, una parabola, e non sempre nel senso di un diapason unico e d’una successiva decadenza, ma sempre —o quasi- nel senso d’un mutamento e d’una variazione sul tema. Ce lo ricorda, se occorresse, anche Ernst Junger: “Nulla è costante quanto il mutamento, e contro un tale dato di fatto s’infrange ogni sforzo mirante al contrario”. Col che vogliamo dire che anche Colucci, nel corso della sua avventura letteraria, ha mostrato e mostra di non sfuggire a una simile Legge in qualche modo ineluttabile. Ma v’è mutazione e mutazione: implicando quella genuina e spontanea, non artificiosa ed opportunista — cui spesso s’è assistito e s’assiste in Terra di Scrittori-, una logica, una coerenza, una maturazione obbligata d’interiorità sempre sustanziata da cose che ne marchino inesorabilmente l’autenticità! Ed è altresì di questo che fra poco dovremo dire, anche alla luce degli inediti che il Nostro ha voluto in anticipo farci leggere, seppure limitatamente a pochi testi, per un eventuale raffronto con i versi pubblicati. Inediti, appunto, che sembrano -qui e là- mostrare un certo mutamento, una qualche maggiore o minore variazione rispetto agli spartiti precedenti. E qui ci è venuta in mente l’esperienza di Arnold Schonberg -l’autore del bel Pierrot Lunaire-, che, come si sa, ai primi del Novecento, fu il principale artefice della dodecafonia, rivoluzionando decisamente le leggi dell’armonia in musica, con l’introduzione della composizione atonale ed anarmonica, in una sorta di nuovo ordine/disordine delle dodici note nella scala cromatica. Ma, dopo la dodecafonia, sarà più possibile comporre altra musica, inventare altri moduli compositivi? Si sono chiesti illustri musicologi. E ricordiamo come il grande Carlo Maria Giulini abbia risposto decisamente di no, ad un giornalista che lo intervistava, asserendo che, ormai, la musica può essere solo interpretata o reinterpretata…Ed è a questo punto che poi -da convinti assertori della globalità (unità) dell’arte- è scattata in noi una sorta di riflessione analogica tra la dodecafonia schonberghiana ed i sommovimenti del linguaggio, nella stessa epoca avvenuti, a partire dalle avanguardie storiche e dalle “parole in libertà”, dall’ “aereopoesia” di Marinetti, alle “licenze poetiche” di Palazzeschi, agli arbìtri dadaisti di Tristan Tzara, ecc. Dove certamente e attraverso gli stilemi delle successive neoavanguardie, i poeti come Colucci hanno affondato più di una radice, seppur dando luogo alla crescita di piante ben diverse, autonomamente coltivate e -non di rado- singolari. Sicché -anche procedendo per analogie, appunto- non è forse giunto il momento, e magari già da un pezzo, di fermarsi a meditare, anche per i poeti, e di non oltre perseverare nella ricerca di improbabili (impossibili?) nuovi stilemi? Tornando a reinterpretare -invece- la “musica” (scrittura) precedente: come in qualche modo diceva il Maestro Giulini in merito al dopo -Schonberg! Con la visione forse -o meglio, l’aspirazione- di allontanarsi via via dalle forme del linguaggio franto, babelico e disperato, -atonale-, insomma; rivisitando (riscoprendo) in qualche modo una certa armonia dei versi…Stiamo (staremo) a vedere! Per esempio -a proposito del frequente registro ironico, seguito da Colucci, non solo in poesia, ma anche nella narrativa -Egli ebbe a dire in un’intervista a Mario Miccinesi, curatore a Milano della bella rivista Uomini e libri, da qualche anno purtroppo finita, come l’ironia, nella scrittura, gli sia molto congeniale. Ma che, a furia di praticarla, gli si siano svelate sempre più le innegabili difficoltà di gestirla; ben consapevole dei possibili “inganni” e trabocchetti! Senza dimenticare, poi, che essa è in fondo una sorta di amore indiretto -come acutamente asseriva Savinio-, il più pudico, il più geloso amore. In conclusione, non bisognerà mai dimenticare che il Colucci -al pari di vari altri operatori in poesia che di essa sono stati i più o meno dotati e fortunati innovatori e riformatori- ha fra i suoi remoti progenitori Nietzsche, addirittura, considerato a ragione una sorta di padre di tutte le avanguardie e le neoavanguardie. Convinto come era che la realtà, il discorso e lo stesso Io finiscono col dissolversi in una sorta di “anarchia di atomi” che sconvolgendo ogni gerarchia, comportando una lenta dissoluzione del soggetto e del linguaggio, conduce (può condurre!) al naufragio nel mare della vita. E lo ha di recente ricordato Claudio Magris, nella prima sua lezione di quest’anno al prestigioso Collége de France, a Parigi (da un brano riportato nel Corriere della Sera del 26/10/2001). Ma sarà bene qui ribadirlo, Colucci -nella sua relativa singolarità- non ha solo teso alla dissacrazione del linguaggio, ma pure ad una sua ricomposizione in una sorta di “ordinato microcosmo sotterraneo”, come appunto ebbe a far rilevare Bassani. Ed ora passiamo ad un’analisi più diretta, testuale.

da “Una vita fedele” (1963) a “La pagaia”(1967)

Restando specificatamente nell’universo linguistico e tematico di “Una vita fedele” e “La pagaia” non può passare inosservato il tema dello sradicamento dalla terra-madre, che rivive attraverso il complicato meccanismo della memoria, con una sottile analisi di indagine psicologica anche sul rapporto vita-morte e paesaggio-amore, “una tematica” come ha scritto Mario Pomilio, “dalla pressante, mai estinta nostalgia pel suo Molise, per certi interni familiari, per certi spazi domestici precisati e resi netti dal continuo ritaglio che fa torno torno la memoria per oggetti e luoghi d’infanzia, o
comunque mitizzati come appartenessero sempre all’infanzia, ai quali poi lo stretto lavoro di lima dà la giustezza di quadri del genere, e un istinto un po’ crepuscolare
di vecchie stampe”, che risultano naturali quando l’imput psicologico va a colpire il passato e la somma delle cifre del vissuto: da qui l’innesto poetico con il “paesaggio molisano” a centro delle emozioni che si immettono sul territorio delle occasioni poetiche, con le rifrazioni del presente e del passato nella duplice devianza di risposte er(etiche) intorno al problema della vita, con una tensione ideologica fortemente orfica e istintiva.
Con questo statuto di identità, Colucci consolida i suoi legami con la terra d’origine e con “la memoria narrante che rivisita oggetti, persone e luoghi, ora con dolce nostalgia, ora con un senso acre dello sradicamento. Ma tale rivisitazione non è mai puro abbandono idilliaco o consolante momento catartico; esso si riveste d’uno spessore metaforico tale da determinare, stilisticamente, anche una notevole rivoluzione nel linguaggio che l’esprime: soluzioni discorsive sincopate, ellissi improvvise, subitanee condensazioni di immagini-concetti” (Luigi Fontanella: “Poeti molisani d’oggi: appunti per una campionatura”, Misure Critiche, nn.68-69, 1988, pagg.127-128).

Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel bosco
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli dalle rupi,
spezzavano corde alle chitarre.
(da “Una vita fedele” pag.43)

Il discorso sulla molisanità, che pure coinvolge il poeta delle prime prove, trova un riscontro critico nel breve asterisco di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli che vedono in : Una vita fedele e La pagaia una“nativa molisanità” turbata e coniugata con una modernissima ricognizione dell’io e del suo rapporto con la realtà e la provincia d’origine”, (Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi.- Molise — Editrice La scuola, 1994, pag.54-55); concetto che allarghiamo ulteriormente nella sintesi apparsa per la sezione dedicata ai poeti della quarta generazione, nella miniantologia allegata ai “Poeti del Molise”, della Forum QG. Forlì, anno IX 1981, Gennaio-Febbraio nn. 79-80, a cura di Mario M. Gabriele, in cui si legge che “Sul filo di una serrata discorsività e di un ricercato plurilinguismo, la poesia di Colucci s’apre con larghi squarci al fatto quotidiano attraverso un linguaggio che non tradisce l’esigenza della verità, del dramma, del trauma esistenziale dove l’allusione è solo un mezzo per diluire l’ansia, l’ironia, la confessione.
In “Una vita fedele” e in “La pagaia” viene operato un vero e proprio engagement con il dizionarietto dei termini etnici. Ne recuperiamo alcuni, che sembrano meglio evidenziare i legami col territorio, espressi come in un quadro figurativo della civiltà contadina: “le bianche mani, di madia”(pag.75) o “i tappeti di granturco” (pag.75) di”Una vita fedele” o ancora il rito della morte nel testo “Il mio paese” da “La pagaia”, (pag. 43), che riportiamo integralmente.

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Matteo.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per la via.

Siamo ancora nel campo delle cadenze e delle tonalità metrico-tradizionali con moduli poetici postermetici e neorealisti.
Questo discorso permane fino a quando non subentra un lessico urbano in sostituzione di quello rurale. La differenza è dettata da un insieme di elementi morfologici e di figure metriche nella realtà dell’endecasillabo e del novenario, tanto da creare un diverso livello musicale, come indirizzo operativo nella scansione del verso e delle sequenze normoritmiche.
La scissione da questo universo territoriale e psicoemotivo viene anticipata forse già dalle prime pagine di “La Pagai” con una nuova frazione timbrica del linguaggio.

L’ipotesi di poetica

Nel 1981 Colucci firma per la miniantologia dei “Poeti della quarta generazione,” acclusa a “I poeti del Molise” della Forum, Q/G. Forlì,1981, pagg.55- 58, la propria “Ipotesi di poetica”, in un quadro sempre più alienante e dispersivo che caratterizza il clima della poesia italiana degli anni Settanta-Ottanta e che il poeta stesso così sintetizza:
“Il momento attuale” della poesia penso che duri da vari lustri, nella scia degli “ismi” a noi più vicini, della “Beat”e della Neoavanguardia.
Ed a parte certe esperienze sorte qui e là, come il gruppo ’57 in Germania, quello della rivista “Tel Quel” in Francia, i novissimi in Italia, la Beat Generation e via dicendo, e talvolta assimilabili più a centri di potere letterario che di autentica cultura, si deve subito dire che questo “momento” della poesia è rappresentato essenzialmente da un coro non molto differenziato e con la quasi assenza del “grande” Poeta, del “monstrum”. Un coro cui sembrano mancare padri certi, a meno di volergliene attribuire parecchi! Un coro fatto di buoni compagni, sodali, dalle opere non di rado intercambiabili, dalla incessante osmosi non solo intereuropea ma anche intercontinentale favorita dall’abbondanza di traduzioni. Un coro dalle ascendenze vaghe, perciò, e remote: dove però tutti possono riconoscersi per nipotini di Mallarmé e Rimbaud con una sufficiente approssimazione.
E le opere paiono nutrirsi dei tanti incorruttibili residui poetici e rimasticarli, rielaborarli con qualcosa di proprio, di “attuale”, al sole irruente di un certo presente storico abbastanza tumultuoso e caotico. In tal modo ne vengono fuori voci
dalle inflessioni comuni, pur nelle diverse tonalità e tendenze, dal linguaggio composito, sfociante in un particolare sincretismo, in una dimensione sincronica e
solo raramente diacronica. Una crisi di identità della poesia? Parrebbe, e non solo della poesia ma dell’arte tutta, quando fra l’altro buona parte dell’arte contemporanea sembra voler lasciare il posto al discorso sull’arte e le poetiche; e il “comportamento” sembra dover prevaricare sulle opere. Certo lo smarrimento si avverte, la transizione, la crisi nel senso di renovatio, anche se stentata! E’ la decisa tendenza all’affermazione di una poesia in qualche modo di massa destinata a sostituire la poesia di élite, e forse a sovvertire se non addirittura a negare l’essenza, il concetto stesso di poesia. Quando poi oggi più che mai essa dovrebbe porsi, a nostro avviso, quale irriducibile e irrinunciabile alternativa al quotidiano, al comune, al reale, alla finitudine delle cose, al potere istituito, ecc., in una dim ensione autre, nella temperie insostituibile della fictio, incontaminata dal pragma e dalla politica. L’artista non può e non vuole cambiare il mondo, dovendo restare questa
una prerogativa dei politici, egli vuole solo rappresentarlo, scoprirvi un po’ dell’infinito mistero nascosto nella realtà apparente, alla ricerca delle oscure e remote radici dell’uomo. E sia chiaro che tutti i mezzi sono buoni allorché si raggiungano dei risultati, si creino opere autentiche.”

Ciò che Colucci andrà a realizzare, dopo “La pagaia”, sarà un atto di fede verso un linguaggio amaro, dissacrante, espressivo, legato all’ironia e alla generale denuncia del nonsense. attraverso il gioco delle figure retoriche, come le allegorie, le metafore, i simboli, le allitterazioni, l’interruzione del verso nel segmento concettuale, in una commistione di lacerti che si inseriscono come elementi complementari nella struttura del testo, fino a rendere preziosi e unitari i collegamenti tra pensiero e sentimento, all’interno della fisiologia dei segni o della scrittura in versi, tanto da rendere acquisiti nel gusto della lettura, fra l’altro, alcuni vocaboli stranieri (departs, hippy, self non self, scold, achtung,danke schòn, abat-jour, designer, passengers are kindly requested, varietè, èpoque ecc.), come microcellule linguistiche calibrate nell’uso e nella dinamica del discorso. Senza dire, poi, dell’introduzione, a vele spiegate, di una terminologia medico-scientifica, come già accennato altrove.

Placebo (1975)

E’ il libro che più incide come linea spartiacque tra i volumi “Una vita fedele” e “La pagaia” da una parte, e le successive opere in versi forse fino all’ultimo libro, dall’altra. C’è in Colucci una coscienza tragica e negativa di fronte al divenire della Storia e dei moventi oscuri dell’esistenza. Il paesaggio è sì quello della memoria-morte, ma anche quello più percettibile del dolore, con una perlustrazione profonda nelle falde dell’anima frastagliata da tanti piccoli Olzweg o sentieri di cui parlava Heidegger, e che all’improvviso si perdono nel bosco lasciando nello smarrimento chi li percorre, proprio perché i segnali d’accesso sono pochi e le scritte, tra l’altro, non chiare. Sicuro è solo il pensiero della condizione dell’uomo singolo non soggetto assoluto e reale, ma individuo esistente e perciò finito.
Ed è in questo spaesamento di luoghi e di identità, che nasce la religione della solitudine in Colucci, il quale percepisce il destino dell’uomo, analizzandone i sintomi e ricorrendo anche alla Poesia come Placebo, per meglio schermarsi dalle onde del quotidiano, con dei “versi che si susseguono contenendo in sé un dato, un’osservazione, un’ipotesi, un giudizio, una condizione: ma ogni sentiero è interrotto, ogni continuità è spezzata, ogni durata impossibile al di là dal breve segmento verbale.” (Giorgio Bàrberi Squarotti)
Abituato a “vedere” la vita con gli occhi di medico-scrittore, Colucci si muove in un retroterra culturale di tipo nicciano che annette a sé i brividi mitteleuropei del tempo della disfatta e del pensiero negativo.
Nell’ambito della ricerca e dell’autonomia linguistica, Egli prova a disegnare una Storia da narrare e divulgare come testimonianza di vita e di ricerca etico-morale, spesso correlata agli elementi dialettici del presente e del passato, del dolore e della morte, figure altamente emblematiche della nostra poesia, per le devianze culturali che esse possono svolgere, sia in senso positivo, che negativo; da qui lo sforzo del loro superamento er(etico) attraverso, come già si è detto, la pratica del Placebo che nel glossario medico sta a indicare “una misura terapeutica di efficacia nulla” e che in Colucci si presta a lenire la realtà, prima di “cedere alla morte lo scettro del dominio e la stessa soluzione del nostro generale essere persone destinate” (Giuseppe Zagarrio da “Febbre furore e fiele”, Mursia, 1983, pag.575), o di ricorrere
ad un attento esame autoptico dell’esistenza per capire “il male di vivere”, il perché del globale disfacimento delle cose, del mondo, del nostro essere “qui e ora”, e di innalzare un’accorata ed ultima “Preghiera” che “dia la possibilità di un altro colpo di dadi, che rilanci la partita e, sia pure per un attimo, ne rimetta in gioco il risultato” (Pasquale A. De Lisio), “Una poesia di sistoli e diastoli per la civiltà occidentale senza l’Atlantide,” su “Proposte Molisane”, Edizioni Enne, 82/2 pag.176, e, infine, di giungere all’Afasia, titolo di un libro successivo, e cioè alla incapacità di parlare e trasmettere messaggi o segni nel corso del viaggio al buio e in piena notte, dove non vi sono “curabili indizi” ma solo “partenze, departs, qui e là” e ovunque “brevi epitaffi”.
Di fronte alle letture, non sempre traducibili, di quel grande tomo che è l’esistenza, nonché alla presa d’atto fallimentare della propria coscienza, incapace di dare una risposta alle domande che più distruttivamente azzerano la logica dell’indagine esistenziale, si aprono le vie del ritorno verso la “Memoria”, un altro titolo dei successivi libri di Colucci, fino a ritrovare in essa l’originario aggancio con la serenità, regredendo in una zona ancora più illusoria e ingannevole come rifugio e “Placebo”. E’ una poesia dal tono novecentesco, senza provocazione oltranzista, magmatica e brulicante di segni e simboli del nostro tempo, fra progetti di “rendiconto” e rifiuto del “consolatorio”, nella presa d’atto della vita radiografata a fondo, attraverso un processo di (auto)analisi che poggia la sua ricerca su un esame differenziale dei sintomi e delle anamnesi, con riscontri critici di indubbia rilevanza, come quelli espressi da Luigi Baldacci in una lettera, (Firenze, ottobre 1975), inviata all’Autore:

Caro Dott. Colucci,
(…) La Sua poesia regge , nel senso che ci dà tutte le coordinate di una situazione: situazione non gradevole, aspra, frantumata; ma è la nostra. E forse non sarebbe possibile rendere l’illusorietà di questa situazione (Placebo) se Lei non ricorresse a quel Suo gioco combinatorio, confondendo le tessere di un mosaico disfatto . (…) la Sua chiave compositiva mi pare molto originale. (…) Il Suo linguaggio è fortemente conseguente ed è estraneo ad ogni cifra di dilettantismo. I medici che scrivono a volte lo sono, anche in senso molto felice: pensi al caso di Tobino.
Potrei soffermarmi più a lungo, ma credo che sarebbe superfluo e ambizioso da parte mia un giudizio più puntuale. Io posso dirLe solo questo: che la Sua poesia ha tutti i caratteri di una moneta che suona giusta e che corre, circola. A questo punto il discorso dovrebbe spostarsi sul sistema monetario, sul quale io possa avere delle idee, ma non è il caso di esternarle, anche perché, torno a dire, sono le idee di un osservatore, non di uno che è dentro alle cose.
RingraziandoLa ancora, Le faccio gli auguri più sinceri per il Suo lavoro e per il nuovo anno.

Preghiera occidentale (1981)

La fortuna di questo libro si lega soprattutto ad un più ampio respiro poetico e tematico: un libro che va ad incidere anche gli aspetti storici della nostra epoca segnata da stragi impunite e terribili guerre: la rivoluzione d’ottobre, i Romanov, Marcinelle, in uno scenario di rivoluzione, con i pacifisti d’America e Martin Luther King, il movimento studentesco in Italia e “le masse” come le chiama Colucci nella poesia dal titolo “Amate grondaie” (pag.81): tutti temi che accanto a quelli esistenziali e autobiografici, permettono l’accesso della poesia nella Storia come in “Lettera da dove” (pag.13). L’egemonia del negativo e l’impossibilità di ricorrere a eventuali guarigioni, col giudizio finale più di tipo purgatoriale che liberatorio, fanno di Preghiera occidentale un “lazzaretto” di storpi e cancerosi, di “mali ereditati” e di “pazienti” all’ultimo stadio, soli sulla battigia, in attesa di un messaggio che non arriverà. Più in generale, si potrebbe parlare di una poesia o di una storia da “ossi di seppia”, un’avventura spietata sotto la luce del sole, al di qua di una muraglia dove si frantumano i sogni e i ritmi del nostro tempo.
A questo punto si potrà parlare di Colucci come di un poeta “sotterraneo”, in grado cioè di sondare a fondo il vissuto quotidiano, fino a produrre strappi e lacerazioni; citiamo intanto certe impressioni di Zagarrio su questo poeta meridionale che “affonda lo sguardo o il “bisturi” sulla “tragicità della vita” e alcune affermazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti quando parla di “pluralità infinita di dichiarazioni, proteste, rivolte che si pronunciano tutte sull’orlo del silenzio, della vita e della Storia”.
“Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe, rivela in sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad organizzare tra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto, se non di salvezza almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò che abbiamo definito il folclore medico: definizioni di stati patologici senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali. Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di profondità spirituali insospettate E la speranza rinasce proprio nell’immagine del dolore che sembrava vanificarla” (Lorenzo Sbragi, su Nostro Tempo, aprile 1982-marzo 1983, pagg. 25-26). Queste citazioni ci sembrano essenziali per condurre il lettore nella centralità concettuale, vero “campo di forza” di Colucci, da cui partono tutte le onde psicoespressive in una operazione poetico-testamentaria che attualizza “l’effimero” del genere umano di fronte ai processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose e all’accumulo forzato degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori.
Entriamo nel campo di una poesia psicosomatica e fisiologica che, adattando il linguaggio della scienza medica (prognosi, diagnosi, eutanasia, autopsia, noan, tranquirit, ecc.), ai vari fatti o eventi quotidiani, traspone in similitudine le vicende umane ampliandone il dato enigmatico, l’interrogativo, lo sforzo razionale dell’indagine, tra veleni e morsi, scarti d’ironia e delusioni. Allora il gioco speculativo di un viaggio à rebours, come ritorno al passato e riaggancio ad un paese innocente, diventa puro azzardo, rischio utopico, imprevedibile sortita, mentre si acuisce “ quel mal di capo / che non cede a niente” e che permane tenacemente come un riflesso somatico.
Personaggio di primo piano di “Preghiera occidental” è la morte laica, senza speranza e illusione metafisica o progetto per il futuro.
Questa “coscienza” della morte fa di “Preghiera occidentale” un volume unico ed esemplare, per quella somma di agonie, di malattie inguaribili, e di sindromi varie, con patologie a lenta evoluzione; tutti processi degenerativi che si ribaltano, fuori metafora, sul destino dell’uomo e ne limitano le vie di fuga o di salvezza. Un’uscita di emergenza che l’Autore ci lascia qui e là chiaramente vedere….

La bella afasia (1983)

Il discorso sul tema “qui e ora” diventa rapporto incomunicante, afasia di segni e di significati. Questa impossibilità di comunicazione dà il titolo ad un’altra opera di Colucci: La bella afasia, e riconferma in pieno il magma psicolinguistico di “Preghiera occidentale”.
Siamo di fronte al negativo, alle morti improvvise, alle eutanasie, al rigetto del passato che non attecchisce sulla felicità, al continuum poetico sul nulla globale di fronte al quale risulta vano qualsiasi prontuario terapeutico, né pare di intravedere, oltre i simboli e le ipotiposi, le variazioni su tema o di scorgere percorsi alternativi, cioè gli altri luoghi meno dolorosi e tristi della nostra esistenza. Anzitutto il volume si affida al suono di una percussione ritmica di un tamburo di latta che ci viene a ricordare il senso effimero delle cose con una cadenza monodica, ossessiva e minacciosa. Si chiariscono anche qui i termini musicali di una orchestrazione tra solfeggi e pause, su uno spartito che tende a trasmetterci il messaggio drammatico e tragico della vita. Il resto è un’attesa di quiete, di esperienze quotidiane che portano tutte a un cul-de-sac, non prima di aver valutato tutte le possibili ipotesi di uscita o di soccorso come nell’incerto May Day in East River nell’ultimo libro (edito nel ’92) di “A fuochi spenti”. La speranza è ancora lontana. Restano i riti; quelli che riguardano i cari estinti, e i nostri assurdi oroscopi: “Settimana insolita / occasione in famiglia / sarà bene evitare e anche il futuro /pane e dolore in do /cautela nei mali salute nuova / a sera un po’ di voglia e di, / fate carità a gente fidata / ai padroni offrite miglio / l’astro consiglia il venerdì / e non mettere niente addosso ai morti”(pag.73), e che rivelano, accanto alla minimalità delle cose, una serietà dell’esposizione della morte che va al di là della pur pungente e sottile ironia.
A questo punto non si tratta più di chiederci dove punterà la poesia di Colucci in quanto già sono delineate traiettorie e coordinate, ma di restare ancorati come lettori alla speranza di un possibile ritorno di quell’Atlantide così cara al poeta ma che non riemerge neppure in “A fuochi spenti”, dove più acuta si fa la dialettica sull’esistenza, in quanto tutti i possibili giochi sono fatti.

Memoria e fuga (1987)

La dedica che troviamo in apertura del volume, sintetizzata nei due versi: “alla memoria di mio padre / mite patriarca (1889-1986)”è significativa di un iter poetico che si snoda intorno al discorso sulla morte, che è poi sempre lo stesso personaggio capace di dare scacco ai superstiti e a chi ravviva nel tempo le figure dei cari estinti che ”bisogna accompagnarli…./ fino al momento estremo / aiutarli a passare in borghese / di là dal ponte fra due Nulla”, mentre le occasioni poetiche sono consuntivi di vita che si sfiammano davanti alle pasque di ceneri, tra angosce del passato e nevrosi del presente. Il volume si propone come momento dialettico con “l’assenza” che resta una minaccia, oscura e misteriosa, al di là della quale sembra impossibile un incontro con la Divinità. E’ un discorso di descrizione oggettiva di tempi e luoghi diversi e di concretezza realistica. In “Memoria e fuga” “prendono risalto, luminoso e disincantato, le figure del pater e della mater… come a simboleggiare…la vita-morte, lo scorrere infinito del tempo, l’approdo forse definitivo, ma senza promesse.”(Carmine Di Biase in Profilo critico di Carlo Felice Colucci, pag. 28 di “Oltranza”, Rivista di Letteratura ed altro, Guida Editore).

A fuochi spenti (1992)

Questo volume è la sintesi di sentimenti riferiti alle storie delle ceneri e del cupio dissolvi esaminati come fattori psicologici e risonanze interiori nel riverbero di una scrittura che ha dato fondo a tutte le possibilità di comunicazione e di alienazione tra il poeta stesso e il mondo esterno, quest’ultimo sempre più agonico e tragico “Non è tempo di ideali, non c’è spazio per alti valori. Tutto crolla, anche perché gli anni incalzano e il cerchio della vita si restringe sempre più, inesorabilmente” (Vittoriano Esposito: L’altro Novecento vol. I, Bastogi 1995).
In effetti qui permangono e si consolidano relazioni memoriali da piccolo spleen, e vedute d’interno con ombre crepuscolari, nella misura di un discorso fattosi più pieghevole e di toni bassi.
Basterà citare alcuni testi “In memoria di Mary e Francis” (pag.12), o “In memoria” (pag.20) che è quasi un pre-epitaffio, oppure “Il cappello nuovo” (pag.28) che colpisce soprattutto per il forte amore filiale, tra riti e gestualità che difficilmente si possono dimenticare, come non può passare inosservato, il sorprendente tragico gioco ironico in “Leucopoesia” (pag.36): un testo emblematico che rivela una visione razionalissima del “corpo” visto in tutta la sua imperfezione e fragilità attraverso la fine delle cellule e della vita stessa.
“Quello che subito s’impone al lettore di questa poesia è un arduo, delicatissimo equilibrio tra senso e paradosso, cortocircuito verbale e ironia…Il poeta mostra un interesse esclusivo per la parola come veicolo di suggestioni fono-ritmiche di associazioni fantasmatiche e immaginative. Ciò gli è possibile perché di volta in volta si fa catturare dal segreto tarlo, dalle tensioni e contrapposizioni, dalla instabile e corrosiva energia vitale che attraversa la natura, la società, l’individuo, la stessa poesia.”(Michele Sovente, Oggi e Domani nn, 4-5 aprile- maggio 94).
Ma scavando ancora di più tra le radici del sentimento del Poeta, si potrebbe intravedere qui e là, qualche avvisaglia di ragionato, sobrio, fugace mutamento, nel senso d’una minore rottura e frantumazione del linguaggio, d’una sua un po’ attenuata babele lessicale, semantica e sintattica d’un maggiore rispetto e ordine per significato e significante ecc. Ma sarà davvero così? E cosa può lasciarci presagire, se ciò fosse confermato, del futuro della poesia colucciana?! Non pare facile a noi anticiparlo, questo futuro, qui e ora…
La poesia di Colucci porta con sé, inevitabilmente, la problematica della crisi dell’uomo e della civiltà contemporanea, per quel sentimento tragico della vita che trova nel pessimismo e nell’esistenzialismo trasgressivo le ragioni stesse dell’indagine. Solo gli piacerebbe fare il cammino “a ritroso”, in attesa del “ritorno degli ostaggi”, siano essi l’amore perduto o l’infanzia col ricordo del “bianco fischio del lattaio”.
La sua è la posizione dell’astante che legge e sottoscrive i segni e i significati del nostro tempo, traducendoli in cartelle diagnostiche che lasciano poco spazio all’illusione e ai miraggi esterni; con una visione altamente laica del destino dell’uomo. Cala il buio, non vi sono più luci per le strade del Mondo e sul nostro destino di trasmigrati e trasmigranti. Conta solo quello che è stato e che accende la memoria come lampada votiva: ma deve succedere ancora qualcosa e incidere nel martoriato tessuto di codesta poesia. Come si dirà nelle pagine seguenti.

Seconda parte

FINALE DI PARTITA
(poetica)

Il viaggio inutile (2003)
La materia dei sogni (2004)
Io per le strade (2004)
Il tempo del seme (2005)

Dopo il 1992, Carlo Felice Colucci non pubblica più libri di poesia, per quasi un decennio, perché afflitto da malanni di vario genere, avendo a che fare con luoghi di cura non più da medico ma pure da paziente. Il ritorno all’esercizio poetico avverrà gradualmente, a margine di una convalescenza che non mancherà di portare primizie poetiche con il volume “Il viaggio inutile”, dove la Storia si lega alla vita e questa alla poesia, in un fitto schedario di memories: ”Madre, / così iniziò la nostra guerra / un andare e venire, noi, / dalle caverne della preistoria ai / ricoveri di roccia, alle foreste” (pag.11). Ma sono tanti gli episodi narrati nei quali mancano i giorni per seminare, e la partita è tutta da giocare, dove solo riscatto è il distacco paziente e sofferto, solo rifugio la pietas, la memoria dei cari, sola difesa l’ironia; solo scudo il riso beffardo e scanzonato da clown; e senza rimedio che il placebo (Nota dell’autore, pag.5). E il cammino poetico, ancora una volta, è già tracciato: chiamiamolo, prologo, teatro dei fantasmi, o dei pagliacci, dissoluzione del futuro e trappola dell’esistenza “la conta delle irradiazioni tengo / ma ancora la vertebra che duole, / duole, metastasi anch’io, Mater / e niente prole /” (pag.13): un viaggio che trova la sua ragione d’essere in quella categoria dello spirito la cui matrice introspettiva conserva le tracce mnestiche e il silenzio dell’interiorizzazione. (Carlo Di Lieto). Per questa via si collega più “La materia dei sogni” dove il pensiero si restringe in immagini chiaroscurali, d’illuminante percezione simbolica.”Il cuore della terra perde colpi / come quello dei versi che non leggi / mentre lontano chiama l’arrotino, / metti un lume a petrolio una buia notte, / Pierrot lunare: quell’ombra che passa / lieve lieve e non t’accorgi, è la vita” (pag.22). Né mancano elementi linguistici portati ad un livello di massima tensione concettuale, fino a riscoprire il connubio interattivo tra parola e immagine.
In “Io per le strade” permane intatto il codice esistenziale, come canone bioumorale dove i giri della vita rallentano di fronte a certe memorie irte / dell’età matura, dentro confini vuoti e senza sole: Se ho dolori, uso artiglio del diavolo / e su un letto di Procuste mi stiro / da tempo i mandarini preferisco / e non divoro più il prozac o il viagra / l’amore senza età sognammo in tanti / e anche Felice ( il mio secondo nome) /, neppure oggi verrà l’alto postino / a informarmi che nessuno mi ha scritto / che ormai non sapremo più niente, niente / (pag.44).
Qui possiamo anche andare oltre, spingerci nei dintorni di una misantropia indotta da una società che non ama i poeti, e che disperde, giorno dopo giorno, il suo patrimonio di storia e di identità, (Cesare Segre), pensiero espresso anche dal Colucci sebbene con sfumature diverse (si veda, ad esempio la sezione -Colloquio con l’autore-) in questo saggio.
L’utilizzazione della poesia, come veicolo di rappresentazione e di conoscenza del mondo, apre scenari imprevedibili, quando si raggiungono contenuti di mistero e di enigmaticità, per questo non crediamo che essa sia inutile, specie quando la sua presenza, finisce con l’essere una malattia assolutamente endemica e incurabile (Montale). Alcune poesie contenute ne “Il tempo del seme” (Pesci rossi al policlinico, Finale di radioterapia, Prostatiche allegorie, ecc) sono legate alle vicende della malattia- e come tali vanno lette, se è vero, come è vero, che se l’arte e il linguaggio fondano la vita, né l’una, né l’altro potrebbero mai esistere fuor dall’esperienza esistenziale a cui ogni artista sempre si abbevera, anche a propria insaputa. (Nota dell’Autore, pag.101). Questo volume, inviato alle case editrici maggiori, rimase a lungo in ombra, né vide la strada della pubblicazione, non potendo l’autore vantare alcun rapporto di cuginanza con gli editori, sebbene di — padrini — Colucci non ne abbia mai avuti o conosciuti in letteratura e in politica, dove si annidano i nomi dei poeti più ricorrenti nelle antologie e nei corsivi: luoghi di autentica mistificazione culturale. Una cosa va detta: se il volume “Preghiera occidentale” fosse stato pubblicato, a suo tempo, da Mondadori o da Einaudi, non ci saremmo occupati ora, dell’invisibilità poetica dell’autore, e di un delitto letterario in più. Quello che colpisce nella (sua poesia) è la tenacia, la persistenza della sua parola poetica… dell’unicità, della solitudine, dello scavo esistenziale secondo la propria natura” (Marco Forti, pref. a “Il tempo del seme” pag.109), condensata in un mix di collettive pulsioni nelle quali si percepisce un diario poetico, capace di trovare correlativi oggettivi, tra figure bibliche, e nuove rovine, nell’ora che passa e che segna la fine, me ne andrò via da solo, nottetempo,/ coi ragazzi di via Panisperna” (pag. 26), fuori da ogni approdo metafisico, il mio Gesù non abita la storia (pag.28).
A volte, ci s’imbatte in fissurazioni lessicali, come ad annunciare un’altra bufera di sentimenti, e di vita combusta, rilevabili nel testo L’urlo, col sottotitolo (a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare), (pag. 30), dove si acuiscono le implosioni psicologiche, attraverso un grido soffocato, simile a quello riportato nel dipinto di Munch, forse l’opera più famosa del maestro norvegese, attestante l’angoscia dell’esistenza, che si riverbera come un angelo nero nella poesia di Colucci, legata alla poetica delle cifre del vissuto, in cui anche l’Urlo di Allen Ginsberg, pare prestarsi molto bene alla poetica del Nostro, per via del linguaggio fatto di realtà fisica, fisiologica, biologica, di furore creativo e di allargamento dell’area della coscienza: un volume, secondo alcuni, che cambiò l’America e anche il mondo. Per questa via si possono leggere e interpretare le quattro opere “Il viaggio inutile”, “La materia dei sogni”, “Io per le strade” e “Il tempo del seme”, così allineate nell’arco di appena un triennio, secondo un racconto con più capitoli, tra similitudini e paratassi: quattro opere, quattro pedine da giocare sotto la luce di una temporalità spettrale, bordeggiante il campo della sconfitta, prima del gorgo.
Nell’inevitabile corsa verso l’ultima sfida, adottando sempre più frequentemente “distesi” — solo in apparenza — endecasillabi (si vedano, qui, gli Inediti), Colucci riporta i silenzi e i rumori della vita, attualizzando il tema degli assenti, che non hanno più voce, né storia o avvenire, collocati al centro di una realtà metateatrale e nel poco spazio che resta, consapevole che nella partita che si accinge a portare a termine, non sono ammessi trucchi, ma solo la parola nuda e cruda, in cui ancora credere. Ed è in questa metafora scacchistica, che si espone allo scoperto il destino di un uomo e il suo universo poetico, riflettendo, ancora per certi aspetti, il “paradigma apodittico della Weltanschaung beckettiana”, in cui la transizione linguistica è “consapevolezza abbagliante della natura della poesia, e più in specifico, grammatica dell’ineffabile”.

Mario M. Gabriele

Antologia poetica

da: Una vita fedele (1963)

Il pianto d’un uomo

Un giorno, su certe sedie di paglia
s’udiva ancora il pianto d’un uomo,
il canto, un paese, una vita fedele.
E se ne andarono tutti sui carri,
coi lumi spenti, come una fuga.
Qui non sanno le voci,
l’erba e fumo intatti sul muro,
le ghirlande dei giorni
intrecciate con i fiori d’uomo.
Un posto di gente senza infanzia
e cuore uno screzio, gridano forte
i motori, non s’ode
la ruota lenta dei morti.
I pierrot si giocano
pezzi di luna
dietro le case fredde di mattoni
dove rompono silenzio i gufi
e occhi di buio.

Due novembre al tuo paese

Quella sera nessuno ti chiamò
e l’ombre furono sui muri a calce
e noi con loro. Pigiavamo
chicchi d’uva, buccia e semi,
tu dicevi dei nonni
alti negli anni, di ragazzi,
io d’una pianta che non cresceva
al tuo ritorno.
Le città gridavano lontano.
E un sonno stanco ti cadde sul petto
e la neve di tua madre, furtiva.
Novembre sulla porta
inutile tentava di chiamarci.
I morti piangevano da soli
un’altra volta e il vento rotolava
latte vuote nelle selci.

Per una donna

Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel fuoco,
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento,
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli da le rupi,
spezzavano corde alle chitarre.

Notturno

Anche le città diventano di sonno,
la folla, lasciano pochi neon,
e uno crede che non dovrebbero
se viene da un paese e cammina,
un paese di piccole cantine.
Anche i manichini sono stanchi.
E gli uomini, le cose che tocchi,
il silenzio diventano
tristezza in vetrina.
E due fanali in corsa
dentro la gola alta de le case
non sono i carri senza lume
che improvvisi ti si parano avanti,
lungo i fossi stellati,
a cigolare di gioia.
Tu neppure, Martino,
il tuo peccato è sulla vigna,
fra i mattoni rossi,
il mondo in un’arancia.

da: La Pagaia (1967)
Ritratto d’uomo

Ora nessuno ricorda
agli angoli di strada
sui tetti rossi di stupore
dove abbiamo sepolto
le mie lune d’agosto i lager.
Dov’è quel silenzio di notte
per coprirci,
il vento matto negli ulivi?
Portava un segno nero sulla giacca
il ragazzo che ero
il mare in mezzo ai libri,
e chi può ricordare,
compagno d’alba,
chi rubava orme al tuo roseto
la nostra donna sopr’al molo.
Sapessi almeno dove gioca
mia madre bianca sulle grucce,
dove raccoglie arance per la cena.
Sembrano bare d’infanzia
le case mute qui d’intorno,
bisognerà avere presto
un ritratto d’uomo,
prima che l’incrocio torni rosso,
portare qualcuno sulle braccia.
Nel tuo giardino ho visto ancora
quel cane imbalsamato.

Certe domeniche

Da noi sanno tutti
le domeniche lunghe degli uomini
a togliere tappi alle birre,
e poi schiuma, e poi acqua.
E quando il nostro vicino parlava
gli guardavamo lo sfregio
ma nessuno ascoltava,
nemmeno i vecchi, più neri
dei corvi sugli ulivi e via.
Era estate la sera, senza prezzo.
Leggevamo il fondo ai bicchieri
come una mano oscura,
le bottiglie vuote e gialle,
come parole, tabacco sui denti.
Coi tappi, giocavano i ragazzi.
Certe domeniche,
se indovini la casa,
per fortuna
ci copre un velo di fumo
alle altalene dei prati
e, più tardi, all’occhio del lume.
Quando il nostro vicino vuotava
la pipa, era quasi ora, quasi domani,
l’ultimo carro di sonno e i miei.
Certe domeniche,
se indovini la strada,
sembriamo un paese di salici.

Il mio paese

Quando finisce qualcuno
portano da mangiare i vicini,
pesce secco e farina,
e il vento pigro di zagare
sembra dondolare solo
quella campana di Martino.
I ragazzi, li mandano nudi
sulla spiaggia, a prendere meduse.
E duecento metri ancora
mentre tolgono santi e luminarie.
Quante medicine per guarire,
al mio paese anche la morte
viene scalza sotto il sole
e monda fichi d’india per la via.

da: Placebo (1975)
Da tempo

Da tempo non ridiamo
non viene primavera
non abbiamo capelli ormai
e nemmeno pensieri parole per
L’isola misteriosa e l’uomo nero
di fronte leggono destini
bruciano vivo il prossimo per gioco
ti ho serbato i giornali
ma niente di noi del viaggio
sordo e cieco all’ora d’Emmaus
e ci danno la buona Pasqua
la buona tavola addosso
ignorando se restar desti oppure
fanno l’anestesia non temere
e che freddo nel cuore degli altri,
da tempo non sogno a colori
non passa il dubbio
non chiedo grazia e nemmeno
mi toccano con un dito un filo
di speranza e sarebbe tumore
il Nicchio gridava la Tartuca
e così di contrada in contrada
l’infanzia collettiva
prova d’artista viola d’amore
nessuno ci lecca le ferite
nessuno ci suona la fanfara
nelle città dell’avvenire e tu
le ombre nella madia il sangue a pezzi,
da tempo non vediamo
non s’avverte dolore placebo
la tosse dei miei fra le navate
e non usciamo dal ghetto
non lasciamo graffiti storie
quei pochi cromosomi a farci
adesso potrei dirti che Melissa
è nome di pianta paese
ninfa tramutata in ape,
da tempo non cerchiamo
non vola il tuo demente e poi
non abbiamo più sonno denti
non abbiamo resto mongoloide
contiamo le rughe agli amici,
che strano silenzio da tempo
sul mio giorno a mondare
lupini e sogni nel metrò,
perché da tempo non crediamo
pecore a destra montoni a sinistra
non vengono i nostri,
non viene il mistral
non abbiamo sedie pazienza
e nemmeno colpe da offrire
inchieste da aprire
domani affiggo i manifesti
del mio sciopero a oltranza,
da lungo tempo attendiamo
che passi qualcuno
sui larghi balconi floreali
e non abbiamo più requiem
partigiano Johnny, in pace

Nel traffico

Dove c’era l’incrocio e svolto a destra,
qui comincia la città per chi
manichini e marciapiede
anarchici perbene in vetrina
i tram li hanno aboliti
gli anni di mio padre cavaliere
la terra è straniera
ma bisogna far presto sibi et paucis
chiude alle nove il fermo posta
sempre qualcuno a mendicare infanzia,
ora tamponano qualcosa in sosta
con la tua moto, è l’uomo
che una vita fa mi vendeva anguria
e prendere altre note smog
il nome ai travestiti
ma è tardi e domani
dove c’era l’incrocio
prognosi infausta barbone,
e poi il tunnel dagli occhi gialli
e cambierai colore finalmente
Campari Soda Esso Extra Hotel Oriente
o dove il monumento al lattaio
aperta a tutti la viltà
i sottopassaggi
saldi fine della serie
manca l’insegna dell’unico istante,
non hai età vecchio nell’abitacolo
operaio era il turno di notte
ci sarebbe da fondere un amico
finire in crepacuore come altri
e un clacson anche al mio Dio,
spengo la cicca e vengo, i fanalini,
a volte il rombo dei motori
sembra il mare in cui credemmo,
silenzio: farà violino
lo spago legato a un bidone

Le mie città

Sono lunghe e nude
come ore negli abitacoli
non impazzire sagittario
prima che sistole e diastole,
hanno vie deserte e fredde
come il dolore degli altri,
entra nel bar e dì che senza droga,
lo chiameremo Smog e sarà nero
vecchi sotto l’arco dell’estate
più a nessuno somigliate
garofani sulla paga del povero
su negri e negri da lapidare
torneremo alle case dei beat
con la fanfara del perdono,
le mie città sono bianche e pure
come notti che vegliammo in cerchio
scendono meste nei metrò
autopsia a un compagno di giochi
il vigile ha dato via libera,
non hanno stazioni dogana
la pioggia l’antico ritornello
ma dicono periferia soltanto
ciò che non siamo
quando cani abbaiavano
all’ombra dissepolta d’un romano
quando pietosa tacque la ruspa
mai saranno luoghi santi né tu
al crocicchio degli anni
dove col fiato mozzo
le mani gonfie di miti e di geloni
come il giorno che cercavamo ansiosi
una stanza mobiliata e qualche nome,
le mie città hanno tutte
una voglia di fine sulle guance

da: Preghiera occidentale (1981)

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette,
ho finito i gettoni,
altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva sì
l’uniforme da Lotta continua
ed uno vorrebbe alle spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza giochi di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie

Intervista

Non era prevista l’eterna luna
sulle nuche strette e lunghe delle ombre
ai tavoli spogli di amici
un poco d’ansia e passa la voglia,
nato maturato caduto qui e ora
passa la vita a un filo di parole
impossibile inguaribile
in conflitto col potere istituito
terra a tutti e il mio simile
non sono io né alcuno che mi somigli,
dire abbiamo la stessa donna
stessa energia divisa in quanti?
O un’agonia frugale in manicomio
dove in fondo optare per fede,
i signori giurati son pregati
allacciare cinture e non fumare
sette volte settanta è sempre poco,
e quando bambino innaffiavo beato
passanti e un geranio risecchito
quando il vicino di letto muore e tu,
amava tutto l’inesistente
il vuoto boccale dell’amico
la cerca dei miti porcini,
tanto odorava di niente il bosco
di belle addormentate qui e là tuia,
ma nessuno a stringerlo in tempo
in cerchio coi compagni di lager,
nessuno, ecco
adoro ipotesi assurde soia
latte rappreso i turni di notte
e dopo ci buttano sulla strada
piena d’occasioni perse e vagabondi
sulle rotaie sconnesse ci buttano
solo oroscopi ed offerte speciali,
questo è certo: mi voglio molto bene
scelgo attenuanti con cura
chiamo ancora l’appello in terza C
e sempre stento a levarmi di buon’ora,
zeppa memoria di ragazze e marinai
di cose e paesi provvisori, fame
stirpe dell’uomo da un lato e gli altri,
tossicomani dementi cancerosi,
nelle piazze del mondo a festeggiarmi
per poche aspirine e qualche mito
longevo ereditario sto tranquillo
sotto il segno dell’acquario naso in su,
ma in pigiama nessuno mi ricorda
nessuno crede che sia dottore
che abbia una paura più grande,
pro e contro dentro e fuori fa buio
e so di non rispondere a tutto,
solo rifarei il cammino a ritroso
lentamente, con estremi passi
dicendo a ognuno: per sempre

Amate grondaie

“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada,
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio, noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio ai Santi
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri,
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’inutile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi

In viaggio

Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dai lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
mai vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria
non è dove si nasce, la terra
partenze departs qui e là
quasi “rosa la rosa” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte sempre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici passengers
are kindly requested io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con le parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone
e basta

Il fondo

E’ l’ora pietosa walkiria
né vita né sogni scold
mai toccherò il fondo
come nel gioco del dolore,
sdrucita zimarra di miti
ci consolammo a vicenda
l’arte a due soldi
per pochi versi e una tisana
e mai nessuno ai quadrivi
di nebbie e di puttane
i tram li hanno aboliti
mio padre cavaliere,
così aggrotti paure vecchia notte
così un ragazzo di cuore dis moi
beveva d’un sorso la Senna
senza rosa dei venti a sfogliare
e mai toccherà il fondo
né con la vita né col podice
né con l’indice teso l’orecchio
al muto ansimare dei morti
che pigiano eterno e credeva,
o fra le antiche mura tabù
tranquirit noan ansiolin
avvolti in bandiere d’angoscia
in nome del Padre, del Figlio e
segnale di sorte anche tu scold
né coi sogni la fine toccherò
a rimorchio del male comune,
ma nemmeno raccontarmi
a un saba di folli, mai
la rondine sotto il tetto
non finirà mai il fondo,
chiusa luna al pozzo degli avi
sull’aia macchine rozze
trebbiano il poco amore che resta
degli anni scritti nei tronchi
e tu Don Chisciotte in vacanza
alto sul mio ronzinante,
uno che mai toccherà il fondo
né con la vita né col silenzio,
la grande notte s’avvicina
pietosa walkiria è l’ora
delle calme periferie,
né con la fine toccherò
né vita né sogni né fine, mai,
poi l’attimo infinito forse
del bianco fischio del lattaio

Terza parte
 
dall’Almanacco dello Specchio Mondadori,- 1983, n. 11
a cura di Marco Forti
da: Check-Up — (con prefazione di Giorgio Bassani)

(…) “ Già nelle prime prove (Una vita fedele, 1962), …. si intravede lo sforzo del poeta di aprirsi alla modernità senza disconoscere la tradizione, il bisogno di sliricizzarsi senza negarsi a un certo innato lirismo, di esorcizzare in qualche modo il sentimento, la nostalgia nei confronti dei luoghi d’origine, della mitica terra dell’infanzia. La poesia di Colucci, in seguito, a me pare sia sempre più derivata da questo tentativo, spesso egregiamente riuscito, di mediare le due opposte esigenze, le due diverse tensioni. (….) L’operazione stilistica nata da una simile motivazione si è andata via via rafforzando fino agli esiti di Placebo (1975), e soprattutto di Preghiera occidentale (1981), nella cui area collocherei i testi qui presentati, con in più, forse, una maggiore capacità di sintesi e una migliore misura della parola poetica. In essi, infatti, mi pare si realizzino, al massimo delle possibilità insite nella macchina creativa di Colucci, l’aspirazione ad attingere l’adeguata fusione del vecchio col nuovo, della tradizione con la modernità, approfondendo la scavo interiore ed il conflitto generato dalla doppia polarità cui dianzi si accennava, assimilando meglio quella smania di rivolta verso il culto stereotipo dell’io lirico, e, comunque mantenendosi, in ogni caso, a ragionevole distanza dall’eversione spericolata.
Così le rotture sintattiche, l’espressionismo, qua e là scandito anche dall’uso della terminologia medica, il sapiente assemblage di oggetti, le allusioni linguistiche, eccetera, finiscono in qualche modo col ricomporsi in un ordinato microcosmo sotterraneo, al cui centro è l’uomo col proprio dramma esistenziale, le proprie angosce, oppresso dagli eterni interrogativi irrisolti.
La poesia di Colucci, quindi, più incline ad oggettivare, a testimoniare l’universale schizofrenia, il nulla della vita e della Storia che non a confessarsi narcisisticamente, resta tutto sommato, antropomorfica, considerata insomma dall’autore, di là da ogni ricerca formale, soltanto un mezzo e mai un fine. (….) Uno dei suoi strumenti preferiti, e, a mio avviso, più validi in tal senso, è l’ironia sottilmente allusiva: un’ironia tanto assimilata, interiorizzata, per così dire, da diventare non di rado protagonista del discorso, con funzione esorcizzante nei confronti sia delle non mai disciolte neiges d’antan, sia della ricerca stessa del linguaggio “. (Giorgio Bassani)

Oroscopo

Settimana insolita
occasione in famiglia
sarà bene evitare e anche il futuro
pane e dolore in do
cautela nei mali salute nuova
a sera un po’ di voglia e di,
fate carità a gente fidata
ai padroni offrite miglio
l’astro consiglia il venerdì
e non mettere niente addosso ai morti

Esortazione

Non con l’avvenire,
domani ci cambieranno il cuore,
non con le parole,
bagatto etimo incerto,
non dimenticare l’eschimese
vecchio e solo con un pesce secco
lungo la banchisa
né i calzini di lana la Bibbia,
se ancora possiedi la valigia
dove c’era sempre poco spazio
e l’incertezza

Notizie dall’interno

All’interno rinvenuti i seguenti
un paio di scarpe da donna sola
un sandalo solo sempre da donna
due cappucci da sub e un’orma
e sotto il quadro comando a turno
borsetta con indirizzo
e numero del mio dentista
o la memoria del mare

Tempo previsto

Su tutti i versanti condizioni di
piovoso coperto sereno o quasi
con addensamenti e senza lungo i
mari niente o molto ondosi
dorranno più o meno artrosi
e i previsti su altri tornanti
foschie di notte e su valli del Nord
valli del Sud fino a Giosafat
col mio umore sempre variabile
stazionario il resto
e la data immutabile
che inutilmente c’incontreremo
per improbabile salvezza

Lanterna

E’ nel buio che affiora
sul morto binario del mio treno
una lanterna in mano al vento,
gallo non hai più canto
per l’alba del perdono,
golem o robot
dobbiamo andare
coi segnali del tempo
e un fischio di meno
in fondo al sangue

Notizie

A sera poi tutti portiamo una stella
sul nudo capo, sulle ombre lunghe
a volte un’intera luna piena
come rotonda pazzia di Re
le sciabole corte dell’infanzia,
antiche anemie mediterranee
sui volti affilati dagli esodi acerbi
dal dubbio del siamo non siamo,
qui nascono in molti malformati
a causa di non so quali scorie
e lento s’insinua il veleno
dentro le coscienze, rauco geme il tarlo
nel decrepito legno del secolo
s’annunzia il rifiuto sublime
dei giorni di minime baldorie,
o salire occulti al borgo del perdono
e niente sotto i tetti sotto i letti
una rondine un fiocco di memoria,
solo uno che attraversava zodiaci
e inspirava profondo
provvisorie domeniche di maggio
coi dolci e la morte nel cartoccio
qui giace pubblico benefattore,
solo un mite fantasma di guerriero
nel nostro vecchio bunker pensionato,
sono calchi di gesso le parole
mentre s’inebria di sgomento la città
negli orologi molli sciogliamo le ore
e chi soffia lento il mio nome
nel computer
come una secca notizia di giornale
e mi disvela
per sempre

da: La bella afasia (1983)

Per un ammalato inguaribile, a L.O.

E’ come salire buie scale
d’una torre medioevale
stremata smania di guarire e di,
anche tu l’hai issata
come lacera bandiera
come noi nato a, sotto il segno di,
o Chi beato salì al cielo il terzo giorno,
secca rosa dei venti brucia
apre l’attesa nuovi sodalizi
ma nell’alcova del dolore
in punta di piedi e sensi di colpa
sulle arsure adesso già t’abbandoniamo
e quei lunghi invalicabili
silenzi di Tartaria
il breve ponte in bilico achtung
fra l’essere e il non essere,
sui binari del tempo ferroviere
la fioca lanterna
che a terra ci fondeva l’ombre,
scoppiano metastasi
avverte zelante l’infermiere
spaccano i vetri tersi della sera
e un minimo progetto di futuro
citostatici più radiazioni più,
una goccia di sonno finalmente
nel tuo deserto letto
ti promettono stanotte
madame la morfina
puttana di riguardo,
oppure e così sia
la bella cachessia
ammen

Check-up

Oggi senza fiatare dopotutto
mi lascio frugare il sangue check-up,
non fumo non bevo ed ho le arterie chiuse,
dalle donne ai cauti davanzali
di gerani e zucchero filato
mi lascio allattare in sogno
il ragazzo che arrossiva per niente
e sempre quel mezzo falò dietro i paesi
mezz’ombra mezza parola
nel fermo esilio dei sentimenti
nei buchi neri del cosmo,
oggi vorrei almeno rasarmi con cura
dove non possiamo contarci
i cromosoni ogni mattina, le rughe
in silenzio in attesa in
metamorfosi del privato bada
e neppure blande verruche,
check-up del vissuto esistenziale
gli astri dicono di rischiare
se per fede s’accendeva un cero
qui la degenza non si paga
popolata di strumenti perfetti
e di paure-up,
noi ignari moribondi forse
chiudi bene la porta e il gas,
domani sapremo i risultati
i manifesti dell’età matura
e ce li scambieremo, Dio voglia,
come auguri un po’ natalizi semmai,
s’opera di prostata, pensa,
a novant’anni il professore check-up
o un avvenire ellittico

da: Memoria e fuga (1987)

Circostanza

Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai, complici, ammiccare,
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere
dita a intrecciarsi per niente
affusolate, un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater, ma a che misteri
nel morir tuo lieve
mi iniziavi,
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza

Memoria e fuga

Per una qualche variopinta costa
oggi partiamo banditore
e un po’ gremita semmai
(ch’eravamo al mare scoppiò la guerra)
all’assalto strenui vacanzieri
d’un breve borgo di miti e di bagnanti
partiamo con bagagli,
prima i bagagli, cara, e poi la fine
queste morte cose in apparenza
ma le nostre ombre esatte
burlone fra l’una e l’altra diceria solare
o dei pensieri il trespolo che non trova spazio,
ancora gli occhiali scordo
vecchio figlio della lupa e accessori
(mia madre in fuga per mano ci teneva e
sotto i colpi caddero prima i fortilizi,
di sabbia e vento),
e come ride sdentata l’autostrada,
come oggi sembriamo più seri tutti in colonna
dentro abitacoli perfetti
nel siamo non siamo
falotico nome ci assilla,
Bomarzo di mostri e di foreste,
labile cippo su senile itinerario,
a una risorta luna malaticcia
apriamo i deflettori
ma quanti anelano già
le bianche statuine del ritorno in un baleno
e non si può senza partire, non si può, nessuno torna
dai campi di sterminio
c’è esodo e esodo, memorie e memorie vi sono
in tanti dimidiati feticci
(fiori di piombo colsi a lungo ragazzo sull’altana)
o delle coronarie l’ora in pillole e supposte
al prossimo autogrill suggerito
e circa a metà via saremo
da non ricordo più che tregua da
che isole di carta e ore d’aria,
d’un giovane linciato allo stadio
udiamo in sottofondo
mentre uno in divisa e zelo
serve rinfreschi e annunzia
dalla cimasa del tempo
(e fu sapore di fame il pane giallo)
estati sempre più calde annunzia
prive d’amuleti ormai
e con ventagli di futuro
leggeri proseguiamo
noi, cosiddetti, ariani
alla memoria, in fuga

Lettera da un posto

Qualcosa portiamo
solo a quei dolcissimi cani,
qualcosa,
randagi che ogni tanto
ci adottano
lungo i nostri pavidi cammini
d’obbedienza,
qui ci tentano murali e scritte
pire di galatei semmai
ancora sono acerbi
magnifici frutti della colpa
ma verremo, sotto i portici neri
di fumo, verremo con antico timore
un po’ di gloria a mendicare
ori trafughiamo alle parole,
com’è roca, senti, la voce del sangue
mater che aviti rosoli mi versavi
dagli anemici ritratti,
non s’incrina l’osso del dubbio
dove i cocci del tempo raccatto
e cancerògeni idrocarburi, dove
di notte non usciamo
in troppi sognano eterno ai crocevia
le perdute occasioni dei sobborghi e
quante insanite comete
quanti malfermi giramondi
si disfano al vento siderale,
così a volte impune corre l’onda
i bei moli deserti a saccheggiare
anche da noi la grama vita che resta,
minimi legni battono
a remi il ritmo del silenzio
o tamburi di latta
la fine d’un grande capo indiano,
e che altro?
Tutto era di oppio e nessuno se ne accorse
le monche ombre nel giardino d’inverno
i miei Re Magi

da: A fuochi spenti (1992)

In memoria di Mary e Francis
(Da un ritratto del 1845)

Ricordatevi di me
di me e di noi tutte
le altre come noi in ombra,
siamo le sorelle Mary
e Francis Wilcox di Stafford
eravamo del Maryland
sulle albe correvamo
fra le alte gambe dei boschi
e siamo volate via, anemiche,
molto presto troppo presto,
abbiate cura dei nostri giochi
delle care nostre bambole,
abbiate cura di voi
e delle vostre persone in luce
che tanto poco conoscete,
noi siamo ancora sole qui
ci dicono di aspettare
dove non faranno nidi
uccelli di passo
e non canteremo come una volta
né del male l’agonia,
non rifaremo il verso del lattaio
d’un mondo immacolato,
remember me, in segreto

Il cappello nuovo

Un cappellino oggi mi provo
un cappello pieno di cose
di cabale, uccelli,
di niente qui provo e riprovo,
di vecchia pioggia che tanto ci illuse
pieno di incerte parole il caso
un po’ sconnesse e un poco,
mi sta non mi sta malie
e di misura in misura, passato in futuro
provo e riprovo allo specchio,
al doppio, ghigna il gran cappellaio
quasi un’icona gelosa,
ma sotto l’ala del falco pellegrino
sotto la falda nosce te ipsum
nosce agli specchi deformanti
la bella eresia, la bella afasia
con l’uomo che ancora attende
apostoli fluenti chiome scoperte
e con me la scelta d’un copricapo
o d’un nebuloso cielo e corro,
la chiusa pietà,
e come corro tenendo per mano adesso
e con due sole dita il cappello nuovo
di panno blu, antiacqua, antismog
nessuno chiama alle giostre
nessuno più dai labirinti
e corro i morti a salutare
calvi di novembre, deliro
col mio cappello nuovo col mio
peccato non sia frigio non
cessi un istante lo sgomento bigio
o quelle corte feluche d’un tempo
così daccapo riprovarle io solo
all’imbrunito specchio di famiglia,
ambasciatore curvo con verruche, pater,
sopra la croce bianca a scappellarmi

Leucopoesia

Con mielosi leucosi blastosi
come dire con linfo mielo blasti
o nucleari atipie
per mitosi infinite
e con emo con linfo con mielo
cellulari incursioni
agli incroci metrò
nelle case di cura, di fine
blasti blasti e così mai domani
la gazzarra d’un sangue immaturo
così torna oggi l’incubo, cara,
e con mielo con linfo con emo
a murarci vivo il sangue
delle esangui anemie
delle grandi morie,
bianche bianche leucosi
e così le partenze, blasti,
qualcosa di bianco
di neve di mielo insomma
qualcosa di dolce un’alba leucosi
di miele alla stanca memoria
con blasti più blasti
ove ancora impasti frittelle
e il fiore alle madie, mater,
o quasi una bianca morte mielata,
leucosi del nada
scialbate muraglie
di inutili attese,
hai visto mai il falco
il falco pellegrino
volare sotto terra, sotto.
Nostro era il sangue l’eme degli avi
malati i blasti, l’urlo
e nessuno sapeva, in attesa,
a leccarsi le dita bambine
di miele, leuco, nada,
non hai più tempo leucosia
non hai più luce né
ciò che in principio,
ma tanto bianca è la fine

da: Il viaggio inutile (2003)

Il viaggio inutile
(A qualche viaggiatore)

Come uno sciame di treni, a notte
nave che salpi (è bianca)
su nuvole vincente forse l’ala,
e la paura, così,
meglio la mongolfiera, dici,
l’astronave del futuro,
ma parlami del vicino che ride, ora,
dell’esilio dei compagni,
degli inutili vecchi,
o il bianco vaporetto ed un castello
di sabbia, Madre,
così iniziò la nostra guerra
un andare e venire, noi,
dalle caverne di preistoria ai
ricoveri di roccia, alle foreste,
e l’uomo alla finestra tace,
la nevrosi dei giorni tace,
se fosse una chimera, penso,
ma non fu questo, il viaggio,
non fu di quando solo due mani
e la pagaia (breve),
una pala nell’aria
una pala nel mare,
la stessa fine a sera
un occhio alla fede, così,
lo stesso Papa, e non so
le parole, i segni, le nebulose
non so più i facili anni di latta,
ragazzo che arrossivi per niente
occhi tondi e naso a pagliaccio,
di quando solo due sogni
e un incubo
a murarci vivo il cuore,
ferrovia di cartone,
ma non fu questo il viaggio,
quel popolo scomparso
l’averti per sempre perduta
compagna morta e una cometa, no
allegri naufragi,
il vento inutile, e
chi tradì Anna Frank?

Totem, tabù e Infanzia

Totem, annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroshima Dio mio Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino, è la fine

Eurobarcarola

Senti, gondoliere per le tue lagune
quei remoti canti, i giorni della merla
e il cuore freddo passons passons puisque tout
passe, dalle Alpi agli Appennini, dal Reno
Oktober fest, al Delta e alle sue nebbie lì, o
dove les neiges d’antan (avanti c’è posto),
noi turisti a Dachau matricola abrasa
a rivedere calcinar le ossa, il forno
acceso come quel pane fatto in casa,
Mater dolorosa, rotula e menisco
da cambiare presso Picadilly Circus
e una sterlina per mangiare in due, in quattro,
Big Ben, fu dura quella notte a Coventry
e ancora un poco di macerie nei cibori
senza ostie ormai dei prevosti la gran fuga,
férmati a San Pietro, a Nòtre Dame, in piedi, e
qualcosa di gotico per poco o niente,
non si sa mai, al mio computer spento i vinti,
ed io scold! Leggo Praga in silenzio. Ponte
Carlo, da impazziti violini agli ultimi
carri armati con granate, antiche schegge
nel riso dei pagliacci (un grande naso un neo)
dove il Danubio blu s’arrossa per un poco
e passa, magiari amici per l’estremo
dei borghi antichi magia e i castelli
in cima lacere bandiere del Nulla o,
ma chi a stazionare nei metrò d’Europa
ai nostri insonni metrò di barboni e noi
distinti, lungo la Senna bouquinistes
i miei vecchi libri vi chiedevo all’alba
giramondo e solo fin di mezzanotte
al sole, giù giù fino al tuo Partenone,
Pericle, un giorno di filosofi attenti,
quei molti Cesari, cave canem, i nostri o
il colostro d’ancillae e pergamene a iosa,
forse L’Evo Medio, incruscate adunanze,
e poi non ti prende voglia di sapere
se l’amico d’un tempo è ancora vivo, là?
meglio lettori ad Oxford o alla Sorbona,
semmai, con l’ultimo volo a destra di chi
scrive una fine, una memoria già andata
(come il bianco vaporetto che salpava),
spento compagno di banco e di lezioni),
dal Tago alle dolci sponde in barcarole
d’addio, un concerto a San Lorenzo forse,
ràsati per bene, ma vince il cantore
della Sistina che ascolti rilassato
per quel tanto di transfert (a Vienna) Sigmund,
coi tuoi lettini d’amore sempre pronti,
ma pure il Crocefisso alle nostre spalle
quei piccoli prefissi o appena un suffisso,
narcisista dominante o dipendente?
that’s is the question, ovvero è qui il dilemma,
né dove Malone Muore o quei Dubliners
o lungi dai lindi cimiteri inglesi
dal gioco dei sapienti croupiers l’azzardo,
non sei tu, ragazza d’aria, a rimirare
le vetrine d’Europa, il nuovo corso
(un euro oggi, uno domani e vivo)
dove l’argot, lo slang il vernacolo e via
la bestemmia di mio nonno a maledire
il dialetto, poi ci saranno i cotillons,
Il processo (“Qualcuno doveva avere
calunniato Josef K. se quella mattina”),
e semmai pure i girasoli di Van Gogh
le belle mazurke del pallido Chopin
o Il porto sepolto le bigie tartane,
(battaglie perse non sono le peggiori
fu solo un lungo malinteso la Storia) e
Napule pur’essa requie va cercanno e
che oscure guarigioni per fede a Lourdes
anche noi, Madonna, un libro e un editore,
stasera dovrò rasarmi bene, per
l’omino vecchio e lacero che nel metrò
ci vende lupini e l’olio santo e poi
sous le Pont Mirabeau coule la Seine,
ma ora attento, gondoliere briaco e stanco,
da Nord a Sud, soltanto eurobarcarole
e via

da: La materia dei sogni (2004)
Vestimi di sogni

Ma quando sarà l’ora vestimi tu
di sogni, piano per non lacerarli, e in
bianco e nero sarà meglio sognare,
non ridere troppo di quei fantasmi né
delle bambole in vetrina, i lustrini e
quanti pupi, quanti in sogno doppiati
d’amore, vestimi d’aria e d’inganni
la piccola vita spenta nel sonno,
vestimi tu d’ombre e di sogni d’oro
oggi che spesso devo mendicare
un po’ d’affetto, i giorni della merla
vana risposta di parole e realtà,
vestimi solo di attimi e di sogni
quando sarà l’ora, fa piano tu, qui
col sogno e l’aria cantami una nenia
e dì che avevamo le ossa di vetro
un rosario di silenzi, la vita

Altre geometrie
(a Perlasca)

Quando poi si dovrà andar via supini
allora mi vestirai d’argento e oro,
seppure diranno, uno come tanti
la birra da bere insieme in quel bistrot
l’ultima volta, pensando ai frattali ad
altre geometrie, mi spiegavi, così
diverse dall’euclideo dei tempi miei,
l’antico orologio della torre, sai,
il pendolo intarsiato di famiglia
dentro chiese sconsacrate oggi preghi,
ancora preghiamo, soli, di sera, e
non tanti rosari ora ci diciamo,
coi morti, non più quel nostro clown al circo,
però vestimi d’argento e da pierrot
coi voti fatti al Santo protettore
mio paese di chierici e di salici a
predicare l’astinenza e salvarci,
gli innocenti girotondi sepolti
intorno al vecchio noce delle streghe,
ricordi?, orme e orme sulla neve fresca,
vestimi tu, non altri, tu, d’argento
con l’occhio al caro genoma nel niente
svanito di quelle scarne profezie
tumori adiesse denutrite magie
per un terzo, un quarto mondo, troppo alto
il prezzo per altre geometrie, il diennea
dei padri, il sangue, non mente il sangue, no,
e sempre aveva sguardi al mio presente
lievi carezze al tuo futuro, ed ora
non sappiamo se chiamarlo Dachau
se sarà maschio il nascituro, madre,
non era questo, no, il progetto di Dio,
la bella estate solo cioccolato
mangiavi, in silenzio e nessuno a dirne
a ridere di quelle tue trovate
ai caffè di Vienna, di Freud e Musil
con la fine e i dolci nel cartoccio, sì,
domeniche di maggio a mezzogiorno,
e lascia il paso all’uomo con le grucce
lui è certo ariano, la buona razza,
ma vestimi d’argento quando sarà
senza parlarne in giro, nei simposi,
avevamo un sacco di sogni, infatti, e
tu, ora che non temi le altre geometrie,
nella mia strada arriva l’arrotino
ma è tardi, col treno di latta io parto,
né poi ho vecchie lame da affilare, né,
solo semi di mandarino in pugno,
Perlasca, sul Danubio morte all’ebreo
l’anno che cercavo schegge di guerra
per l’altana, e un dì, pater premuroso,
ne danno il triste annunzio, la salvezza,
qui raccatto la spugna per la doccia,
in trincea dovevi tirare per primo,
raccontasti una sera accanto al fuoco

Da tempo

E da tempo non dormiamo la notte
abbiamo perso la forza negli occhi
non vediamo le persone vicine
diciamo così poco il nostro giorno,
da tempo non ricordiamo le madri
finite in solitudine e castità,
non si mantengono più le distanze,
non ricordiamo più i sogni, da tempo,
né quelli a colori né in bianco e nero
ma Uno dalla voce roca, l’incubo,
al ragazzo che arrossiva per niente e
così dimentichiamo troppo in fretta,
e neppure le lapidi leggiamo
gli oroscopi, le profezie ignorando,
da tempo il succo amaro del pompelmo
cerca di insidiarmi le mattine e te
a colazione, senza una brioscina,
l’auto che non va, cambiamo dimora,
e da tempo non facciamo l’amore
né sappiamo se lo faccia il vicino,
senza il coraggio di chieder notizie,
da tempo facciamo lunghe aspre file
orecchio bene adeso al cellulare,
ma nessuno che ci telefoni più e
ricordi i giochi, i banchi della scuola
non ridiamo col gusto d’una volta
quando il merlo saltellava sui prati
o l’ospite aveva un cappello a lobbia
come quello del nonno cavaliere,
e da tempo non sappiamo se tutto
questo finirà presto oppure più in là,
se allora avremo qualcuno accanto a noi
a recitarci una cosa distesa
ed in silenzio, in punta di piedi
una prece

da: Io per le strade (2004)
Come sarà

Come sarà questa morte, mi dico
nei momenti bui, di grige paturnie,
ma tarda la risposta, è latitante,
non è cosa da figurarsi, questa,
se poi la ragazza accanto che ride
o qualcuno ti aspetta per la cena
domani mi cambieranno il pace, e tu,
ma non chiedere anzitempo altre nuove
fra mortiammazzati e madricoraggio
le nuove cellule staminali,
ricordiamoci i lumini per papà
l’oscuro passato da trafugare e,
se bevi, pensa alla sete dei negri, oh
loro sanno, come sarà la fine,
la bimba è straniera, non so di dove
e ancora nelle coltri mi rigiro e
penso a una che indossi fumetti e sogni
stanotte, vestimi d’argento, all’alba

Oggi nel metrò

Non è più come allora, come quando
in braccio alla notte brava e alla città
nuda, scendevo, la vita mirando e
te ragazza, fiera del suo sorriso,
non era come oggi che qualcuna,
fissandomi, il posto qui mi cede ormai
come a un provato nonno, ragazza,tu e io,
è vano schermirsi con un grazie, mi
avvilisco, al tempo tornando che fu, ai
serpi in amore fra l’erba, i fiori e me,
e insisti nel metrò, ragazza d’alba,
insisti, e accetto ora come sono, ma è
lei a non esser più quella dei giorni che
dai Carmina Burana sorrideva,
che acquattata in un neurone della
mia memoria non ha il cellulare ed io, e
di là non passa l’arrotino, di là,
alla stessa ora ci vedremo, ragazzi,
forse domani, forse mai come oggi
nel metrò, stessi graffiti, gli stessi
amori, ma cambiano i barboni, ma
sparite sulla città le rondini,
metrò, abbiamo una voglia di fine
sulle guance e i miei racconti inediti, il
sogno di farsi belli per qualcuno,
sai, hanno messo una bomba in un vagone
oggi nel metrò, dite una preghiera
anche per il ritorno degli ostaggi

da: Il tempo del seme (2005)

L’urlo
(a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare)

Urla, mi dicevo,
bleso, lento, roco
ma che urlo è mai questo
se non esce non tocca non fora
i vetri non rompe del giorno
Viaggio al termine della notte,
e che dura spina è questa
mia fiera impotenza, Mater,
urla, mormoravo
la tua incerta storia
un fatuo blasone
malsani quartieri di periferia
la fame degli Avi, urla,
il viaggio inutile,
dove, uccello, di guano pietoso
ci coprivi ai socchiusi abitacoli
smog a tutti un po’ di smog,
futili miti alla battigia
come insepolti ossi di seppia
o vanesie parole, urla
il misero tempo che resta
il grido canuto, ormai
le stragi annunziate
e fanfare di Nada sovrasta
sovrasta quasi potente
l’eroe in panchina e bretelle,
né ignorare sul magro ballatoio
del condominio il sacco dei rifiuti
le staminali cellule domani,
ma urla, mi dicevo, per Dio!
la carne incombusta
l’antica rosa nel bicchiere
l’Olio di Lorenzo per guarire,
quante viltà soprusi osceni
a me ululate, solivaghi lupi
alle poche Foreste,
in memoria,
le ossa dei vinti urlate quando
cenere dai forni soffiammo con cura
e ancora ci ricopre,
noi malfermi viandanti
sul breve ponte
fra due Nulla eterni
transito interrotto
il mondo in una notte
la parola negata
e non servono i profeti,
urla come la ragazza di Munch,
bambola orante
che dal coma ci risveglia
ove non seppi urlare,
si dispensa dai fiori
e dall’Ultima cena

Pesci rossi al Policlinico

Sembrano tranquilli i pesci rossi
nell’acquario,a perle d’ossigeno intenti
e senza tregua montano
come un lustro mio pensiero
dove la prima radiazione attendo,
in fede, alla mia vertebra bacata
bianchi padiglioni d’un giorno
di metastasi compagni
alla curva del mare, vedi, alla persa
battigia e alghe non v’è più tempo,
un roso polmone dal cancro, il mio vicino,
e lieve tenta eginetico sorriso
non so se ai pesci o a me,
Malone Muore
da solo, e non v’è tempo, non v’è, e
noi proviamo un poco a
restare in vita ancora
col poster d’una vita in due, in tanti
i fiori secchi della ricorrenza
e poco altro, poco

Una vita

Non basta una vita, si dice a volte
senza sapere nemmeno cosa sia, a
me pareva il passo stento di mammà
il bonario sorriso di mio padre
che giocava l’ambo e non vinceva mai,
e uno crede che siano i nostri sogni
quando si sveglia felice all’alba, e poi, o
se scrive il nome col dito sui vetri
opachi d’inverno e fuori le care
nevi all’improvviso cadute, o se zitto
si rende conto che non è bastata
una vita per contare le stelle
e conoscere il pendolo di Foucault
giurare nell’utopia ad occhi chiusi,
né una vita mi bastò a capire se
sposai te, una madre o una sorella, o se
se la donna che ballava coi lupi,
l’ultimo dei Moicani fu un bel gioco
e tutt’intorno al noce il girotondo,
oggi i miei figli leggono Hary Potter,
dove cerco la mia parte di stelle
non voglio che tu mi veda morire
me ne andrò via da solo, nottetempo,
coi Ragazzi di via Panisperna

Vane stazioni (Santa Maria Novella)

Ore sedici inutile stazione
se uno come me oggi non parte, forse,
dovrò rasarmi per bene domani per
viaggiare forse, svanito che sarà qui
il nostro, il tuo, il mio broncio, quelle rabbie
di sposi maturi al gioco del ricatto
avvezzi, ma ancora insieme partire
dove un occhio al bagaglio mi chiede
la straniera e ride ove le suorine
in partenza e attese, e io pochi versi scrivo
o invano aspetto eurostar in ritardo,
non uno per me giungerà, calmi arrivi
scrive in lucenti memorie il pannello
ma righi oscuri prediligo, immemoria,
ora stazione sei di chi non parte al
futuro, stazione di chi non giunge mai,
l’inutile viaggio se altre albe attenderai
ben rasato da certi luoghi andar via in
seconda, scomparto per non fumatori
ci accoglierà domani e ancora broncio
color rosa ricatto, ancora in seconda
affratellati come i giorni in fuga o
suore che beate ora in Gesù vi alzate
col crocefisso solinghe ad andare,
partirò anch’io, a un’ora che ricordo e
rasarmi a puntino dovrò al mio treno
provvisorio e anche tu col tuo bagaglio,
un po’ scura in volto tu verrai e all’arrivo
non uno che sappia, mie vane stazioni, a
treni non miei ora lascio il congedo
un po’ bianco, forse canuto, e un po’ stanco e,
e non uno che ami le vane nevi
se domani come tanti un ritorno,
sarà domani che viaggerò rasato e
qui anche il dolore partirà, da un dente,
con me, stazioni, e così rincaso, già,
parlare a gesti no casa, barbone,
e a quel tuo angolo di strada presto si fa
sera, per tutti, e ignari andiamo (io vado),
ma dica solo il nome, dell’abbonato

Finale di radioterapia
(Ad una équipe di Radioterapisti)

Così finiva
la mezza epopea dei pesci rossi
e de l’Acceleratore,
quasi con tristezza,
l’antico ragazzo che a se stesso
giurava di guarire,
in silenzio,
fino all’estrema radiazione
o alla sconfitta,
ma apri lo scambio, ferroviere,
ché ora passa il suo treno
quasi al buio, gracile promessa
di futuro
sotto I cieli della sera
una rossa Luna a tracolla
e la cartella coi versi
in Terra di Polonio,
o per sempre una prece,
Finale di partita
ammen
in rosso
e non passo

A Gregory Corso
(In memoria)

Gregory Corso, è sera,
Fra vino grigliate e belle donne
(tutte le avresti amate)
mare ebbro a Postano
e i settenari per te, Gregory,
Beat Beat Gasoline e noi,
“Non so quando i sensi
di gemere smetteranno
e patirà la luce il cuore”,
crudo Caos il Mondo e tu l’amasti
nel fondo d’un bicchiere, tu
nei fumi d’una silente droga
la tua carezza incauta
e l’esile anima donasti,
nessuno sa quando l’alba spunterà
e il reggimento partirà, il tuo, il mio
“Beat Beat, pronunciamo Bit
ma adesso non importa”
se ancora hai notti nella barba
e questo Mare in tasca,
“forse capiranno dopo“,
lune di sbieco è nostra la Terra
stravolta, una clessidra,
lasciate,
anche per Gregory,
un messaggio
prima di partire

Chiedere scusa
(A Pochi)

Uno mi calpesta la vita
Ma subito chiede scusa, ecco,
e non vedo alcuno volgendomi
indietro, come indietro tutta,
il nostromo, e così la nave
dei folli, l’antica cipolla
del nonno e tanti secoli indietro
di Storia (patria) di addii
quei giorni agli ordinari treni,
al porto, incerto emigrante
lo zio, deserta infanzia la mia
dove calcinarono ossa, Pater,
con mille scuse ai clown ai nani
prigionieri d’ospizio anch’essi,
così ai claudicanti ai vinti
da breve sonno, da spavento,
ma tanti inutili riti scusate,
cerimoniali per sopra e per sotto;
le lunghe farse da sera, eleganti,
l’ultima volta in piedi, tremante,
le prove d’autore scusate
un neo che diventa tumore
la luna è insorta
la pipa è spenta
morta la cavia,
mi preme il pianto
nel poco spazio
che resta
pioggia dirotta
dicono a New York,
io chiedo scusa
per e-mail
e divento blogger
nel terzo millennio
dopo tanto,
l’apolide che fui

L’olio di Di Lorenzo
(A Lorenzo Odone)

Chi più ti ricorda, antico Lorenzo,
giovine e fermo ancora ma il buon olio
di tuo padre Odone Augusto, l’olio con
calvario, acido oleico, erucico ormai,
dieci era quel malato cromosoma
ventimila e uno solo destinato
e così fu la tua leucodistrofia,
solo sei anni avevi e nessuno lo sa
e la mielina, dolce Lorenzo e olio,
progetto oggi mielina oggi, ma attenti
nessun oblio, nessuno scordi l’olio
di Lorenzo la sua triste eredità,
due anni soli ti dettero di vita
ma caparbi i tuoi parentes, quel pater
intemerato qui ti ha ancora vivo,
alzati e va, la fede t’ha salvato,
e non parli non ti levi, era tardi e
mai più camminerà, solingo pater
senza medaglie fra i nostri tanti eroi,
ma altri col tuo olio guariranno
seppure mai più udrai vociar Lorenzo,
era un piccolo bimbo, e parlava
ammiccava ancora, quei gesti il gesto
la sua tenera mielina è strutta,
e non fecero a tempo quei due acidi
oleico erucico oleico erucico
tossici grassi a distrarre, Lorenzo,
quel verdetto mortale, era tardi assai
adrenoleucodistrofia e pochi, sai,
a sentirlo, saperlo, il male oscuro
dove io piangevo il figlio che mai volli
che mai difesi, pater amoroso,
e come potevamo una mielina
da rigenerare, come potevo
senza figlio né domani, Lorenzo,
e oggi, domani, mielina rifarti,
beato l’uomo che sua sorte ignora
qui ove indifferenza più che morte può
e crollano torri, crollano borse
ma dei meno indifferenti quell’olio
qualcuno guarirà, non te Lorenzo,
la mielina tua finita come i giorni
terribili, e oggi, Lorenzo, il mio cancro
dirò a te immoto ragazzo più muto
e nemmeno la Croce da portare
al Calvario, noi, isole e isole
in Terra d’altri, ascoltaci o Signore
pane quotidiano e olio di Lorenzo
ammen

Quarta parte
 
Inediti
2006
 
L’uomo parla, solo

L’uomo parla, solo, nel duemila, e anche
prima, nelle caverne di Altamira,
oggi più solo ancora è al cellulare, oggi
che passano alle terme vecchie megere
sole e tristi, gli ultimi elisir a bere
di breve vita sperando longa marcia,
breakfast, pranzo e cena alle venti in punto e
le aste, i giochi al casinò, o le cosine
fedeli ancelle fra la storia e il tempo
mia madre mi ricordano romita
che mai per acque chiare e bagni andava,
di pane e solitari si giovò, di noi,
né mi hanno in mezzo secolo chiamato
quei compagni di scuola e di baldorie
se son vivo non sanno o morto, oppure,
soli parliamo nel duemila, soli
come al tempo delle puniche, e se poi
passa a bocca aperta il mongoloide
dove per passatempo versi scrivo e
le vie non sono di transumanza, amico,
se verso il mare vado senza gregge,
se lunga è la strada ed io arranco, solo,
non mettere requiem addosso ai morti
meglio con loro un conversar galante, o
da noi c’è in aria un odore di caffè
e all’alba vedi il ghetto di Varsavia,
l’uomo parla solo e poco, l’uomo semmai,
chiede ove sono i desaparecidos
e dal muro dei sogni Leo mi saluta
ché solo è da cantare il grande Vero
e tutti i tempi divenuti a un tratto
quel tempo in cui scorreva il nostro fiume
come portare a spasso i trapassati

L’amore è un dono (congedo)

L’amore è un dono, agli angoli di strada
ai crocevia, ai porti, in cielo, per mare e
non si paga, non si chiede, come la
morte era il bacio che mi negavi, mi
come i neapolitan graffiti all’alba
l’oasi meticcia, il cane randagio o mai,
compra una veste alla stagione ignuda
prima che neve scenda, fiorisca un che,
e indossa i discorsi della vita agra
niente è per sempre, spiga di gramigna,
niente più sotto i levigati sassi
nemmeno anafore della memoria
bifore della mente, amore mio, no
la fine è il fischio del treno e ci porta
lontano chissà dove, torno, fuggo
quei celesti luoghi inesplorati e là
un timore d’incompiute cose, musei
come l’evento che aspetti da tanto
e non sappiamo in qual modo finirà
l’amore è così, così, è un dono a pochi
al mare della città nemica, a te
su un letto regale di foglie morte
o nella Casa di bambola dove, e
dove ai nostri demoni abbandonarci,
i fantasmi non amano col rosso,
avevamo scritto tutto sull’acqua,
anche il dono, sai, che non c’è stato mai
l’obitorio del futuro, casuale e
le fughe, nelle ampie chiese barocche, i
giocatori, tutto per caso, ma noi
sempre virtuali come il resto, ed ora
che dirti più, quelle mie notti insonni
le metafore della Vita nuova,
l’inquietante leggerezza del caso? o
che forse al crocevia ci ammazzeranno

Luoghi

Dalla lettera di San Paolo agli A
verranno i giorni in cui Giuda
sarà salvato, verranno i giorni,
ma qui non vediamo guglie, amica,
le cupole cancellate i tetti e
c’è sempre un parapiglia nei luoghi
fra le torri di vetro e altiforni
svettano pallidi i grattacieli e
poi non si vedono i bastimenti
sacchi, barili allineati al porto
sfumano remote ciminiere e,
scomparsa Londra di Virginia (Woolf)
Oxford Street la disinvolta più non è,
dal Vangelo secondo Giovanni
nei nostri allegri fast food preghiamo
e anche gli scrittori di gialli, noir
pregano, ma qui pezzi di morto,
morti di giornata, alle vetrine
con lustrini e contorni troviamo,
com’è cambiata la Gita al faro
noi tutti più non la riconosciamo, e
chi s’accontenta della conchiglia
detta Natica di Giuseppina,
pubblicità, ora scendo nel metrò
come nei luoghi del primo amore,
così le nostre sfinite città
l’ultima estate del vecchio, forse e
niente gossip, il mongoloide è morto

Le Spiagge

Sono lunghe e bianche le spiagge qui
stanno come pensieri lunghi e bianchi o
le notti ancora insonni immacolate,
vedi il pescatore e ti fermi e chiedi,
ma niente pesci, solo ore pazienti
queste notti che non passano mai, scogli, e
non è nostro il volo basso delle gazze
l’agave che non teme il vento, il tempo,
cambiatemi la pelle o il genoma, basta,
oh l’abbrunato bivacco e cenere
e sabbia per quei diruti castelli
di infanzia vela solitaria a mare
un po’ cerulei gli occhi e un po’ canuto
io e le barbute onde vecchie di spuma
neglette alghe alla battigia un giorno,sai,
con l’osso di seppia a farci compagnia
ogni spoglia una spiaggia, lunga e bianca,
ogni spiaggia una spoglia, breve e oscura
se alle scogliere di Dover pensavo a
quei remoti cavalieri del Graal? oggi
chiedo solo se hanno abboccato pesci
seppelliamo le sirene e vengo,ma
l’Atlantide non c’è, porto di brume,
anche gli eroi hanno paura, dicono
e le dichiarazioni dei pentiti o
la ragazza che mi salvò la vita
che tiravo allo scoglio palle d’acqua
e voi fate questo in memoria di me

Non sarai l’ultima

No, non sarai tu, l’ultima, come di quei
giorni non sarà l’antica memoria
col vaporetto mio che bianco latte
della vasca salpava e in cima rosa
dei venti o qualche aquilone talora
a inseguir una chimera, due ladri, poi
poi verrà Lei e i tuoi occhi avrà assassini
che ancora la mia parte in stelle conto, io
che l’aspettavo ormai, io e le vane nevi
come alla fermata del tram per casa
quando la notte scendeva e qualcuna
già sembra in sogno mia madre in pena,
l’ultima non sarai stata tu, quando
Lei verrà nel silenzio e avrà i tuoi gesti,
lieve come un soffio d’aprile, lieve
come il ricordo che più m’appartenne, e il
sonno inutile spreco sarà stato
la verità una sfinge un altro dubbio
o noi, due soli noi saremo stati,
verrà, Lei, e non sarò morto per ferie

Spierò
a Mri

Si, spierò, quando con lui fai l’amore
quando lievi poi sorridete e appagati o
che allo scoglio barbe d’alga strappate
ossi di seppia alla battigia cogli, ecc.
e io, dello scrittore il mito perduto
spierò sogni all’alba dove mai ci fui
le dita affusolate le tue labbra il
collo d’airone cinerino spierò
(quel che di noi non sappiamo è il destino,
cara, dovevamo puntare ai sogni
non credere nella città nemica), o
se fai la pappa alle bambine spierò
le vecchine a truccare il plenilunio e
poi le ombre lungo i muri piegate in due il
dolore del saperti impossibile
ricordo lungo dell’unico bacio
spierò, sul finire, poi, a lungo spierò, e
quando l’anima una veste troverà e
qualcuno, chi? sul nido del cuculo
allora io volerò senza memorie
senza guardar giù ove dormono i morti
per amore, terribili quegli anni
fu terribile il mondo di Rosaria
una voglia di fine sulla guancia,
all’ombra dei vetri quell’altro spierò,
sempre attento io al peso e alla dieta, sempre a
mirare dal di fuori la vita e te,
qualcuno doveva aver calunniato J.K.
ché senza aver fatto nulla di male
una mattina fu tratto in arresto

Un ordine logico
ieri e oggi

Pietre, anfore, sedia carbone e morte,
cane, cane, computer, pop art e ufo,
ma non c’è un ordine logico non c’è
né c’era fra i miei castelli di sabbia
nei nostri pensieri, sogni di ieri né
cercando l’Imperatore, in memoria, o
se ora Uno mi parla di Manhattan
del negro a bere d’un sorso la notte,
non c’è nei cyborg del terzo millennio
un ordine logico nella fine
non c’è, tu scegli bene le parole
mayday, il silenzio e quello che cercavi
spegni il computer e vieni a letto, ora

Forse Mirta

Forse Mirta, a quell’ora nel metrò,
forse, ma la folla ci divide, e poi
quella gente che veder non lascia, né
né fa sentire, pensare, ad un’ora
nel metrò, ma che fosse lei immaginai e
domandarle dettagli sulla fine
dove tu ragazza d’aria il posto ancor
mi cedi, vedendomi stracco e bianco
seder mi lasci come un trapassato
un po’ cadente all’apparenza sai, ed a
Mirta chiedere immaginai l’ora mia
esatta, in cui un certo giorno io non più
non più, o altrove saremo, altrove, dicunt,
a ricordare l’ultima sera in due e
Nerone, il nostro amato gatto laico,
se doppiando il tavolo, a te veniva,
una bussola folle alla ventura
e il calcolo dei dadi che non torna,
ma forse Mirta, che per maga passa,
tutte saprebbe le ore della morte
e sia, e se le indovinasse, pensa tu,
tu, ma che lavoro ingrato, povera
Mirta, o dal deserto la sabbia rossa
che piove su questa città a me ancora
ignota e senza bussola, pendolo, né,
domani mi faranno l’epitaffio e
dai superstiti prati margherite
coglieremo, se indovini l’ora, sai,
Mirta, maga dell’Occaso, pensa tu,
ritrovarmi al posto delle fragole,
dar corda all’orologio, per sempre, e ora
aspetta, non dir più “eravamo soli”
con sull’anima il codice di Edipo, e
per esteso le firme, tutte chiare,
serenamente come non visse, né,
né con la vita né coi sogni né con
la fine toccherò, col silenzio, né
con te né con la matita né con la
fine col pòdice o l’indice, io vado
d’un’ordinaria follia nell’attesa,
né con la matita né col bastone
e sopra, il cartello morto per ferie

Lo saprai dai giornali

Lo saprai dai giornali, cara, non
come il giorno che ci dicemmo addio,
o quasi, o chi al nido del cuculo
volò, volò per sempre immaginando
ancora alate parole, aquiloni
vani d’un passato regno d’aria e di
ragazze d’alba, compagni alla
curva del mare, il bianco vaporetto, ecc.,
o quel grande tiglio dove nascosti, no,
ma tu lo saprai dai giornali e
sarà come dirmi ancora ciao senza il
nome, lo troverai sul quotidiano tu,
in grassetto, un po’ listato sopra e
sotto, come a segnare un grande errore,
per sempre

Notizia biobibliografica

Carlo Felice Colucci, molisano di nascita (Riccia) CB, è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico-ricercatore e, fra l’altro, dedicandosi nel corso degli anni 70 a interessanti studi sui ritmi circadiani, per cui ebbe consensi internazionali anche su riviste di lingua inglese.Ha collaborato a quotidiani e riviste letterarie, fra cui Il Mattino, Nostro Tempo, Letteratura, La fiera letteraria, Galleria, Nuovi argomenti, Repubblica, Poesia, Tam Tam, Gradiva, Erba d’Arno,Pagine, ecc.

Ha pubblicato numerose raccolte di versi fra cui:
Feneste’int’ ‘o scuro (1960)
Una vita fedele, (Guanda, 1963)
La pagaia, (De Luca, Roma 1967)
Poesies, (Millas-Martin, Parigi, 1969)
Placebo, (Lacaita, Manduria 1975)
Preghiera occidentale, (Guida, Napoli 1981)
Check-up, (Almanacco dello Specchio, Mondadori, Milano 1983)
La bella afasia, (Lacaita, Manduria 1983)
Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Venezia 1987)
A fuochi spenti, (Ed. del Leone, Venezia 1992)
Il viaggio inutile, (Ed. del Leone, 2003)
Selected poems, (Gradiva, New York, 2003)
La materia dei sogni, Lo Spazio, Ed. d’arte, 2004)
Io per le strade, (Sabatia editrice, 2004)
Il tempo del seme, (Gazebo, 2005)
Poesìas Sueltas, (Tòrculo Ediciòns, 2005)

Ha pubblicato i romanzi
La corsia, (Rebellato, Padova 1972)
I figli dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma 1979)
I fuochi di Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna 1985)
Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi, Milano 1993)

Saggi
La parola perduta, (Guida, 2002).
Alcune sillogi di racconti ed un romanzo (L’appello) sono in lettura presso i principali editori. Ha curato una singolare antologia poetica, con alcuni inediti autografi di Marino Moretti, dal titolo Le città dei poeti (Guida, 2005).

E’ presente in varie antologie fra cui:
La poesia d’oggi (F. Bruno, Ed. Sestante Padova 1966)
La situazione poetica (L. Cherchi, Ed. del Naviglio Milano 1970)
Le proporzioni poetiche (D. Cara, Laboratorio delle arti, Milano 1976)
Ottocento-Novecento, (L.Orsini, Ed. S:E:N: Napoli, 1980
Letteratura italiana contemporanea vol. III (G.B. Squarotti, Ed. Lucarini Roma 82
Febbre, Furore e Fiele, (G.Zagarrio, Ed. Mursia, Milano, 1983
La poesia in Campania (M. Sovente, Ed. Forum Forlì 1985)
La letteratura del nostro secolo (G. Spagnoletti, Oscar Mondadori, Milano 1985)
Coscienza e evanescenza, (F.Cavallo, Ed. S.E.N. Napoli, 1985
Letteratura italiana d’oggi (G. Manacorda, Editori Riuniti Roma, 1987)
Il segno e la metamorfosi (M.M. Gabriele, Ed. Forum, 1987), .
La poesia a Napoli, 1940-1987, (a cura di Matteo D’Ambrosio.M.E.T.M., 1992)
La parola negata (M.M. Gabriele, Nuova Letteratura, 2004)
Poeti in Campania — 1944-2000, (G.B.Nazzaro, Marcus Edizioni, Napoli, 2006)

Dalla bibliografia critica essenziale stralciamo:

M. Pomilio, Dimensioni, n. 5, settembre/ottobre 1962
E. Bruno, Il Baretti, 1/20/4/1963
F. Bruno, Il Roma, 24/6/1963
M. Pomilio, Il Mattino, 27/6/1963
C. Cipparrone, Segnacolo, settembre/ottobre 1963
G. Titta Rosa, Almanacco letterario Bompiani 1964, pag.156
C. Cipparrone, Corriere di Sicilia, 26/2/1964
G. Ravegnani, Osservatore Politico, marzo 1964, pag.108
E. Gennarini, L’Italia che scrive, aprile 1964
L. Orsini, Il Baretti, 29/5/1964
G. Bàrberi Squarotti, Letteratura, Roma, 1967, nn.85-87, pag 274
M. Grillandi, La fiera letteraria, 2 marzo 1967
B. Pento, Persona, marzo 1967, pag. 23
F.Bruno, Roma, 3-4-1967
E.F. Accrocca, Prospetti, dicembre 1967, pag.781
S. Orilia, Linea nuova, 1967, III/IV, pag. 270
L. Cherchi, La situazione poetica (1958-1968), Ed. Naviglio, Milano, 1968
B. Pento, Persona, marzo 1968
M. Grillandi, Gazzetta del Sud, 9/3/1968
G. Migliorini, Cronaca di Calabria, 13/10/1968
L. Silori, Corriere dello Sport, 19/4/1972
G. Nogara, Messaggero Veneto, 22/6/1972
G. Vigorelli, Tempo, 6/8/1972
A. Bevilacqua, Oggi, 3/10/1972
G. Bàrberi Squarotti, Contenuti, 9/12/1973
M. Stefanile, Il Mattino, 4/10/1975
R.Tanturri, Corriere di Napoli, 5/11/1975
S. Ramat, Forum Italicum, dicembre 1975, pag. 423
B. Pento, Messaggero Veneto, 11/1/1976
1. Di Giacomo, Il Tempo, 14/2/1976
U. Reale, Avanti, 15/2/1976
L. Orsini, La Voce Repubblicana, 22/2/1976
G. Pandini, Gazzetta di Parma, 26/2/1976
G. Manacorda, Rapporti, 9-3-1976
N. Rosanigo, La Serpe, marzo 1976
E. F. Accrocca, La Gazzetta del Mezzogiorno, 15/5/1976
A. Mele, Nostro Tempo, aprile-giugno 1976
N. Palombo, Cenobio, maggio-giugno 1976
A. Toscano, Il Volto, n. 6- 7- 1976
F.P.Memmo, Paese Sera, 15-10-1976
R. Frattarolo, Rassegna di cultura scolastica, 31 ottobre 1976, pag.9
D. Cara, Galleria, novembre/dicembre 1976, pag. 6
F. Bruno, Contenuti, Napoli, 1976
L. Orsini, Il Ragguaglio librario, 1976
T. Sardelli, Poeti Molisani, Libreria Editrice Marinelli, 1977
G. Bàrberi Squarotti, Hyria, 1977, n. 2, pag.25
R. Tanturri, I simboli del malessere (Poesie 64/75), Munt Press, Milano 1977
V. Ronsinsvalle Poeti del Mezzogiorno, Cavallotto Ed. Catania, 1978
A. Motta, Oltre Eboli: La poesia, Lacaita Manduria 1979
L. Orsini, Ottocento-Novecento tra poesia e prosa, S.E.N. Napoli 1980, pag.355
P. A.De Lisio, Misure Critiche, ottobre 1980
U. Piscopo Paese Sera, 23 maggio 1981
F. Bruno, Napoli Oggi, 13-5-1981

A. La Rocca, Il Mattino, 12-6-1981
F. Riccio, Scuola di domani, 19-6-1981
P. Ruffilli, Il Resto del Carlino, 12-9-1981
F. Piemontese, Paese Sera, 9-10.1981
S. D’Acunto, Molise Oggi, n.41, novembre 1981
M. Sovente, Riscontri, ottobre/dicembre 1981, pag.147
M. Pomilio, Il Tempo, n.124, 1981
M.Sovente, Realtà del Mezzogiorno, dicembre 1981
G. Tedeschi, Il Popolo, 3/XII/1981
G. Zagarrio, Stilb (Scrittura) n.8 nov.dic. 1981
G. Spagnoletti,, Lunarionuovo, gennaio-febbraio 1982
A..Frattini, Il Ragguaglio librario,, febbraio 1982
S. D’Acunto, Il Ragguaglio Librario, febbraio 1982, pag. 64
A. Frattini, Il Popolo, 1 aprile 1982
L. Compagnone, Produzione e Cultura, giugno 1982, pag. 150
G. Tedeschi, L’Unione Sarda,17/7/1982
P. A. De Lisio, Proposte Molisane, 1982, 2, pag.173
C. Toscani, Hyria, nn. 28-29, 1982
P. Falco, Periferia, 13 1982
F. Riccio, Riscontri, n. 3, aprile 1983
L. Sbragi, Nostro Tempo, nn. 352/355, 1982/83
L. Fontanella, Rivista di studi italiani, giugno 1983, pag. 164
C. Di Biase, Critica letteraria, 1983, pag 64
M. Forti, Almanacco dello Specchio Mondadori, n. 11, 1983
G. Zagarrio, Febbre, Furore e Fiele, Mursia, 1983, pag.346
A. Bea, L’Achenio, 2, 1983, pag. 6
G. Bassani, Check-up, Almanacco dello Specchio Mondadori, n.11, 1983
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M. Sovente, Riscontri, luglio/dicembre 1984, a pag.173
F. Riccio, Il Ragguaglio librario, Milano 1984
G. Spagnoletti, Letteratura Italiana del nostro secolo, Mondadori,1985 p. 1142
R. Frattarolo, Laboratorio di scrittura, All’insegna dell’occhiale, 1985
A. Aliperti. La Capital, Mar del Plata, 13 de enero 1985
F. Cavallo, Coscienza e evanescenza, S.E.N. Napoli 1986, pag.54
U. Reale, Nuovo Mezzogiorno, febbraio/marzo 1986
A. La Rocca, Hyria, settembre 1987, pag. 26
F. Piemontese, Il Mattino, 3/11/1987
M. Miccinesi, Uomini e Libri, (Intervista a Colucci) gennaio-febbraio 1988
E. Brumo Il Giornale di Napoli, 23 febbraio 1988
C. Di Biase, Studium, marzo-aprile 1988
E. Bruno. Città di Vita, luglio/agosto 1988
C. Di Biase, Cenobio, ottobre/dicembre 1988
L. Fontanella, Misure Critiche, n. 68/69, 1988 Poeti molisani d’oggi
D. Cara, Traversata dell’azzardo, Forum Q/G. n.11- 1990, pagg. 36 e 158
V. Esposito, Poesia del 900, Ed. Bastogi, 1992, pag. 633
D, Della Terza, La poesia a Napoli 1940-1987 N.E.T.M. 1992, pag. 129
M. Lunetta, La poesia a Napoli, 1940-1987, N.E.T.M. 1992, pag. 277
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M.G.Lenisa. Misure antiche, nn. 84-85 1992
A. Luzzi, Il Giornale del Popolo, (Lugano), 4-2-1993
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G. Rugarli, Corriere della sera, 15-3-1993
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G. Pampaloni, Il Giornale, 19/12/1993
A.Cara, La conservazione dell’oggetto poetico, Lab. Delle Arti, 1993, 40
L. Luisi, In queste braccia, versi per la madre, San Paolo, Ed. 1993
P. Giannantonio, Il novecento Letterario, Loffredo Ed. 1994, pag. 226
F. De Nicola- G. Manacorda, I Limoni, Caramanica Ed.1994, pag.103
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M. Cucchi, Lo Specchio (La Stampa) 23 maggio 2006, pag.114
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