DICONO DI MARIO M. GABRIELE

GIORGIO LINGUAGLOSSA

Che cosa sia la poetry kitchen lo dice bene la poesia di Mario Gabriele, il capostipite di questo genere di poesia. Poetry kitchen è tutto ciò che resta nella dispensa, nei cassetti dimenticati del frigidaire. Possiamo a ragion veduta dire che Mario Gabriele è hölderlinianamente, pieno di merito e poeticamente abita la terra, proprio come la gallina della cover della poetry kitchen, che becca il mangime lasciato cadere per terra dagli umani. Oggi il poeta è diventato non più e non solo uno «straccivendolo» ma anche un ladro di becchime, usa le parole a perdere della civiltà dello spettacolo e del consumo e le reimpiega; oggi la poesia è un oggetto-da, è fatta da oggetti-da, che provengono dal ciclo della produzione e della sovrapproduzione per finire nella pattumiera che segue al consumo, in questo modo la terra può essere di nuovo abitata e resa abitabile, le parole anche possono essere rese abitabili una volta recuperate e riciclate dalla loro opacità e insignificanza. Banditi per sempre l’epifania, il quotidiano, il sublime, il genere elegiaco con gli ideologemi collegati con chihuahua e smart working, ciò che resta lo fondano i poeti nell’«universo in espansione» con la «porta principale bloccata». Dall’implosione dell’ordine Simbolico quello che ci resta è il misto fritto di una poesia fatta «con uno specchio retrovisore/ recuperando figure in bianco e nero», «gostbusters» e «ologrammi».


Jacopo Ricciardi

Se l’ego dell’autore scompare o semplicemente è assente, è chiaro che le parole e ciò a cui si riferiscono sono immediatamente loro stessi, liberi di esistere con il loro universo specifico di ‘cosa’ sola. Così non essendoci più l’ego che le sminuisce, le parole e le ‘cose’ cui si riferiscono offrono esattamente se stesse, sole, isolate, universali frammenti, di una concretezza che sposa la ‘cosa’ della parola e che è ‘cosa’ di una realtà vera. Verità che si realizza concreta e fisica, attivando i sensi, proprio perché l’essenza di quanto materialmente esiste è in realtà mentale. Quindi la mente incontra se stessa in modo tanto naturale in un frammento di Mario Gabriele, che la cosa del frammento è mentale ma anche fisica nella materia attraverso la mente. Ma non c’è fine nella concretezza tout court, bensì questa è talmente naturale e concreta mentalmente che fa sentire il luogo della natura mentale in cui i frammenti e le ‘cose’ nascono. La falsità è definitivamente vera, e la mente si libera e prova godimento, questo accade alla lettura di una poesia di Mario Gabriele.

I fatti raccontati da questi versi accadono nell’indeterminatezza della mente, e non hanno la determinatezza univoca (temporale e spaziale) di un fatto materiale raccontato nel mondo univoco fuori dalla mente. Fuori dalla mente le cose accadono con precisione e unicità, bloccate in un tempo e uno spazio. Invece nelle poesie di Mario Gabriele i fatti appaiono senza quella determinazione univoca esterna, ma appunto appaiono in una perdita di tempo e di spazio, e in una possibilità di tempi e di spazi, ogni ‘cosa’ può essere un’altra ‘cosa’, eppure “Fermati Klaus. Rallenta il passo.” primo verso della poesia 36, o “Doctor Smith vuole la ricetta elettronica?” primo verso della poesia 37, o “Ormai sta diventando un’abitudine.” primo verso di 38,  o “Un giorno di ectasie e caffeina” primo verso della poesia 39, o “Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.” non hanno niente di particolare e niente in questi versi ci aiuterebbe a capire la loro particolarità. Tenendo conto che spessissimo i primi versi di ogni breve strofa non brillano di alcun particolare creativo. Sapere che sono dei frammenti con tutta l’importanza che gli si attribuisce teoricamente non aiuta l’esperienza di letture di questi versi. Eppure questi stessi versi hanno sfumature che li rendono vivi nella mente. Ma come raggiungere questa vitalità (ebollizione) mentale che procurano? Essi sono frammenti già da soli ma lo divengono sempre dal salto impossibile che li lega al secondo verso e oltre nella stessa frase o in più tronconi di frasi. Per esempio “Un giorno di ectasie e caffeina/con il lato oscuro delle metamorfosi.” dove le ‘cose’ tra un verso e l’altro iniziano a formare una rete neurale tra loro nel vuoto mentale che viene abitato. E tanto è il vuoto che c’è tra i due versi che restano connessi che essi fanno apparire il vuoto tra le parole e le ‘cose’ dei versi, e ogni verso si popola di possibili (mentali) connessioni neurali. Un salto mentale tra primo e secondo verso genera salti mentali tra le ‘cose’ parole. Queste connessioni neurali tra parole si scambiano e mutano e si rinnovano; si arriva a un punto nella rilettura in cui la parola “oscuro” del secondo verso popola l’oscurità della mente, colta nella sua concreta dinamicità.
Ogni strofa è autonoma e trova nei versi successivi al primo il motore di connetterli nella mente come fattori mentali, come ‘modi’ mentali. Quindi questo tipo di poesia richiede l’attivazione della mente come spazio autonomo e vivo e visitabile e abitabile con la poesia. Il testo insegna alla mente ad aprirsi in quanto luogo o vuoto, e in questo stato di mente aperta e viva il testo funziona immediatamente come fatto di rigenerazione neurale tra le ‘cose’ parole. La lettura a questo punto è immediata nel godimento della mente che gode di se stessa. E mai si stanca di questo processo perché Mario Gabriele adotta una impossibilità di contatto di senso tra versi, o brani di verso e parole, che generano i frammenti, che strutturalmente non è mai uguale e varia, per esempio addirittura “Ieri sera con l’amico Perry/siamo stati a vedere il ponte di Genova.” dove la strofa è plausibile nel senso, ma se messa nello stato di apertura del vuoto della mente già il nome Perry si dissolve per tempi e spazi perduti e come tale si mostra attivo, la “sera” la mente la sente come connessione instabile e pluri concreta, e il “ponte” è diviso in tre nel tempo tra i due ponti (prima del crollo e ricostruito) e il ponte distrutto e il tempo stesso è trino (fuori da ogni religione), oscillante tra l’uno e l’altro, e questo non sapere il tempo li tiene tutti e tre a galla nella mente, e la mente respira una propria aria naturale di verità. “Nelle poesie di Mario M. Gabriele ci puoi trovare quanta più Europa che nei romanzi italiani che escono in un intero anno. Mario M. Gabriele fa poesia europea…e lo fa perché ha introiettato quel linguaggio elitario ed esoterico della poesia europea di Eliot e lo ha trasportato nella penisola al di sotto del Rubicone”. (Commento della Prefazione di Giorgio Linguaglossa a L’Erba di Stonehenge, Edizioni Progetto Cultura pag.12. 2016).


Eugenio Lucrezi

“Compito del poeta è convocare le babeliche folle testimoni del tempo, trasformarle da ammassi di detriti in figure espressive, tentare l’impossibile dialogo. Risulta un corso inquietante”. (Eugenio Lucrezi, da: La Repubblica, Redazione di Napoli, Sabato 15 giugno 2019).

 


Giorgio Moio “Prosa sciolta e accattivante ironia intelligente seppur sotterranea forse per sdram-matizzare la tragica situazione attuale, ma anche un tentativo per affrancare la parte migliore dell’umanità. E non a caso il breve racconto si rafforza dall’elevata grandezza interiore di certi personaggi anche negativi.” (Giorgio Moio). (Riferimento critico al testo con l’incipit:” Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele” su Altervista del 21 maggio 2020).

 


Milaure Colasson

Leggendo la poesia di Mario Gabriele prendiamo atto che siamo arrivati a buon punto nella discesa nel nichilismo. Nella sua poesia cogliamo la poesia nel punto più profondo di quell’auto annientantesi nulla nel quale consiste. Gabriele intende bene che non c’è nulla di serio nel Museo delle collezioni, il nostro mondo è diventato un Museo delle ombre (le collezioni) che comunica con il Museo della spazzatura, C’è un collegamento tra i due Musei. È l’eleganza con cui Gabriele pone nel nulla il nulla ciò che fa la differen-za… mai una parola, una allusione sulla sua persona, all’io, mai un accenno a quell’involucro che contiene il nulla, con buona pace del pericardio accarezzato e coccolato dai poetini del pericardio e della pericardite e della peritonite. Dalla lettura di questa poesia ne usciamo fortificati, ne esco fortificata. Lo stesso mi accadeva quando leggevo la poesia di Mario Lunetta, e bene ha fatto Vincenzo Petronelli a ricordarlo. Lunetta è stato probabilmente il poeta italiano più importante dopo la generazione dei Pasolini. Auguro a Mario Gabriele di poter essere riconosciuto non soltanto da noi abitanti dell’Ombra ma anche dagli abitanti dello stivale poetico come il poeta più importante di questi ultimi decenni, so che quel che dico risulterà ostico all’uditorio dei poeti del pericardio e della pericardite, ma è quello che penso. (Milaure Colasson – da “L’Ombra delle parole”, come commento critico al post su Mario M. Gabriele, Poesie n. 35-41, da Remainders, Progetto Cultura, 2021)


Letizia Leone

La poesia di Mario Gabriele si manifesta quale unico corpus esorbitante e anomalo nelle poetiche contemporanee, atto artistico e filosofico, o per meglio dire estetico, meta-poesia e gioco d’artificio epistemologico di profonda portata ontologica. Poesia dal futuro, di chi si è tirato fuori dall’emergenza storica, e guarda a distanza dalla prospettiva del drone che sorvola le “diescta membra” della civiltà umanistica e artistica novecentesca. Eppure qui si tratta di “rimanenze” fossili, sebbene così contigue ai nostri indirizzi, alle nostre abitazioni culturali. Poesia civile in quanto caricata di tritolo critico pronto ad esplodere. Scrive bene Marie Laure Colasson: «una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo, un numero ipoveritativo…».

Poesia dal vuoto, anzi frivolezza del déjà-vu, direbbe Baudrillard. Poiesis confinante, come scrissi in altra occasione, con esperienze artistiche contemporanee di matrice neo-concettuale, si pensi a certi esperimenti di Anish Kapoor, alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture, per esempio. Eppure sostanzialmente diversa: ogni sintagma, frammento, citazione implicita od esplicita, registrazione o traccia comunicativa, (cesellata dalla materia grigia di una continuata interferenza cacofonica di comunicazioni “usa e getta”) è frutto di grande perizia poetica.  Una consapevole «decostruzione riflessiva» come ha scritto Linguaglossa (che ha il grande merito di un profondo lavoro ermeneutico sulla poesia di Gabriele). In “Remainders” si opera per riciclaggio di scarti e materiali inerti ma anche di simulacri e prodotti, e la Poesia Kitchen, trafugando simboli, marche di prodotti, fantasmi, cartoni animati potrebbe funzionare come un’analitica strutturale nel nostro esistenziale. Perfezione delle forme effimere. Efficacia del paradosso: nel ciclo delle apparenze (e nella moda), scrive Baudrillard, si ritrova quell’innocenza che Nietzsche attribuiva ai greci: «loro si sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie; all’increspatura della scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole (..) Questi Greci erano superficiali – per profondità!».
Allora buona vita al grande Mario Gabriele!

Un giorno ideale sarebbe come il Mistero buffo
di Majakowskij.

Abbiamo dovuto rimandare ad altra data
il fumo degli arrosti.

Questa estetica del Nulla fa risvegliare Fedro e Felix Vargas.
Si vis pacem, para bellum.

(da L’Ombra delle parole, 12 giugno 2021)


LUCIO  TOSI

Di Mario M. Gabriele, il fatto che leggendo una poesia ne leggi una decina. Le sue mini immagini, le mini storie – ognuna bastevole per altri a ricavarne composizioni che ribadiscono nei versi quanto si è già compreso dalla prima nominazione. Un terzo di verità, più due, se va bene, di superfluo – Invece Gabriele passa repentinamente ad altro: perché così fanno i pensieri, è questo il loro reale andamento nella mente. E non solo nella mente di oggi. Viene fuori, insomma, l’imbroglio della scrittura, che col pensiero ordinario non avrebbe a che fare. Ma questo è nella poesia di nuova ontologia estetica; così come nella meditazione, allorché ci si accorge del codino di un pensiero che se ne va… e quello nuovo che si presenta, già diverso. Nel libro “Registro di Bordo”, Mario Gabriele offre una sequenza di distici adatti per chi volesse intraprendere una dieta letteraria. Lì è proprio maestro. Al secondo step della dieta andrebbe considerata la semplificazione della lingua accademica: operazione assai complessa per chi già abituato a scrivere su tastiere di più ottave. Sanno, avvertono, che oltre le estremità del linguaggio ne va della piega dei pantaloni. Di Gabriele – ma da subito, la prima volta – ti accorgi che le poesie nuove nascono classiche: la compostezza della versificazione, la lunghezza stessa delle composizioni, mai oltre la media capacità di mantenere l’attenzione… presupposto questo per una pop poesia, che di nuovo avrebbe la capacità di non complicare la vita, da quando si è fatta talk show. Quindi arriva facile, anche perché le citazioni sono sonore (lo diceva Pound, delle sue). Il nuovo getta l’ancora nel classico. Sicché lo capiscono non solo gli altri nuovi, ma anche, tra i più attenti, i poeti di sempre. È l’evoluzione. (Lucio Tosi) – da L’Ombra delle parole del 18 febbraio 2021.

Scrivere della poesia di Mario M. Gabriele; ma anche solo l’idea di volerne scrivere, mi è pari all’idea di voler scalare una montagna. Il fatto è che, a fronte di una poesia che in lettura si presenta chiara e comprensibile, il tentativo ermeneutico, anche il più ingenuo, introdurrà elementi di complessità che il poeta, nel suo immediato, ha già ben risolto. Voglio dire con questo che non prevale sulla poesia l’accorgimento critico, sebbene quello di Giorgio Linguaglossa sia di gran lunga il più adatto, quello che più si avvicina all”inafferrabile”.
Ecco, se devo dire qualcosa sulla poesia futura, immagino sia questo l’aspetto più rilevante: che si sia abbandonata la forma poesia strutturata, dal verso libero sempre più sofisticato. La poesia di Gabriele è infatti di diversa e nuova architettura. Sgombra di ascesi e verticalità, è una poesia orizzontale; che nell’evento è di ampio accoglimento perché tutto sembra accadere nell’unico istante, qui o/e da ogni altra parte del mondo; e che sa giocare con la memoria.
È nuovo, per me, il discorso che arriva frammentato ma diretto e comprensibile. Frutto di attento lavoro di dismissione di regole obsolete; linguaggio che si avvale di una sintassi semplificata, che ha fiducia nella grammatica, perché tanto basta. Poesia del dimagrimento linguistico, della perdita di orpelli. Poesia del suolo, e del reale che non ti aspetti perché è sempre altrove.
La perfetta originalità dei suoi frammenti pare adatta ad essere incastonata in soggetti cinematografici, o per dare vita e sorpresa a narrazioni altrimenti agonizzanti nel perdurare di un pensiero o di un’emozione. Frammenti che spezzano e ravvivano, spezzano e vanno oltre.
Ma è anche poesia mono tonale, lo stesso che si potrebbe dire di un fiume; non fosse che Gabriele è poeta sperimentale, quindi destinato a disegnare sempre nuove mappature…

Aggiungo una riflessione su quel che accade alla “voce” a causa del continuo dismettere del pensiero: che la voce, o dovrei dire le voci, per principio di individuazione, finiscono per rivelasi sonoramente; e mi chiedo se esista una voce sovrana, e se possa convivere in rapporto, anche conflittuale, con altre voci; queste sì, che hanno parvenza demente… (Lucio Tosi) – da L’Ombra delle parole del 10 giugno 2021.


GINO RAGO

Scendiamo in medias res leggendo insieme questo polittico in distici di Mario Gabiele tratto da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020:

Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. – Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.

*

“[…]Non lontana dai borghi

c’è la discarica delle stagioni[…]”.

e, poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo

“[…] C’è sempre un tempo per nascere

e un tempo per morire […]”

Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.

C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente “il dolore” dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come il-tempo-di-mezzo, tra un «non più» non ancora concluso e un «non ancòra» che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra «cosa» e «parola», lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: « Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…»,

e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…

Per questo forse

“[…]Marisa riordinò gli arredi

lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet[…]”

mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini,

“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza

da quando ha letto Day by Day.”

Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi tòpoi di tantissima nostra poesia, le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai prendono il posto definitivamente in un luogo poetico «altro», un luogo distante da quello delle linee-luoghi comuni fiore-sole-cuore-luna-amore…

Qui lo spaesamento dell’uomo d’Occidente convoca altri approdi, in questo Registro di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «poetica della indignazione morale», alla «estetica della disperazione».

Ogni lettore «vede» in un componimento poetico ciò che egli per cultura, per vastità di letture, per frequentazioni dell’altrui poesia è in grado di vedere, basti pensare al Suonatore Jones di Edgar Lee Masters, ri-adattato alle sue esigenze musicali da De André: in quel «vortice di polvere» nel quale tutti vedevano i segni della siccità, lui soltanto, il suonatore nella/della libertà vedeva in quello stesso vortice di polvere, in quel forse mulinello di stracci, «la gonna di Jenny» in un ballo di tanti anni fa…

Ciò per suggellare, fra le tante già a più riprese messe lucidamente in evidenza da Giorgio Linguaglossa nella sua ermeneutica, una cifra che poi è un punto di forza della lunga storia poetica di Mario Gabriele:

la libertà di interpretazione dei suoi testi poetici che il poeta riconosce e lascia ai suoi lettori i quali così giocano, quasi sono invitati o chiamati a giocare lungo la direttrice autore-poesia-lettore, un ruolo non meno «creativo» di quello dello stesso autore.

E’ poesia che da Ritratto di Signora (2014) a Registro di bordo(2020), passando per L’erba di Stonehenge (2016) e In viaggio con Godot (2017), vuole un tête à tête con l’uomo cui Mario Gabriele si rivolge, una poesia che con l’uomo del nostro tempo desidera stabilire rapporti diretti, senza intermediari di nessun genere nei tre modi a noi noti della cognizione, modo analitico, modo intuitivo, modo epifanico-rivelatore, tutti e tre compresenti nella poesia di Mario Gabriele, in accordo pieno con la idea di “libro” di Brodskij: «[…]Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota».

La poesia di Mario Gabriele vuole il tête à tête poeta-uomo, rivendica il dialogo diretto autore-lettore, si muove all’interno di quella petizione linguaglossiana «per una nuova polis, per nuove leggi, per nuovi cittadini».

Su questo Giorgio Linguaglossa scrive: «La nostra proposta di una nuova ontologia implica la petizione di una nuova idea del tempo, dello spazio, della vita psichica, della vita erotica, dell’esistenza e della storia, implica la petizione di una nuova esperienza del vivere e dell’agire, qui e ora, nel tempo. Questa petizione di un ripensamento categorico dei pilastri dell’ontologia, della filosofia, dell’etica e della politica occidentali, implica e richiede un rivolgimento di tutti i nostri sensi, del nostro modo di vita […]. Una nuova ontologia poetica richiede fortemente una nuova forma di vita […]. Liberare la poesia è il primo passo per liberare e rinnovare la nostra forma-di-vita. La nostra petizione di una nuova ontologia è quindi la petizione per una nuova polis, per nuove leggi e per nuovi cittadini».

Perché?

Perché la scrittura in versi per il poeta è un possente acceleratore di coscienza, di pensiero, di comprensione dell’universo, per ricordare ancora Brodskij, e se vale per il poeta, per Mario Gabriele la scrittura in versi come catalizzatore di pensiero, coscienza e comprensione deve valere anche per il lettore, nella casa comune della poesia.

Mario Gabriele, Registro di bordo, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, pp. 152, E.12


Vincenzo Petronelli

Buongiorno cari amici,
ringrazio infinitamente Giorgio per quest’articolo offerto alla nostra attenzione. Ho avuto nitidamente l’impressione, leggendolo a più riprese, di essere di fronte ad un momento spartiacque della nostra ricerca, come se avessi voluto offrirci, caro Giorgio, una visione, uno spaccato definitvo del panorama impaludato in cui versa la produzione poetica italiana, ormai da diversi decenni (con l’eccezione ovviamente delle poche voci che si stagliano al di sopra di quest’ aura mediocritas), sintetizzando mirabilmente i punti nevralgici del nostro percorso. La sensazione che emerge – lo dico serenamente e senza enfasi – che quest’articolo costituisca un punto culminante di una serie di scaturigini recenti, che sembrano quasi preannunciare l’epifania di un momento storico, catartico per il futuro delle poesia italiana; è come se trasparisse, dalle parole di Giorgio, la consapevolezza di essere prossimi ad un momento di svolta nella storia della nostra poesia. In effetti ho più volte avuto l’impressione in questi ultimi mesi, che l’itinerario che dal frammento destrutturante, ci ha poi condotto all’evoluzione costituita dalla “Poetry kitchen” ed all’ “instant poetry”, abbia determinato una sorta di galvanizzazione del nostro tessuto poietico, permettendo di chiarire gli ultimi, residui spazi di indefinitezza nelle nostre soggettività poetiche (mia in primis), giungendo così ad una fase apicale del progetto Noe. Facevo una riflessione leggendo quel fulgido esempio di Nuova ontologia estetica che sono le poesie di Mario Gabriele: la poesia della Noe è “rigenerante” nella misura in cui svecchia la poesia italiana da modelli sclerotizzati, non in grado ormai di riprodurre la condizione della contemporaneità in poesia: ma al tempo stesso lo fa restituendo alla poesia la sua vocazione antica e popolare (in senso antropologico) della narrazione. In fondo trovo che la poesia di Mario sia forse la forma più alta di narrazione cui possiamo attingere oggi in Italia. La poesia di Mario Gabriele non è mai né soggettiva, né valutativa (o come ha avuto modo di definirla Giorgio, “apofantica”): non esprime né giudizi, né finte certezze o facili consolazioni; semplicemente indica dei percorsi umani, esperienziali, rispetto ai quali ognuno è libero di creare le proprie associazioni logiche, semantiche, di senso. Non cerca il consenso mediante la rassicurante centralità dell’ io, ma più prosaicamente entra nel cuore dell’ “umano”, al tempo stesso non soffermandosi sulla crosta superficiale esterna, ma approfondendo le concrezioni profonde che sottostanno e danno forma al fenomeno umano, grazie al processo di scomposizione operato tramite la frammentazione. Per ciò stesso però, Mario ci restituisce nel contempo, il piacere antico della narrazione, anche grazie alla sostituzione di figure emblematiche, antonomasie, in passato ricercate nella mitologia (la quale però a sua volta sotto il peso dell’erudizione classica, ha finito per smarrire la sua radice “popolare”, per essere utilizzata come puro esercizio di sfoggio erudito) con nomi, figure, profili, estratti da varie diramazioni, lacerti, patchworksi, della letteratura, della musica, delle arti visive o semplicemente della vita quotidiana. La poesia di Mario, intesa come emblema della Noe e caratterizzante perciò – pur con le arricchenti differenze interne – l’intero costrutto dell’opera delle varie voci che popolano il nostro collettivo – si esprime contro il dilagare della poesia egotica di questi ultimi decenni, riflesso dell’edonismo indotto dai risvolti della cultura consumistica, frutto in campo culturale della deriva di un processo capitalistico sempre più fuori controllo ed alimentato dall’industria culturale stessa. Penso anch’io, come esprime proprio Mario Gabriele, che la pubblicazione della nostra antologia della “Poetry kitchen” possa essere l’avvio di una fase palingenetica nella storia della nostra poesia, per la quale tutti noi siamo modestamente chiamati a fornire il nostro contributo. (da L’Ombra delle parole del 14 giugno 2021)