La poesia di Gennaro Morra (2002)

La poesia di Gennaro Morra dal 1951 al 1988
 
Prima Parte

Non sappiamo se la poesia sia alla ricerca di nuovi segni verbali, avendo percorso tutte le strade della sperimentazione, o se si debba considerare chiuso il discorso intorno ad essa, tanto “che l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno, com’ebbe a dichiarare Montale nel suo ”Discorso tenuto all’Accademia di Svezia” il 12 Dicembre 1975.Tuttavia, “non sempre è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro tempo, con un linguaggio psicosomatico, onirico ed esistenziale, parapsicologico, o ancora metasperimentale e psicocosmico.
Quel che emerge oggi è un caleidoscopio di frammentazioni espressive, che stentano a coagularsi intorno ad un progetto linguistico, o a determinare una stagione poetica capace di resistere per una o più generazioni.
Ed è ancora Montale ad affermare che: “la poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”.
In Società e Cultura, Hans Freyer restituisce alla parola poetica la dimensione universale, anche quando il poeta stesso sa di essere giunto ad un punto oltre il quale il linguaggio o si frantuma o si organizza in altre forme. ”E’ qui che ogni autore comincia da capo con le proprie forze e si trova “irretito nella realtà” al punto di attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purchè abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”.
Non sempre ciò è possibile perché scardinare la realtà nelle sue molteplici sfaccettature, può rivelarsi alla fine un esercizio inutile.
Dal ritorno ossessivo delle monotematiche poetiche ci si salva ricorrendo alla struttura del testo e all’invenzione della parola, prima ancora del significato inteso come messaggio sotterraneo e psicoumorale, nella connessione delle diverse similitudini.
Organizzare tutto questo in un testo, non è sempre facile. Spesso si finisce col mutilare un concetto, una frase, un’immagine, uno iato, tanto che la poesia s’integra nell’antipoesia.
In questo clima c’è chi prova ad aggiornare repertori, o a redigere storie letterarie, a volte recuperando nomi per sempre dimenticati. Si torna così ad un discorso che è altro rispetto ai comitati di lettura editoriali, senza citare i non pochi poeti del Sud, esclusi dai circuiti mediatici ed emarginati dalle tante antologie, non ultima quella di Giancarlo Majorino, Poesie e realtà 1945-2000, Milano, Marco Tropea Editore, 2000 pp.384, lire 36.000, a proposito della quale, Giuliano Manacorda nel suo saggio: Non due ma cinquanta anni di poesia su I Limoni- La poesia in Italia nel 1999 e nel 2000, Caramanica Editore, mette in rilievo, “la solita, acritica, partigiana e quasi brutale scissione degli “italiani” al di sopra ed al di sotto del 40° parallelo”. Oggi la poesia non è più un mito non riflettendosi nella coscienza generale e nella dimensione profonda del dato fenomenologico, anche se è riuscita nel corso del tempo, ad assimilare i generi letterari del passato associandoli a quelli del presente, secondo nuovi stili, sviluppando, quello che per Gottfried Benn, è il riscatto antropologico nell’elemento formale.
Nel suo recente libro dal titolo: Ancora il palcoscenico non è stato dipinto, Domenico Cara fa un elenco dei poeti definiti desaparecidos, includendo tra questi::“Vittorio Bodini, Orazio Napoli, Edoardo Cacciatore, Lucio Piccolo, Saverio Vollaro ed Enzo Nasso, segnalando, perché quasi mai citati: Aldo Dramis, Carlo Felice Colucci, Antonio Corsaro, Raffaele Carrieri, Geppo Tedeschi, Helle Busacca;,” con sorte migliore, in quanto presenti in alcune antologie e, raramente in saggi, per: ”Francesco Màsala, Rocco Scotellaro, Vittorio Fiore, Luigi Compagnone, Mario Farinella e Gennaro Morra, altri protagonisti di un periodo soltanto se considerati “impegnati” secondo una formula di realismo politico o di polemisti irretiti in una speranza (cancellata) di messaggio a ottica contadina o partigiana, sarcastica, in rapporto alla generale elegia di cui è composta molta produzione del Dopoguerra. E di chi — in massiccia soluzione — resta tuttavia nell’elenco di coloro che puntualmente abitano il luogo delle riviste letterarie (sempre quelle minori o sconosciute, potenzialmente destinate alla breve esistenza, che non hanno scelte linguistiche o rincorse verso una possibile semanticità del testo scritto, rappresentato dal progress e quindi dalla sua efficacia.”)
Recuperare nomi di poeti “sfuggiti” all’attenzione di critici e antologisti; rifare, insomma, il cammino a ritroso per riscrivere la storia infinita delle dimenticanze e delle omissioni, non è cosa facile, anche se questo saggio tenta di aprire un varco all’opera poetica di Gennaro Morra, che, nell’ambito della poesia degli anni 50-60, non è stato uno degli ultimi, ma neanche uno da “dimenticare”, tenendo presente che la sua produzione poetica è stata saggiamente calibrata più nella qualità che nella quantità, cosa della quale lo stesso poeta, crediamo, debba essere soddisfatto, allineandosi, per certi aspetti, a quanto ha luminosamente scritto Roberto Bertoldo nel suo volume: ”Nullismo e letteratura” Novara 1998, e cioè che “la pudicizia, rispetto alla propria opera, è la più bella dote di uno scrittore. E’ altresì, il segno che quando si scrive sa di non mentire a se stesso”.
Ed è ciò che troviamo nella poesia di Morra, assieme ad una non rinnegata sacralità delle corrispondenze umane e familiari, che danno un giusto tono all’eloquio narrativo chiamato a rivitalizzare un volto, una figura, un ambiente e una storia, nella circolarità di un sentimento che unisce il ricordo alle proiezioni dell’anima.
La problematica meridionale viene ampiamente stilizzata in immagini-racconto,che accentuano il senso della solitudine e la ricerca dell’altro di sé del poeta, il quale si trova a suo agio soltanto quando i riferimenti poetici si identificano con i segni di una cultura periferica.
La pagina letteraria fornisce le ragioni e i motivi di una ”incomunicabilità” di tipo esistenziale che ruota intorno ad un mondo minore, con una concretezza poetica che mette in primo piano tutta una serie di soggetti da costituire un unico rapporto tra significato e significante.
Il risultato alla fine è un insieme di monografie dell’anima nei campi della memoria, come zolle di sentimenti che finiscono con l’essere una sorta di universo del discorso, secondo l’espressione di Ch. S. Peìrce.
Per quanto si diffidi del pathos in poesia, è difficile trovare nelle figurazioni letterarie di Morra, eccessi d emozioni, che non sono mai egemoni sull’intero discorso realizzato nell’area del neorealismo degli anni 1953-1957: un “quinquennio in cui comparvero una cinquantina di volumi che massicciamente consacrarono e nello stesso tempo esaurirono il tentativo di imporre questo tipo di poesia, con i suoi temi riguardanti la miseria, lo sfruttamento, il folklore e la rivolta del contadino meridionale anche se il Falqui definisce questi Autori “marxisti” o “poeti dell’istanza sociale”, la cui avventura poetica terminò a causa della “situazione politico-sociale del paese che andava rapidamente cambiando”. (da: La poesia Neorealista Italiana di Sergio Turconi, Mursia, Milano 1977).
Tuttavia non va scissa da questo contesto l’operatività psicolinguistica e tematica dei poeti del Nord che con occhio vigile si soffermarono sui temi della guerra e delle prime lotte operaie, mettendo in rilievo le differenze sociali e i conflitti generazionali fra genitori e figli, con tutte le implicazioni ideologiche e culturali espresse tra lirismo autobiografico e descrizione dell’ambiente medioborghese.
Nè vanno considerati in chiave riduttiva gli impulsi del cuore, che sono poi quelli che danno un senso al dire poetico di Morra, come una griglia capace di ospitare nelle sue maglie elementi condensativo-metaforici (da: Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956.di Walter Siti, Einaudi Editore 1980).

Dietro ai carrozzoni della carovana
l’infanzia gioca a rimpiattino,
o mio cuore turbato, e nell’ombra ridesta
ansia di fanciulli e limpidezza di grida
per il dolce carillon delle giostre
nel gorgo delle lente stagioni.
(da: Un grido tra le mani pag.11)

Per i neorealisti il sentimento ”finisce per essere niente più che uno strumento difensivo di compattezza, un evitare nello stesso tempo la distanza fisica e la difficoltà intellettuale”, come ha fatto rilevare Mario Cerroni in Poeti italiani del secondo dopoguerra, pag. 16, e riportato da Walter Siti nel suo lavoro critico, nel quale mette in evidenza alcuni spartiti di Morra, visti come “temi-chiave” riferiti al “cuore”, luogo privilegiato della condensazione”, dove “si concentra tutta la natura”.

RETROSPETTIVA CULTURALE

La poesia molisana del dopoguerra è rimasta per lungo tempo in un’area di sacrificio e di emarginazione, che solo intorno agli anni 60-70 si è mutata in un fecondo laboratorio di proposte alternative, in opposizione alle strutture fonometricolessicali dell’ermetismo, con la pubblicazione di ciclostilati-pamphlets, e le tante antologie sorte per arginare i temi della tavola patriarcale e dei miti della civiltà contadina, in affanno di fronte allo scorrere degli eventi e alle nuove attese.
In quest’ambito nomi di poeti che hanno cercato di inserirsi in un nuovo sistema di significanti non mancano; ed è un dato difficilmente contestabile che, mentre da un lato c’era chi si indirizzava verso un linguaggio metasperimentale, come Carlo Felice Colucci, Giose Rimanelli ed Angelo Ferrante, dall’altro, c’era chi s’attardava a magnificare l’ambiente rurale, nel pieno rispetto di una meridionalità non mercificabile con le culture emergenti; e qui i nomi sono veramente tanti da costituire un unico coro o koinè. Su queste operatività si vedano le antologie pubblicate negli anni scorsi nella regione e in ambito nazionale, che hanno delineato, sotto forma di campionature e aggiornamenti, un quadro abbastanza esauriente della molteplice e variegata produzione in versi, accogliendo autori anche giovani, con le loro testimonianze linguistiche, non seguite però da altre pubblicazioni che ne convalidassero ulteriormente l’impegno e il senso stesso dello scrivere o fare versi: (Poleggi, Colangelo), oltre ad un ristretto nucleo di poeti, diversi per sensibilità e linguaggio, e in fase di ulteriore verifica del loro impegno.
Ma è con Gennaro Morra che si viene a determinare un discorso poetico, come segno vitale intorno al tema dello “spaesamento” in un Sud isolato e agonico, dove le vicende legate al tema della terra, si alternano con motivi sociali e privati, in un linguaggio neorealista, correlato ad alcuni volumi, in particolare: Parole udite domani Schwarz 1953, e Un grido tra le mani Rebellato Editore, 1959, nei quali emerge un tracciato psicoespressivo, codificabile nella pratica della recerche à rebours e riaggancio alle cose perdute o rivisitate nel tempo dove “gli uomini risalgono i monti e si danno la voce / da un paese all’altro, e….vi sono soltanto / chiese e pagliai / e strade senza sbocchi, / strade allargate / dalla carraia dei barocci. /
E’ una poesia dai toni discorsivi, tra tristezza e pacata nostalgia, dove non manca la presenza della morte, che secondo un pensiero di Cioran, spesso “si pensa senza tregua e vi si è rassegnati”, e che in Morra si trasfigura in un’immagine antropologica, domestica e metamorfica, senza sconfinare nella documentazione espansiva del negativo.
Come per Montale, anche per Morra il ricorso ai ricordi diventa condizione essenziale per esistere, perché solo nella “memoria c’è il presente”.
Questa tendenza regressiva a spaziare nel passato è dichiarata nei primi versi del testo: Il paese di mio padre, pag.5 in “Parole udite domani”, ed esemplifica il percorso lungo il quale si formulano gli imput che danno spazio ai sentimenti, misurati nell’esposizione e nei transiti memoriali:

Da quando son tornato
a starmene in questo paese
mi son fatto estraneo
a tutto il resto del mondo.

E’ il primo segnale di isolamento e di ritorno in un “paese innocente”, visto come locus ideale di paesaggio interno, le cui poesie conservano ancora oggi un rapporto sotterraneo con i lettori, anche tra i più scaltriti e seguaci delle varie neo o postavanguardie, per l’immediatezza del racconto e la semplicità dell’esposizione.
Certamente la datazione linguistica è rilevabile nei testi, tuttavia essa non costituisce una frattura nell’attuale produzione in versi, tendente a recuperare la tradizione, più che a spingersi oltre i parametri dello sperimentalismo tout court.
Questo saggio è un percorso di lettura su tutta l’opera poetica di Gennaro Morra, a cominciare da: Solstizio d’estate (1951), passando per Parole udire domani (1953),Un grido tra le mani (1959), Memoria di Lei (1972), fino al 1988, che sigla l’ultimo volume: Viaggio nel deserto: esattamente trentasette anni nei quali il poeta ha sfiorato la questione meridionale come “osservatore” e “testimone”, con una poesia limitata in ristretti campi oggettivi.

“Questa realtà per Morra, è il Molise dell’infanzia e del ricordo della coscienza amara del dramma collettivo del Sud. La poesia sociale di Morra, evidentemente definibile nell’area del neorealismo, col suo timbro epico, con il suo tono iterativo, cantilenante, secondo schemi tipicamente popolari, ha i suoi principali referenti nella desolata cognizione di un paesaggio geografico e umano irredimibile dalla sua condizione disperata, dove gli uomini non hanno neanche volti umani”.
(da: Letteratura delle regioni d’Italia — Storia e testi — di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli, Editrice La Scuola, Brescia, 1994, pag.54).

AREE LINGUISTICHE E CONNESSIONI TEMATICHE

Sul terreno specifico delle corrispondenze semantiche e dei correlativi oggettivi emerge il distacco tra letteratura e classe popolare, ovvero tra innesto letterario e coscienza politica, anche perché il termine sociale è limitato in un contesto provinciale nel quale Morra compila un repertorio poetico fatto di sensazioni umbratili, circoscritte tra ermetismo e neorealismo, dove lo spostamento in avanti del dato sentimentale, figurativo, geografico ed esistenziale, trova una giusta collocazione nelle tematiche provenienti dal binomio città-campagna, che creano momenti di raccordo anche con un certo romanticismo isolato e maudit.
Ma è l’adesione ad un ambiente primitivo ad instaurare un rapporto confidenziale con la natura, che diventa il luogo privilegiato della ricomposizione dei sentimenti, che si organizzano in un paese dell’anima nel quale trovano spazio tante piccole isole di solitario abbandono e di piacevole sopravvivenza.
E’ probabile che in questo perdersi e ritrovarsi si circoscriva la cifra poetica di Gennaro Morra, col suo tipico movimento sintattico, che si associa ad una struttura ritmica comprensiva di più simboli del mondo arcaico, recuperati da un abilissimo gioco di proiezione delle retrospettive mentali, che rimuovono radicalmente ogni connessione e rapporto con la vita urbana.
Si pensi soprattutto a questa operazione di transfert, come condizione mimetica con la terra-madre, che non diventa mai elemento marginale, ma avventura della coscienza oscillante tra assopimento e risveglio di fronte ad un mondo inalterabile e, per questo, meno “ostile” perchè depositario di richiami ancestrali.
Vogliamo dire che l’insistente ritorno ad una vita naturale, è un problema che investe il senso di alienazione del poeta, alla ricerca autogenetica dell’altro di sé, per ritrovarsi alla fine, su posizioni neoumanistiche dichiarate nella monotonicità dei testi.
Quello che emerge è un repertorio di “scontri “ e “incontri” sul dato reale e immaginario dove si inseriscono alcuni elementi mitici, ricostituiti da una memoria distaccata dalla letteratura dell’oggettività. E’ quanto si rileva nei primi rapporti poetici caratterizzati da una duplice operatività linguistica, collegata più ad una gestione autonoma del significante, che a vere e proprie fratture dicotomiche. E’ un’operazione che può far nascere sospetti di ambiguità estetica, ma le intermittenze e i rovesciamenti formali, che si susseguono in una costante concatenazione e successione, sono consequenziali all’urto delle cose e al riaffacciarsi costante del rapporto antitetico tra mondo periferico e mondo centrale: da qui le scelte linguistiche spostate sul versante dell’ermetismo e del neorealismo:

NON HO ALTRO CAMMINO SICURO

Sulla via hai lasciata
l’impronta del passo
e vi rimane

Il mio piede la calca
e ti ritrova.

Non ho altro cammino sicuro
quanto l’andare e venire comunque con te.

(da: Solstizio d’estate, pag.11)

FESTA AL MANDRIONE

Queste case hanno porte e finestre
che s’aprono sul fango dei pantani
dentro i quali si calano i ragazzi
ad attendere la sera dei ranocchi;
hanno mura sottili che non reggono
nemmeno le immagini dei santi;
hanno il fondo di terra battuta
dove è duro piegare le ginocchia
e camminano nell’aria, delirando,
come lacere e bandiere…
(da: Un grido tra le mani, pag. 73)

da “Solstizio d’estate” a “Parole udite domani”

In Solstizio d’estate, Gastaldi Editore, 1951, c’è un testo a cadenza epica, che si evidenzia su tutti gli altri, per una più omogenea armonizzazione della forma, ed è quello dal titolo Scalzo venne l’angelo, pag. 39, che si snoda sul tema del viaggio e del passato modus-vivendi del caro estinto già “sulla sponda dell’estremo recesso / con in mano / la moneta per il traghetto”. Tutti gli elementi circoscritti all’addio, come ad esempio il rito della vestizione, il richiamo mitologico del pedaggio per Caronte, la finzione della “stanchezza”, come giustificazione del rifiuto della vita, sono trascritti con umana partecipazione, quasi sottovoce di fronte all’angelo scalzo che viene a reclamare il “patto segreto” stipulato con l’uomo:

Per andarsene
non scelse un giorno qualunque:
fu di Natale dopo cena
e mia madre dice ancora
che fu come per celia.
Se ne andò all’insaputa di tutti
perché non amava
i riti della convenienza
Volle vestirsi da sé,
per un attimo indugiare
con lo sguardo e il respiro nella notte,
fonda come il suo dolore senza voce,
e per comporsi sul letto
finse la stanchezza……..

Si tratta, in specifico, di un seme buttato nel campo della poesia che germoglierà accanto ad altri di delicata infiorescenza nelle opere successive. Esiste in Solstizio d’estate, un impianto poetico che è espressione personale del vissuto esistenziale nel quale maggiormente confluiscono le risonanze interne del poeta. E non è poco, se consideriamo che le opere prime portano caricamenti d’ingenuità, pur con le necessarie e dovute eccezioni. Qui citiamo qualche testo ben definito nella sintesi e nella formulazione tematica, dove il sentimento dell’amore risale da risonanze profonde nella sorpresa del presente:

Mi recludi, amore,
in un cerchio
che non ha giunture
e vi sto, pago
d’ogni buona castità,
senza angustia o castigo
come in un borgo perso e ritrovato.

Quel che mi recinge la terra
libero in alto
trovando cielo ai trabocchi.
Parole certe parlano
nel giorno nato da tanto
piccolo giro d’orizzonte
e a difesa mi stanno
le favole del focolare,
il contarmi ogni sera
le efelidi sulle mani.
Tanto era scritto
e tutto il bene di quest’ora
sta nel male di ieri.
(da: Solstizio d’estate pag. 5)

I testi della raccolta sono di derivazione ermetica: o di “poetica arcaistica dell’ermetismo, ma, in effetti, è consapevolezza — o quanto meno sensibilità – di quella “integralità” della poesia che, nello sviluppo di una precisa materia esige, e non importa se si tratta di “lirica” o di “epica”, la tecnica dell’ essenzialità o, che è lo stesso, del limite perfettamente poetico”, come rileva Corrado Piancastelli, e che si traduce, in una purezza evocativa del dato reale, secondo precisi moduli interiori.
Ma è con la silloge Parole udite domani, che si viene a realizzare un maggiore effetto nell’ambito della maturità stilistica e della più generale acquisizione del significante spostato in area neorealista.
Morra, pur essendo un poeta del Sud, ha saputo evitare le facili maledizioni che hanno accompagnato la poesia meridionale, mitigando le storie di miserie e di dolore, attraverso il recupero delle proprie radici, bruciando sul nascere, qualsiasi operazione di malumore e d’invettiva nei confronti dell’emarginazione e del potere.
Superato il rischio di un epigonismo di maniera, proprio di tanti poeti del Sud, prende forma e si consolida la poetica della memoria, fino ad approdare ad una solitudine campestre che è amore per i propri campi e per le sere d’estate che giungono improvvise / sotto i lampioni delle piazze / dove i ragazzi imparano a chiamarsi / con nomi inventati nella rissa. (Parole udite domani pag. 12).
Dominano nel contesto poetico analisi e piccoli credi di fronte ad una esistenza dura ed implacabile, in una policromia semantica supportata da una musicalità profonda e cameristica.
Ci sono poesie che mettono in rilievo il senso effimero del tempo, che muta e cambia il volto degli uomini e la vita stessa, rivisitati nel rapido scatto del pensiero, che traccia i contorni del paesaggio immutabile negli anni, nell’impulso della riflessione e dell’autocompiacimento della propria misantropia:

Non voglio più tornare
sulle strade catramate:
i miei passi qui hanno
dolce riposo e m’è guanciale
l’afflitto verde del trifoglio
(da: Parole udire domani, pag.15)

Il tema della solitudine diventa codice di riferimento prioritario per un riavvicinamento ai luoghi dell’infanzia, nell’abbaglio della rimemorazione, che recupera così le vie del paese, l’olivo e la vite, le donne alla fonte, la mandria, il fumo delle stoppie, le giostre, i cani dei pastori, l’attesa della morte alla fine della vita ecc. Sono tutti motivi che giustificano i molteplici agganci con l’ambiente rurale, visto come pausa d’annidamento e di fuga dalla città.
E’, in sintesi, lo stesso alibi poetico che portò Pavese a riconoscere nella campagna, i luoghi originari di una interazione fisica e psicologica, dopo aver percepito un diverso rapporto con la vita e la natura.
Ed è quanto si rileva anche in Morra con i suoi centrifughi passaggi mentali, che affiorano in un’atmosfera poetica fortemente umana e intimistica, nell’attimo stesso in cui vengono a frapporsi gli arretramenti psicoemotivi volti alla ricerca del tempo perduto:

Ritorni d’epoche sgomente
e adolescenza precoce,
avete preso il pallore del tempo.
Come un pensiero obbligato
la memoria mi stanca
questo costringermi
a indovinare il passato
(da: Parole udite domani, pag 7)

C’è in questo esporsi nel mondo della memoria, una percezione acuta del senso del nulla, subito ripopolato da situazioni e fatti collocabili nel paradigma di storie che si evolvono nel rinnovato rapporto con le cose, quando subentrano i “ritorni” psicologici a ricostruire un tessuto umano, dilacerato dalle contraddizioni quotidiane:

Io qui vengo ad incontrarmi
con la notte e faccio barricate
per difendermi dal vuoto
ch’esse portano dietro di sé
finchè il canto dei galli
non chiami l’alba sui monti
(da : Parole udite domani, pag.10)

La fuga dalla città e la prefigurazione della morte portano il poeta a (ri)amare la propria terra, con i suoi profumi acri di stoppie bruciate e di giostre somiglianti a case cupolate, nello sfondo della natura e delle sue voci multiformi:
……………………………
Una notte
vidi portarmi a sepoltura:
compresi allora
che urgeva il bisogno
di farmi amico l’ulivo e la vite,
di porgere il cercine
alla donna della fonte.
Allora compresi
che la mandria si sarebbe affacciata
sul muro di cinta al mio sepolcro.

E dimenticai i pinnacoli barocchi,
i pescatori col pileo,
i palazzi tinti di rosa.

Ora resisto al bruciore
che il fumo delle stoppie
mi fa nelle narici aperte
e, come un fanciullo, aspetto le giostre
somiglianti a case cupolate.

Quegli altri paesi esistono
soltanto nei libri;
li ricordo come una lezione
bene imparata
e mi riempie di meraviglia
il sentirli chiamare.

Attenderò il giorno
in cui mi infosseranno i piedi
in questa terra
perché vi metta le radici,
mangerò fave fresche
e pannocchie bollite,

mi guarderò dai cani dei pastori,
le notti d’estate le passerò a cantare
sopra mannelle di grano e dirò:
questo è il paese di mio padre.
(da Parole udite domani, pag.5)

Il testo fa da apripista al binomio terra-madre, e determina, con poche eccezioni, la nascita di un palcoscenico poetico-rurale nello squarcio di una simbologia meridionale, che vede come soggetti primari la natura e la cronaca domestica e privata, che soccorrono una coscienza infelice nell’attimo in cui vengono a riposizionarsi le radici di una identità smarrita e sempre ricercata. In questa condizione d’isolamento e di estraniazione nasce il discorso di Morra, come un canovaccio d’intensa suggestione, grazie anche ad un apporto selettivo sulle prospettive non solo intimistiche, ma anche collettive, tanto da far dire a Giuliano Manacorda nella sua Storia della Letteratura Italiana contemporanea, 1940-1966, che “la protesta sociale (di Morra), assume una forma accorata, descrittiva, immediatamente accessibile per la popolarità dell’immagine e la semplicità della paratassi”.
Del medesimo parere è Corrado Piancastelli nella prefazione al volume: Viaggio nel deserto, quando scrive che “Morra nacque poeta con un’istanza sociale vocazionalmente accentuata. Caso piuttosto raro in Italia, fu tra i pochi a salvarsi dal ferocissimo Falqui, che recuperò il Morra (in La giovane poesia) tra i pochi poeti validi non rientrati nel periodo di nascita tra il 22 e il 30 (quelli della quarta generazione del Macrì) ma con opere pubblicate tra il 44 e il 55 e cioè Fortini, Fiore,Piovano, Cerroni, Menichini, Zagarrio, Frattini, Pasolini, Accrocca, e Scotellaro,Di Ruscio e Morsucci”, rilevando il carattere distintivo di Morra nel segno crepuscolare e pascoliano; il che, rende il giudizio esatto, se non intervenissero i mutamenti dei significanti, che pure emergono nei testi di Viaggio nel deserto, sotto forma di lemmi, stilemi, intrusioni lessicali di tipo anglosassone, come a voler incorporare qualche suggestione metalinguistica, anche se il discorso è prevalentemente lirico e mitopoietico, ancorchè fonico e musicale; ma di una musicalità in sintonia con la tradizione, per perdersi e ritrovarsi in essa.
Il meridionalismo di Morra è essenzialmente iconografico: da qui le celebrazioni dell’ambiente rurale, visto come luogo d’identificazione culturale e sentimentale, per meglio attingere ad un bacino di memorie recuperato attraverso un monolinguismo tematico di straordinaria innocenza e malinconia, che spontaneamente si manifesta quando il poeta si lascia alle spalle la città, per riconquistare vecchi sogni e nuove emozioni.
Si costituiscono così gli elementi connotativi di un discorso modellato dal senso della vita e della morte, col ripristino di “storie d’epoche sgomente, dove i morti li seppellisci a fior di terra / fuori la porta dell’orto / e continui a portarli presenti / li senti respirare nella polvere / accendi i lumi ai loro piedi / e li chiami come da un balcone” pag. 20.
Ciò è evidente nel volumetto Parole udite domani, nel quale il discorso si fa sommesso parlato, cadenza musicale e trascrizione fedele di un ambiente; un libro che a rileggerlo non sembra aver smarrito l’originaria forza evocatrice, quella che porta il poeta a scrivere in maniera impareggiabile qualche lettera al “caro Velso Mucci”, pag.8, che è un gioiello di suasiva affabulazione alla luce del sacrificio della memoria, che si scioglie in una short story.
“Questo raccontare modestamente delle proprie cose e del proprio ambiente dà alla poesia di Gennaro Morra (Parole udite domani), un tono di sincerità e di spontaneità singolari, anche se infuse di un’arida desolazione….
C’è un’aggettivazione quasi umana, fraterna di cose, come di persone che vivano e soffrano: è dolorante realismo che geme in versi scabri, dove si sente il soffocato singhiozzo, l’affanno di una “terra di pianto nato da occhi aperti a sorrisi di dolore”. Leggendo questi versi si prova la stessa impressione che si ha davanti alle sofferte figure umane ritratte da Carlo Levi”.(da: Il Presente — poesia e critica — Anno II°, n. 7, 1963 di Oronzo Giordano).Quel Levi con il quale Morra fu in amicizia negli anni 56 e 57.
Parole udite domani riunisce 14 testi abbastanza indicativi di un clima poetico a sfondo meridionale, oggi improponibili, eppure, perfettamente in linea con quelli di più ampio respiro nazionale espressi a suo tempo da Quasimodo e Scotellaro, da Buttitta. e dal lucano Pierro, che in vario modo impressero vitalità ad una poetica d’impegno sociale, senza trascurare la problematica macrostorica della realtà contadina e del disagio d’esistere in periferia, tra abbandono ed emarginazione.
Sembrano questi testi, sezioni dell’anima provenienti da un vocabolario le cui parole sono circoscritte in capitoli di riflessione intorno ad un mondo-mito, recuperabile solo col ricordo.
Le metafore narranti entrano come ritratto poetico a tinte unite, cosicchè, il quadro d’assieme risulta misurato dall’ampiezza della solitudine e dalla condizione soggettiva e negativa nei confronti della città —caos o città-babele.

Alberto Frattini, tratteggiando un quadro critico sulla poesia di Gennaro Morra in Poesia e Regione in Italia, Istituto di Propaganda Libraria, pagg.88-89, rileva che “ già nel suo primo libretto del 51 Solstizio d’estate, affiorano echi di poeti contemporanei (Quasimodo soprattutto), il sentimento d’amore s’intreccia ad un’oscura ancestrale coscienza del peccato e al pensiero della morte, entro lo sfondo di una ricorrente nostalgia per la terra natale, che si farà ancor più insistita nella seconda raccolta, Parole udite domani.
Mario Cerroni nella sua antologia, apprestata nel 1955 di Poeti italiani del secondo dopoguerra puntava soprattutto sulla componente realistica di Morra, osservando però come il suo realismo resti ai margini di una simpatia puramente “naturalistica”, sì che egli avrebbe dato voce alla “passione” dell’uomo del Sud “in dialettico contrasto con una fatalità immanente e restia ad arrendersi a qualsiasi spiegazione organica”.
Questo criterio di lettura, certo impegnato e stimolante, nella sua stessa esigenza socio-ideologica di estrazione gramsciana, non risultava, comunque il più appropriato per intendere la vitalità della poesia di Morra: e di ciò si aveva chiara conferma nel suo terzo e più maturo libro, Un grido tra le mani ove Morra resta fedele, nei liberi moti del suo canto, alla terra dei padri, alle sofferenze, alle miserie, alle speranze dei suoi corregionali, in una testimonianza felicemente equilibrata tra umana partecipazione e ansia di riscatto, in cui la stessa sensibilità sociale è risolta e trascesa —sul versante apocalittico-profetico- in genuino afflato religioso”.

LETTERA

Caro Velso
qui dove mi esilio
per fuggire ai tramonti improvvisi
ai raggi obliqui senza luce,
agli orizzonti, proibiti
da pareti che si restringono,
qui la notte viene di lontano
fors’anche dalla tua Brà
o da un altro meraviglioso paese;
qui la notte la portano i buoi
nei neri occhi assonnati
e il gracidare dagli stagni
che non hanno riflessi di stelle.

Ancora qualche muro mi difende
dalla paura che recano
le notti senza annunzi di sere,
eppure ogni volta è un inganno
di ombre dietro alle quali
i prati affondano come il passo
nella mota di certi temporali.

Dove s’ancori il silenzio
non saprei confidarti;
io spoglio mi sento e non tocco
da questi contagi.
Se mi sporgo
l’occhio annega e nel lento cammino
riconduce al tatto ogni cosa smarrita.

Di sotto alla casa
l’asina percuote il selciato
con un ritmo di trance
i cani, stizziti, abbaiano
all’eco dei propri latrati
o al lamento che fanno lontano
gli organetti di Barberia;
nella stanza accanto, in alto
appesi alla parete
stanno il cappello e il bastone
con il quale mio nonno
rimuoveva la terra
alle radici delle piante.
Se volessi scavare
il seme che ho interrato stamane
saprei dove ritrovarlo ad occhi chiusi.
Io qui non vengo a riposare:
m’affaticano le veglie
sul saccone riempito
con le spoglie di granturco
io qui vengo ad incontrarmi
con la notte e faccio barricate
per difendermi dal vuoto
ch’esse portano dietro di sé
finché il canto dei galli
non chiami l’alba sui monti.
(da: Parole udite domani pag.8)

UN GRIDO TRA LE MANI

Molto diversa appare la struttura di Un grido tra le mani, che si affida ad una più organica modulazione epica. Qualche volta il fiato poetico s’allunga più del dovuto, non mostra segni d’afasia, collegandosi con le situazioni interne ed esterne del poeta. Qui e là emergono il tratto retorico e l’enfasi. Tornano Pavese e Quasimodo.Il ritmo è quello armonioso dell’endecasillabo, teso com’è alla descrizione di fatti ed eventi, impigliato nella rete del ricordo, con improvvise introspezioni che si riflettono, con qualche colpo di spatola, sul tratto storico e ambientale. Il poeta riscopre le cifre del vissuto analizzandole nella loro complessa situazione, ricorrendo alla poésie ininterrompue, che qui riportiamo come frammento tratto dal testo: Discorso a una rondine, pag. 21

Ora che il tuo volo greve s’impiglia
nell’aria spenta dai primi venti dell’estate,
ora è tempo che tu migri
verso le aperte pianure di sabbia
oltre i moli irretiti di bandiere
radendo l’immobilità delle statue
che si levano sui poggi e sulle chiese
come i sonnambuli sui tetti.

Ora è tempo che l’ombra dispersa
del tuo volo, cada sulle rive
dove perdi la terra e incontri il mare.

Qui ricordami alla kasba delle strade
in declivio sdrucite dai passi e dalle voci
di una gente chiassosa, appesa ai balconi
assieme ai panni e alle begonie,
ricordami ai fanciulli dentro i quali si
quietava la festa di Piazzetta Gagliardi,
al libraio che mi comprava il Lux Christi….

Siamo ancora sul piano di un discorso epico ed evocativo, autenticamente novecentesco, tra allitterazioni e forte disposizione al racconto autobiografico, ma la ricerca referenziale intorno al ricordo è autentica e aggrovigliante, e si traduce in una resistenza al quotidiano e in un costante approdo al passato, che rimane autentica religione della vita e il senso estremo cui affidare la speranza e, forse, ancora qualche residuo sogno.
Nel suo iter critico Corrado Piancastelli rileva che le poesie di Morra “sono come due mondi in lotta: la terra che si presenta con le lusinghe dei rimpianti e dei dolori e la città nuova da conoscere e appropriarsene come dimensione fisica e morale”.
Sono le prime individuali avvisaglie di quel conflitto culturale descritto da Pavese e che va sotto il nome di sperimentalismo realistico, che non divenne mai un manifesto politico per Morra, anche se recepisce il malessere esistenziale, rendendo visibile la sua condizione d’intellettuale del Sud, che paventa la contaminazione urbana nel piccolo centro e l’annullamento delle proprie radici.
Vogliamo affermare che la sua poesia non perviene mai ad uno stato di netta opposizione nei confronti della realtà socio-culturale degli anni 50-60, tanto è vero che il volume Un grido tra le mani, non è altro che un urlo smorzato in gola, che reprime l’angoscia privata nell’incapacità della poesia a mutare il corso degli eventi.
Di questi passaggi rimandiamo il lettore alla sezione antologica acclusa al presente saggio, per una più articolata lettura dei testi.
Va da sé rilevare che anche dalla più lontana periferia, ci sono state presenze poetiche, che pur valutate positivamente dalla critica, non hanno avuto lo stesso riscontro nel corso del tempo, mentre si commettevano e si commettono omicidi letterari, senza alcuna giustificazione, penalizzando testimonianze sincere, aldilà delle quali resta l’impronta incancellabile di un attivismo poetico, come messaggio utopico e, a volte per chi ci crede, anche salvifico.
Più in generale, ci pare di condividere quanto pubblicato in La cultura delle regioni: Abruzzo e Molise Ed. La nuova Italia Edtrice, Firenze 1967 da Giuseppe Zagarrio e Tommaso Di Salvo:” La poesia ispirata al Sud ha avuto un suo momento di particolare successo nell’immediato secondo dopoguerra, quando l’interesse verso i problemi sociali del Paese fece volgere l’attenzione anche degli scrittori e degli artisti verso le nostre zone più depresse. Allora fu scoperto il Sud anche dalla poesia, che ne fece per un momento il suo più impegnato centro di interesse. Solo che l’interesse venne presto accompagnato, e quindi falsato, dalla curiosità o da un certo sentimentalismo evasivo per cui il Sud potè divenire motivo stanco di folklore o elemento di favolosa evasione dagli stessi problemi sociali da cui pare era emerso. Non mancano tuttavia poeti meridionali che si tennero ben stretti alle istanze più autentiche; uno di questi fu il molisano Gennaro Morra, che puntò nei suoi versi limpidi e chiari, l’espressione di una viva partecipazione alla sofferenza della sua terra e della sua gente.”
Senza, trascurare, ovviamente, l’intimo scatto pensoso e umano del suo porsi come protagonista narrante della propria dissezione interna, frastagliata da strati psicologici fatti di luci e ombre :una poesia che vede corrispondenze analogiche con quanto detto da Mario Sansone nel Convegno sulle poetiche degli anni 80- “Noi, non concepiamo altra poesia che quella che è negli uomini, è fatta dagli uomini per gli uomini, anche la più isolata, la più singolare, la più conclusa, la più come dire umile e nascosta delle poesie. E’ sempre poesia del mondo, è poesia degli altri uomini ed è una forma concreta di attività un modo di essere nello spirito. Ed usiamo pure questa vecchia parola in disuso, un modo di essere dell’anima, dell’attività umana, della prassi, un modo di essere che si colloca accanto agli altri modi di essere. Perciò noi diciamo che è un’esigenza rispondente alle eterne esigenze dell’uomo se no dovremmo concludere che la poesia va morendo”-.
In questa zona isolata e singolare è cresciuta la poesia di Gennaro Morra, che lascia poco spazio ai disegni ornamentali del tessuto lirico, e molto, invece, al discorso dell’osservazione e dell’introspezione, senza escludere l’accesso al mondo della speranza, come una primavera di fede, dopo le sconfitte quotidiane e le immancabili delusioni:

A sfigurare quei sogni,
cresciuti oltre la morte,
verrà Cristo scalzo
e varcherà la siepe dei rovi:
lo seguirà la turba
con le palme alte di olivo
agitate nell’aria d’aprile
e sarà questa la vostra pasqua
avi miei, e la nostra primavera.
(da: Un grido tra le mani pag. 67)

Morra non rivendica ruoli rivoluzionari, né è portatore di vessilli utopici; la sua è la posizione di un poeta del Sud, che rievoca un universo perduto, sovraffollato di nebbie che si sciolgono al calore del ricordo in un’atmosfera prevalentemente riflessiva:

Nella corsa che somiglia ad una fuga
mi sfiorano i rami d’acacia
già vicini a nudarsi delle foglie
e, prima ancora che ne stia lontano,
sogno come cosa già perduta
il pane di casa e la parlata
d’una infanzia cui la mente
tien dietro disperatamente perchè
questa è la mia terra e qui tornano
gli anni e i pensieri ad ogni fuga;
perché lunga è la memoria
e lungo è il passo che mi tiene lontano.
(da: Un grido tra le mani, pag.65)

Queste analisi intorno alla lingua perduta e agli anni misurati nella lunghezza dell’infanzia, creano microfratture all’interno del ricordo, il quale si rivela come un porto sepolto, dove tutto diventa simbolo archetipo, al di fuori dell’oscuramento del dato contingente e dei ritmi della vita urbana.
E’ un discorso a volte astratto per la rievocazione di fantasmi memoriali che formano un vero e proprio engagement con le stanze del cuore. Ma è anche un modo abbastanza adialettico di porsi con la realtà fino a recepire la persistente presenza del suo nonsense, rovesciando i termini negativi per esistere, attraverso la scrittura della coscienza, come microcosmo autonomo, tra spezzoni di mondo privato e mitopoietico, a cui si accede soltanto con i correlativi oggettivi, che creano una simbiosi cellulare tra il soggetto fisico (il poeta e il suo Io), con l’ambiente esterno (terra-madre) nel duplice aspetto della simbologia, come si rileva in Ritratto, pag.9, dove meglio si evidenziano i rapporti interattivi:

Ho la statura dei magri fienili,
la calvizie delle mie pianure,
le rughe della terra incrinata
dalla siccità e gli occhi,
affondati nelle orbite, sono pozzi
dove il tonfo del secchio non s’ode.
(da: Un grido tra le mani, pag.10)

Certo ci sarebbe da discutere su questi eccessi di identificazione, ma la misura del dire è sincera e quasi mai distante da un Sud quale era quello visto da Morra negli anni del dopoguerra e riportato nell’ambito della poetica neorealista con tutti i caratteri oggettivi del Verismo, privi di ogni forma populistica.
Sono questi i campi semantici e i toponimi spirituali che rendono particolarmente significative le tracce letterarie di tipo neorealistico, incluso un certo sentimento lawrenciano verso la natura, in un continuo processo di configurazione allegorica. In questo complesso quadro di figure equivalenti, si inseriscono i parallelismi analogici delle corrispondenze semantiche e fisiche, e qui gli esempi non mancano:

Porto il terrore del ramarro
il seme d’orzo che germina le felci.
(da: Un grido tra le mani, pag. 10)

Con me porto la ruvida scorza
dell’olivo contorto di dolore,
la magra polpa dell’uva zibibbo
e il torbido furore dei torrenti in piena.
(da: Un grido tra le mani, pag.10)

Maturavo con l’età
l’acerba tristezza dell’adolescenza
facendo mio il lutto della cinciallegra
quando trovava il nido devastato
soffrendo il terrore del ramarro
preso al laccio d’erba teso sul suo passo:
…………………………………………

e non sapevi, madre…………….
che avvertivo i fermenti della terra
promettenti crescere in me.
(da: Viaggio nel deserto, pag. 45)

Memoria di Lei

Dopo Un grido tra le mani, Morra ha fatto seguire nel 1972 un libretto di versi, in edizione privata di 100 esemplari numerati, con lo pseudonimo di Andrea Morghen con il titolo Memoria di Lei, e solo ora fattoci pervenire dall’Autore, dato che il libretto non è stato mai diffuso e che soli pochi come Zagarrio e noi che l’abbiamo ricevuto hanno avuto la fortuna di leggerlo.
Si tratta, in particolare, di un libretto di 26 pagine contenenti cinque poesie di cui solo l’ultima ha il respiro di un poemetto dedicato alla donna amata, al centro di un discorso elegiaco e di un nuovo petrarchismo novecentesco.
Ad apertura del volume sono riportati due versi di Langston Hughes, correlati, presumibilmente alla persona amata e così trascritti:

My baby lives across de river
An’I ain’t got no boat

Sono medaglioni poetici sull’amore e sulla morte. Interessanti, invece, sono le date poste in calce ai primi due testi, scritti nel 1945 e gli altri due nel 1946 e che potrebbero aprire un discorso temporale in rapporto ai versi di: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese, per una sostanziale corrispondenza con lo stile pavesiano delle 10 poesie dedicate a Constance Dowling, scritte a Torino tra marzo e aprile del 1950 e uscite postume nell’edizione einaudiana del 1951:tantè che Morra ne precorre addirittura i tempi, i ritmi e lo stile, in virtù proprio delle date riportate:

Nell’oscurità gli occhi dicono parole
(sweet heart sweet heart sweet heart)
ed hanno il tremore d’acqua mossa
dentro un pozzo profondo.
Ma la bocca indovino
che modula le note:
una sensitiva che vibra
al tatto del respiro.
Le mura sconfinano,
tacciono i suoni,
il canto mi regge nel vuoto
e mi possiede.
(da: Memoria di lei, pag.9)
1945

Il che lascia supporre che l’evoluzione linguistica di Morra fosse già un fatto acquisito negli anni del dopoguerra, quelli nei quali il poeta fece stampare le sue prime raccolte dai timbri quasimodiani e pavesiani, scelti forse più per adesione al clima linguistico dominante, che per personale convinzione, dato che i materiali fonetici e strutturali a disposizione e tenuti in riserva, potevano essere sviluppati in piena autonomia, come i testi, riportati in Memoria di Lei.
L’ipotesi di una priorità stilistica e tematica antecedente ai versi scritti da Pavese nel 1951, è suggestiva e provocatoria, ma va fatta alla luce non delle date di pubblicazione dei due volumetti, che divergono tra loro: quello di Morra è del 1972 e quello di Pavese è del 1951, ma degli anni riportati nelle quattro poesie scritte da Morra nel 1945 e 1946:

Tu un giorno verrai
attraversando i prati
senza pestare il trifoglio
e schiuderanno gli anemoni
al tuo passo
pur se lontana è primavera.
Stupirai a vedere
come fiorisca un ciliegio
ma basterà che lo tocchi
perché la sera calando
mi porti il profumo dissepolto
di cinque petali
che attaccasti sognando
con le dita umide ancora
di rugiada forse raccolta
in una remota carezza
che facevi al mio penare.
(da: Memoria di lei, pag.15)
1946

Viaggio nel deserto

E’ questo l’ultimo volume di Gennaro Morra, che si propone, dopo un silenzio durato 16 anni dal precedente libretto Memoria di lei del 1972, con una poesia solitaria e appartata, dai temi più aperti e pubblici, tra intimismo e sofferta evocazione del dato storico e privato. Emerge l’impegno morale al quale il poeta si è sempre affidato nel corso degli anni, inaugurando nuovi stilemi e neologismi, come collegamento alle forme meno scissioniste, ma pur sempre innovative del linguaggio rispetto ai primi rapporti poetici. Certo non emerge molto sul piano della resa sperimentale, tenendo presente il cauto equilibrio formale al quale si è attenuto l’Autore, anche se l’esigenza di adeguarsi a nuove letture e temi, appare lodevole negli inserti e squarci plurilinguistici, che qui e là affiorano come segnali di frattura e di movimento lessicale. Sono lontani i tempi delle suggestioni letterarie di Parole udite domani e di Un grido tra le mani. Il discorso è diventato più libero e meno elegiaco.
Sembra questo Viaggio un ampio giro intorno al mondo nella violenza della Storia.
Riappaiono i tumulti di Piazza Venceslao e la primavera di Praga, una e più città dell’Europa e dell’America; il fiume Neva, Broadway e Wall Street.
A Broadway si beve ghiaccio e bourbon / misto all’acqua dell’Hudson / e le insegne che incendiano la notte / si spengono come candele, pag. 29, assieme a tutta una descrizione topografica di New York con il Palazzo di Vetro e Manhattan e gli opachi quartieri di Brooklin:
Nel quartiere di Queens / un’ora d’amore / costa dai venti ai trenta dollari. / nel Bowery, invece, al suicida / che non potrà mai comprare / la conoscenza di un uomo influente / ne bastano tre per una corda / pag. 31. Sono veramente mutati i personaggi, dimenticati i luoghi dell’infanzia, che a volte tornano come improvvisi flash back nella seconda sezione del volume, e più ci si inoltra per città e metropoli, e più si fanno chiari i contorni tematici che hanno propri segnali di percorso. Il poeta si collega con la Storia presentandola come un cult movie; ce ne indica i passaggi tra meridiani e paralleli:
Questi miei piedi antichi /di pietra in pietra tra gli ulivi / salirono fino all’Acropoli / quando ancora i colonnelli / facevano i culs de plomb seduti sui cannoni di cartone./ pag.21.
Sono temi davvero eterogenei, marcatamente critici e di denuncia sulle violenze della guerra:
Questi miei piedi impazienti / fecero scala a Praga / quando la breve primavera / era già tutta devastata / e a Piazza Venceslao le transenne / ne arrestarono i passi sulla soglia / di un altare / attorno al quale ognuno / protendeva una invisibile rosa. / pag. 25.
E’ un discorso che si evolve con assoluta coerenza e fedeltà di fronte alla elencazione dei fatti e al collasso della civiltà: una testimonianza altamente sofferta di un umanista che ritrova nella catastrofe il senso profondo della propria fragilità e impotenza, attraverso una autonomia testuale che affronta i riferimenti storici con un forte impegno critico e civile:

A Strasburgo, a Colonia
alla Sainte-Chapelle, a Saint-Severin
la grazia pioveva in policromi riflessi
nel buio delle arcate dell’anima mia
che non riusciva a tendere l’ogiva
fino ai gotici slanci delle sue cattedrali.
La speranza, o Signore, l’ho ritrovata
nelle voci bianche che delirano Bach,
nella Passione secondo Matteo.
(da: Viaggio nel deserto pag.26)

allargando la propria vis poetica ad una dimensione universale, spezzando barriere ideologiche, confini segnati da check-point, invertendo l’odio in amore e fratellanza, riportando il tema dell’umanità al centro della dialettica: ”ora siamo tornati / alle tranquille stagioni, / ognuno porta sul petto / la stessa croce che piantammo / sul cumulo che copre / le ossa disfatte del nemico / freddato dietro la siepe; / il soldato disperso / nella valle di Macchia d’Isernia / che vidi ucciso lungo il ruscello / aveva lo stesso sorriso / del fattorino che oggi / mi stacca il biglietto lungo il Ring./

E’ il nuovo corso di Gennaro Morra. Altre sonorità scandiscono il tempo del narrato, ne fanno una cadenza percussiva, un ritmo tragico e senza retorica. Egli ricorda e denuncia, sopravvive a sé stesso e ai fatti sanguinosi del nostro Tempo, proponendosi con un documentarismo i cui personaggi o eroi sono presi come simboli della sua sensibilità. I protagonisti sono sempre la Storia e la verità macchiate di sangue. Fatti e personaggi sono attualizzati e messi a nudo con le loro drammatiche realtà.

Potrei descriverti
l’incerto colore del Danubio,
la Foresta che assedia la città
vista da un tavolo del Kahlenberg
o dirti a quanto acquisto uno scellino
Ti scrivo invece che nel cuore dell’Europa
forse
ho incontrato il nemico
che mi braccò per tutta una notte
con il mitra sotto l’ascella.
E’ l’uomo del cantiere
che mi viene incontro
con gli occhi chiari
pieni ancora del sole dei nostri paesi
e le braccia inermi lungo il corpo:
sotto la tuta celeste.
Mi somiglia come un fratello,
taciturno mi sta accanto
nel lento giro della Riesenrad
o canta in coro con me
nella bettola del Grinzing.
(da: Viaggio nel deserto, pag.28)

Questi temi sociali e resistenziali, disseminati nel corpus dell’opera, ci ricordano un altro protagonista della nostra poesia: Vittorio Sereni, che con Frontiera e Diario d’Algeria ha tradotto con lucida trasparenza il teatro di guerra che investì e bruciò l’Europa intera.
Ma come in Sereni anche per Morra si nota l’esigenza del recupero del passato e del presente visti nella loro situazione temporale, tra inganni e speranze e immancabili delusioni.
C’è in effetti, una posizione critica ed ideologica, tutt’altro che marginale di fronte al potere dei colonnelli in Grecia e dei carri armati in Ungheria. Si tratta di una breve informazione poetica, inserita in un contesto strutturale che lascia spazio nella seconda parte della raccolta a interventi elegiaci e autobiografici; tuttavia è innegabile la sua partecipazione come voce dolorosa a sé stante.
La poesia di Gennaro Morra si è ritagliata un proprio spazio dentro e fuori il territorio molisano e malgrado siano trascorsi molti anni dal suo primo volume Sostizio d’estate fino a Viaggio nel deserto, rimane ancora oggi un momento inalienabile, sopravvivendo e proponendosi non come documento sperimentale, della qual cosa si dirà a breve, ma cogliendo nello spettacolo del mondo e della natura, nella sofferenza di sè stesso e degli altri, l’intima essenza del nostro essere qui e ora, senza che da ciò scaturisca una resurrezione, un lampo di luce dalla vita, che rimane in ogni caso avamposto del dolore e della morte.

Oltre le sigle del ricordo e della speranza di ricucire i drammi e le violenze di popoli e civiltà, nasce il Viaggio, che il poeta stesso riconosce come un transito nel deserto dei giorni bui e che potrebbe essere fuori della metafora, il luogo della follia e della morte, e chissà, forse anche il passaggio nel deserto della poesia, che sembra aver fallito il suo compito di salvezza: da qui l’opinione ricorrente della sua inutilità, dopo il radicale rifiuto a riconoscerle una valenza politica.
Di più non può la poesia stretta com’è tra puro sperimentalismo cerebrale, e ritorno alla tradizione, al già detto, alla palude del verbum consumato dal suo stesso spazio letterario.
Visto nella sua interezza il volume si scinde in due tempi rivelandosi strumento operativo: che non disdegna il dato sociale e il senso della solitudine del poeta lontano dalla propria terra.
Nella seconda parte, il linguaggio torna a farsi piano e tradizionale, recuperando timbri fonici che gli sono propri.
Ne cogliamo alcuni tratti in Strade per una fuga, pag.50:

La via Romea dei pellegrini,
i tratturi delle transumanze,
i guadi con la scafa da una sponda all’altra
dei suoi fiumi senza approdi
sono la mappa di una corografia
da Imago Mundi.
Oggi ti entriamo nel cuore con violenza
folgorando lo spazio delle valli
che un tempo aggredivano l’impatto
col candore della tua innocenza…

aggiungendone altri, dalle cadenze basse, ma non meno intense come nel testo La congrega dei morti, pag.48,

Di tempo in tempo vengo
alla congrega dei miei poveri morti
che la memoria ritrasse
nel più malinconico giorno di vita
quando, inconsapevoli,
cominciarono a morire.
Ammonitore è il gesto
se la mano percuote
la lastra di marmo
che umilia i nomi
e sigilla parole
brevi o lunghe di vita.

Si torna così, ancora una volta, al discorso ermetico, dopo la parentesi linguistica arricchita dai neologismi, come in uno spartito a double face, dove si riflettono le pieghe dell’anima. su un mondo deluso e ferito. e si rifanno i conti con la vita attraverso le sottili analisi psicologiche.
Riemergono le condizioni autobiografiche con i solchi del tempo e le antiche strade di dentro, riprendendo vecchi e nuovi osservatori.
Rileggere oggi le poesie di Morra alla luce delle mutate condizioni della società rurale, integrata nell’ambiente della piccola impresa familiare, è come rimanere di fronte ad una realtà fissata nel tempo come in alcune vecchie stampe, nell’immutabile giro delle stagioni, più avare che prodighe.
Qui e là appare qualche risentimento, qualche velato rimpianto per il passato. La narrazione si scioglie in un ritmo nel quale il poeta elegge a simboli lo stato di miseria della sua gente e il paesaggio venafrano visti nella solitudine d’uomo appartato, che riesce con la scrittura a generare momenti di confessione diaristica, fino ad interagire con l’habitat circostante, dandogli un ruolo sacrale, tra sogno e verità, sentimento e amore, come testimonianza di sé stesso e del mondo rurale, al di fuori di qualsiasi denuncia politica, che rimarrà, in seguito, appannaggio dei fautori della contestazione giovanile intorno agli anni 60-70.
Il discorso poetico è diversificato nella forza descrittiva delle cose e delle situazioni più generiche del dato privato, aprendo improvvisi squarci all’evocazione di un mondo intersoggettivo.
In ciò Morra non si discosta molto da Rocco Scotellaro, anche se diverso resta il rapporto ideologico con la terra e la società rurale nei due poeti, i quali convergono, alla fine, nell’unica testimonianza possibile: e che riguarda il Meridione, sconfitto e abbandonato.
Al di fuori di questo discorso la poesia di Morra rimane ancorata ad un sistema di messaggi privati che fuoriescono dalla clandestinità del silenzio, per farsi approdo segreto con i luoghi più amati, mentre in Scotellaro agisce scopertamente il grido di risentimento contro la classe dominante, nell’acquisizione dei dati sociali ed esistenziali della società contadina.
Dal dopoguerra ad oggi, la poesia di Gennaro Morra è rimasta nell’alveo di una tradizione novecentesca tra le più sicure e consolidate, mentre le occasioni poetiche, che credevamo esaurite nei segni di una parola indirizzata unicamente verso i temi della campagna e del ricordo, riflettendo umori e sentimenti incancellabili, si fanno, in parte, più aperte e pubbliche in Viaggio nel deserto, un volume che si apre ai destini collettivi e alle speranze, man mano che emergono l’impegno sociale e qualche scatto ideologico, a conferma che la sua poesia è stata vicina ai fatti e ai personaggi anche storici, con lento adeguamento alle situazioni oggettive.
Da ciò alcune sottolineature critiche rilevate da altri e che evidenziano le contraddizioni formali nella sua poesia, ma che in effetti sono connaturali alle due visioni del mondo da parte di Morra: e cioè, quella che si rifà alla realtà sociale e ambientale dell’Italia negli anni 50-60, tra miseria e iniziale avventura preindustriale, e quella più intimamente sofferta e dilacerata dei paesaggi interni, che emergono nel segno di una parola che non elude il ritorno ai luoghi cari, rivisitati tra illusioni e richiami mitici.
Quanto questa condizione di salvataggio del locus diventi prioritaria, lo dicono le tematiche stesse che appaiono sostanzialmente uniformi nel dato naturalistico e psicoespressivo e nei ritmi di una poesia fatta di grandi e piccole abrasioni, che si concentrano e si sublimano in un’avventura di vita periferica fuori del caos metropolitano e dentro gli scatti psicanalitici.
Morra non ama le metamorfosi della vita. Le sue illuminazioni poetiche bruciano con le ceneri del ricordo e si sovrappongono su strati geologici del sentimento, dove s’incastonano i pensieri, come substrati fossili. I fotogrammi dell’esistenza sono spesso sottomessi ad una categoria di stilemi che si traducono, a volte, in venature crepuscolari. La voce si chiude in ristretti campi, come in un pianissimo che ci ricorda Sbarbaro col suo soggettivismo, intimistico e sassoso.
Dall’ultimo volume Viaggio nel deserto fino ad oggi, sono trascorsi quattordici anni senza che Morra abbia fatto seguire altre pubblicazioni in versi. Tutto questo ci ha fatto considerare il suo silenzio come un momento di pausa o di addio alla poesia, inducendoci a contattare il poeta, il quale pur nella circostanziata e breve riflessione qui riportata, ha spiegato i motivi del suo allontanamento dalla poesia, ragionevolmente dovuto all’inesorabile scorrere del tempo e a quella ristretta zona della vita che non consente ulteriori introspezioni, perché tutto è stato già detto o scritto, anche se altri interessi tengono viva la sua curiosità culturale, verso studi di ricerca storica del territorio molisano.

Caro Gabriele,
il tuo proposito di parlare della mia poesia mi stimola e lusinga il mio effimero di poeta dimenticato, anche se l’argomento riguarda una stagione ormai lontana della mia vita.
Mi è difficile rispondere alla tua domanda di quale sia il mio rapporto odierno con la poesia, perché è difficile comprendere come si possa continuare ad essere poeti senza scrivere versi.
Ed è il mio caso da quando, anziché pubblicare libri di poesia, pubblico libri di storia, dopo aver maturato l’idea che il messaggio poetico non viene più recepito da una società che va sempre più deviando i suoi connotati culturali.
Ma c’è anche un motivo antropologico o, se preferisci, anagrafico. Ora frugo “nella polvere dei millenni” (come chiami il passato in uno dei tuoi bei versi), perché ad un ottuagenario, nella consapevolezza della sua raggiunta marginalità, non è più dato sognare ma soltanto sperare.
Infatti, che cos’è la poesia se non un momento onirico della vita?.
Abbandonata la scrittura, ora il mio contatto con la poesia è la lettura o l’ascolto dei versi tuoi o di altri. Non è più l’esibizione di un esercizio letterario, ma l’ascolto di un’armonia o di un tumulto musicale che risponda ai miei stati d’animo.
Anche il fragore della metropolitana o il pigolio del passero che ormai tutte le mattine viene a beccare sulla mia terrazza, in certi momenti, mi fanno sentire un poeta che ascolta e non comunica.
Questo è quanto! Cerca di immaginarmi così. Con affetto. Gennaro Morra.

Ciò che Morra ha dichiarato in questa breve lettera, rispecchia una situazione personale, dolorosa e sofferta, che condividiamo nella sua sintesi, sottolineando che, mentre da una parte c’è chi scrive testi oscuri, o forse ancora sperimentali, dall’altra c’è chi, pur non producendo versi, rimane innamorato della vita e delle sue forme più diverse, avendo scandagliato a fondo le strade della realtà, anche se col tempo tutto ciò si traduce in un abbandono della poesia, che rimane, tuttavia, un evento misterioso; ed è un peccato, per dirla con Kahlil Gibran, lasciar morire la fiamma e seppellirla sotto la cenere.

Seconda parte
 
 
Antologia poetica

SCALZO VENNE L’ANGELO

Per andarsene
non scelse un giorno qualunque:
fu di Natale dopo cena
e mia madre dice ancora
che fu come per celia.
Se ne andò all’insaputa di tutti
perché non amava
i riti della convenienza.
Volle vestirsi da sé
per un attimo indugiare
con lo sguardo e il respiro nella notte,
fonda come il suo dolore senza voce,
e per comporsi sul letto
finse la stanchezza.
Volle essere discreto
fino alla fine perché stava
in casa forestiera.
Se avesse conosciuto la strada
solo sarebbe andato
a cercarsi il posto e la croce,
a scavarsi la fossa
e a domandare l’olio santo

Ci aveva persi e non sapeva più
dove poterci ritrovare.
Con quella partenza improvvisa
forse s’illuse di venirci incontro
in un mondo incorrotto
e guadagnare un poco
della pace perduta
dietro ai nostri passi randagi
e senza traccia.
Invece tra lui e il suo destino
c’era un patto segreto
che fu rispettato
e scalzo venne l’angelo
in punta di piedi accosto al letto.
Allora mia madre
gridò forte il suo nome.
Stenta e disperata era la voce
ma egli era già sulla sponda
dell’estremo recesso
con in mano
la moneta del traghetto.
Di quel viaggio
non ha mai parlato:

Ora che ci ha ritrovati
non fa che domande
durante i colloqui
tra padre e figliuolo:.
vuole che io gli dica
dove spendo le ore
perché in ogni istante
possa venirmi a cercare
e al tempo giusto chiamarmi:
bisogna che io
faccia sazia la sua sete e lo assecondi.

Da vivo una sera mi promise
la sua presenza dovunque
e io la sentivo raggiungermi
nelle ore insonni,
nelle buone e nelle cattive azioni,
oltre lo spazio che ci divide.
Ed ora teme ch’io l’abbandoni.
Un giorno m’ha premuto la fronte
con un gesto consueto
per ricordare che il patto
non era ancora risolto
e i occhi di statua
mi guardavano doloranti.
Da allora gli dico dove vado
e non chiedo dove egli sia
né chiedo perché se n’è andato
all’insaputa di tutti
in una notte d’inverno
ramingo e senza saluto
frapponendo tra noi e lui
una distanza che mai ci riscatta.
(da: Solstizio d’estate, 1951)

MA NON HO PIU’ FIATO

Al mio paese d’estate
le sere giungono improvvise
sotto i lampioni delle piazze
dove i ragazzi si chiamano
con nomi inventati nella rissa;
la luce li sfiora e li perde
nella corse a perdifiato
dietro la palla di stracci
e le voci colmano il vuoto degli spazi,
destano i nostri ozi distesi
in poltrone di bambù;
le grida ruzzolano
sul marciapiedi in ombra
a destare fanciullezze conservate.
nell’incerta memoria
Molti anni fa in questa piazza
macerai di pugni un compagno
portandomi a casa
un poco del suo sangue
aggrumato sulle nocche delle mani.
Ora imbastisco compromessi
di ricordi e speranze,
stimolo desideri e rimpianti
ma non ho più fiato
per le corse a piedi nudi.
Moribonda alle estati trafelanti
è la mia età.
(da: Parole udite domani, 1953)

ESTATE

Bianca estate, alla tua luce inerte
cerco gli archi delle schiene, piegate
a tentare il sopore della terra
sulla destra del fiume di pietre;
dall’alto scopro le mie strade
distese in un riposo insonne
laggiù oltre l’aie polverose
tra la radura di stoppie dove
la terra grida sete e vento
sotto i cieli distanti, perduti
al di là degli impalpabili orizzonti.

Pigro nell’aria assolata è il silenzio
che nasce qui; da queste antiche tombe,
tra le foglie d’ulivo immote,
fuori dai chiusi spazi delle case
dove la gente si muove senz’ombra,
sulle quali il sole s’adagia indolente e il fumo
dei secciai s’annida nelle crepe dei muri
a preparare l’autunno.
(da: Parole udite domani 1953)

IL PAESE DI MIO PADRE

Da quando sono tornato
a starmene in questo paese
mi son fatto estraneo
a tutto il resto del mondo.

Una notte
vidi portarmi a sepoltura:
compresi allora
che urgeva il bisogno
di farmi amico l’olivo e la vite,
di porgere il cercine
alla donna della fonte

Allora compresi
che la mandria si sarebbe affacciata
sul muro di cinta al mio sepolcro.
E dimenticai i pinnacoli barocchi,
i pescatori col pileo,
i palazzi tinti di rosa.

Ora resisto al bruciore
che il fumo delle stoppie
mi fa nelle narici aperte
e, come un fanciullo, aspetto le giostre
somiglianti a case cupulate.

Quegli altri paesi esistono
soltanto nei libri;
li ricordo come una lezione
bene imparata
e mi riempie di meraviglia
il sentirli chiamare.

Attenderò il giorno
in cui mi infosseranno i piedi
in questa terra
perché vi metta le radici,
mangerò fave fresche
e pannocchie bollite,
mi guarderò dai cani dei pastori,
le notti d’estate le passerò a cantare
sopra mannelle di grano e dirò:
questo è il paese di mio padre.
(da: Parole udite domani, 1953)

RITORNI D’EPOCHE SGOMENTE

Ritorni d’epoche sgomente
e adolescenza precoce,
avete preso il pallore del tempo.
Come un pensiero obbligato
la memoria mi stanca
questo costringermi
a indovinare il passato.

……………………….

Oh, ignoti profumi del giugno
io non seppi mai che foste voi
ad imbiancare l’olivo.
E a grattare la terra,
non le corolle cadute cercavo
ma il lombrico nascosto,
la tana della talpa.
E la quotidiana fatica
la portavo come un premio
assaporando
l’acredine del sangue.
(da: Parole udite domani 1953)

SULLA COLLINA DEI VENTI

Non v’è riposo sotto le croci
confitte nel cuore dei morti;
qui, sulla soglia del mondo,
non dà luce il chiarore dei lumi.
L’erba sui tumuli che i morti
inarcano con il loro respiro
l’ha bruciata il gelo di novembre.

Novembre è sceso nelle tombe,
dentro i sarcofagi di cenere
attraverso le crepe della terra
per dove passano le nostre voci
umane a gridare nomi vani
sulla collina dei venti.
(da: Parole udite domani 1953)

PAESE

Le tue spalle di roccia,
le mura senza tempo,
i santi immobili alle cantonate,
il silenzio che stagna
dentro una cerchia d’ulivi.

Ecco i miei luoghi dove hanno voce
soltanto le campane
e il tempo che fa ressa
attorno alle sue mura.

Le donne sulla soglia delle case stanno
a scaldarsi con il fiato negli scialli;
gli uomini sotto le arcate, sostano
con i visi nascosti nel silenzio triste
e nell’ozio dei mantelli neri

Tu dici che la vita è una veglia
ma il sonno nasce sotto le ciglia
di questa mia gente stenta:
lo porta il sole della meridiana,
l’uggia della nebbia dagli orti,
il lamento della tramontana.

Oh non è qui la vita, in questa cava
che i secoli assediano e la noia
fa profonda; non è
in questo silenzio indolente.
(da: Parole udite domani 1953)

PIANTO PER IL SUD

Tu, terra appena scalfita dai solchi,
terra battuta da piedi mai calzati
che ti camminano sul cuore antico,
che ti affondano il sasso nella carne
e non lamenti le ferite
e se gridi, la voce
ti si stanca nella gola,
terra di pianto nato da occhi
aperti a sorrisi di dolore.

Nel tuo ventre di cenere
è briglia la radice dell’acacia
e dell’agave e del cardo
dove dirupa l’abisso.
Le tue case diroccate
sono denti in un teschio;
come capestri vi pendono ancora
le funi che tenevano al collo
i muli nutriti di gramigna;
e i cani smagrati
ancora vi fanno la guardia.
Nel tuo cielo inarcato le campane
suonano sempre a martello
paese di chierici in processioni
e di salmodie mormorate
per vicoli storti.
I morti li seppellisci a fior di terra
fuori la porta dell’orto
e continui a portarli presenti,
li senti respirare nella polvere,
allumi i ceri ai loro piedi
e li chiami come da un balcone.
La tua ventura è d’oziare
per le strade di questa prigione
urlanti di scritte sui muri delle case
che hanno le spalle volte al mondo
da dove nessuno ti chiama,
nessuno risponde all’amaro richiamo
paese di fuori legge per fame.

Oh, nel Sud gli uomini risalgono i monti
e si danno voce
da un paese all’altro.
Nel Sud vi sono soltanto
chiese e pagliai
e strade senza sbocchi,
strade allargate
dalla carraia dei barocci.
Nel Sud si muore depredati,
anche senza la camicia.
Che cosa sarebbe il Sud
senza la malaria nei pozzi
e le carestie,
senza il gallo che al mattino
ti sveglia dalla spalliera del letto,
senza le cantilene nelle aie.
Che cosa sarebbe se i suoi abitanti
avessero volti di uomini.
(da: Parole udite domani 1953)

SENTO IL CUORE DELLA TERRA

Lasciatemi andare per queste strade,
lasciate che il piede affondi
nel solco che traccia la ruota del carro,
nei fossi che la pioggia fa colmi,
lasciate che pesti l’erba
riversa nella mota.

Una guancia accosto alle crepe
che s’aprono nei prati
e sento il cuore della terra
inviolato palpitare il suo male.

Non voglio più tornare
sulle strade catramate:
i miei passi qui hanno
dolce riposo e m’è guanciale
l’afflitto verde del trifoglio.
(da: Parole udite domani 1953)

ED IO A FARMI SCHIAVO

Ed ora viene la pioggia, (affrettato
questo rosario d’acqua sonante
rotto dagli embrici sconnessi, dalle foglie
aperte come palmi di mani
lacere), a lavare le fogne,
a riempire i miei spazi d’ombra
(vaghi spazi d’occulte stagioni)
a far germogli di radici attorno
al tempo che fa spreco di noia,
ad ammucchiar rovina di pensieri
in un angolo battuto dall’ombra
qui dove un grido sarebbe un pavese
sugli anni privi di memorie.

Ma l’inverno è presagio di sgombri relitti:
fumano le mura dagli squarci
dove sterile il muschio intristisce;
madidi pendono i fiori alle finestre,
come un rogo si spengono le case.

Nel cuore del mattino m’ha destato
questa pioggia d’acqua e di voci,
deludendo un desiderio di sole
forbito d’abbagli sul granito
che suda in lontane città di nebbia
ed io a farmi schiavo di liquido
pianto nella domenica insulsa,
a prepararmi un limite scoperto
oltre il viaggio indifeso, oltre il suono
d’una mattutina fanfara di campane.
(da: Parole udite domani 1853)

NEL TRAGITTO DEL TEMPO

E’ il tempo delle vigne devastate.
Per le vie già l’odore di vinacce
che i carri recano nell’aria
mossa dal vento dei canneti.
…………………………………

In nessun’ora come in questa,
indecisa nel vespro,
ho ascoltato nelle voci stenuate
un pianto remoto di sgomento
che geme sotto il peso della creta
trascinata come un segno per le strade.

E scalzi piedi calcano
il debole tepore dei selciati;
diluvia la sera nei cortili,
negli occhi chiari di sdegno,
nel seme duro ad aprirsi,
nei tini rossi di mosto, sulle mani
colorate come di sangue stinto.

Annotta nei cuori vinti dalla sorte
ma spazio c’è in me per quest’ombre,
per questi convogli d’uomini
perduti nel tragitto del tempo.
(da: Parole udite domani 1953)

RITRATTO

Dentro di me porto i cori della sera,
i lamenti e la dulia delle novene,
gli inni cantati nelle processioni,
di notte, all’inquieta luce dei ceri
per le strade sgombre di peccato.
Porto il terrore del ramarro,
il seme d’orzo che germina le felci,
la mestizia d’un campo devastato
e il cupo desiderio di una donna.

Quando tomba si fanno le parole
e vani sono i cori ed i lamenti,
mi regge il sogno d’impreviste razzie
o il silenzio ch’entra dalle porte
spalancate in faccia al gelo della luna.
Ho lo stupore di Lazzaro risorto,
la pietà delle cave di pietra
che offrono il ventre alle perforatrici
e con me porto la ruvida scorza
dell’ulivo contorto di dolore
la magra polpa dell’uva zibibbo
e il torbido furore dei torrenti in piena.
So l’acre succo dei roveti in autunno,
so l’attesa di chi sta misurando
la speranza delle generazioni.

In me sta il pallore del grano
cresciuto nel buio dei cassoni
per i sepolcri del Giovedì Santo
e la quiete malsana dei pantani.
Ho la statura dei magri fienili,
la calvizie delle mie pianure,
le rughe della terra incrinata
dalla siccità e gli occhi,
affondati nelle orbite, sono pozzi
dove il tonfo del secchio non s’ode
(da: Un grido tra le mani 1959)

DISCORSO A UNA RONDINE

Ora che il tuo volo greve s’impiglia
nell’aria spenta dai primi venti dell’estate,
ora è tempo che tu migri
verso le aperte pianure di sabbia
oltre i moli irretiti di bandiere
radendo l’immobilità delle statue
che si levano sui poggi e sulle chiese
come i sonnambuli sui tetti.

Ora è tempo che l’ombra dispersa
del tuo volo, cada sulle rive
dove perdi la terra e incontri il mare.

Qui ricordami alla kasba delle strade
in declivio sdrucite dai passi e dalle voci
di una gente chiassosa, appesa ai balconi
assieme ai panni e alle begonie;
ricordami ai fanciulli dentro i quali si
quietava la festa di Piazzetta Gagliardi,
al libraio che mi comprava il Lux Christi;
ricordami alle sere semibuie di quegli anni
quando l’ombra spezzata sui muri
mi teneva compagnia per certe strade traverse

Dimmi che n’è rimasto
di tutte quelle fratte ai Ponti Rossi,
dimmi se ai piedi di un platano
ci siano ancora alcune lacrime di donna.
Ritrovami quel che lasciai nei sogni
di mille e più mattini di sole
svettando col tuo volo ilare su
per le balaustre e le cupole d’asfalto
dove salivo come un fuggiasco inseguito.

Ma se ad altra sponda muovi il volo
incontrerai i giorni che ivi ho perduto
senza speranza, senza pensieri
nella mente disabitata dal presente,
infittita soltanto da un diluvio di ricordi
memorati senza rimpianto.
E qui ricordami alle ossa dissepolte
dei miei cento pallidi compagni
messi in fila dalla morte durante la marcia,
ricordami alle mamme che stanno ancora
scavando i loro ultimi brandelli,
ricordami ai vigneti devastati, ai declivi
dentro i quali riposare era un sogno,
ricordami a tutte le contrade d’Abruzzo
dove la gente ha il sapore
del pane che m’offriva,
ricordami pure alla bionda ragazza
che sulla soglia di una casa mi parlava
di suicidio come d’un limpido avvenire,
d’una sicura certezza di vita.
Ritrovami l’altana dove dormii
all’addiaccio una notte di settembre,
la siepe dentro la quale aspettai il treno
affaticato da un convoglio di fuggiaschi.
cosa sognassi in quell’attesa
lo sanno il riposo dei pastori
e la notte che premeva sui roseti,
forse lo sai tu che stai per lasciare
questa diruta grondaia.

O pini che il vento disastra,
conchiglie aperte al respiro del mare
tutti i miei rimpianti vi mando
nella croce che la rondine disegna
col suo volo dischiuso
di fiore nero nel cielo.
(da: Un grido tra le mani 1959)

A MIO PADRE

E non udremo più la musica
di chiavi che facevi nelle tasche,
non più il sorriso affondato nelle guance
che segnavano il peso dei tuoi gesti,
non più il fiato di tabacco,
l’arco del tuo viso pieno.
Venirti incontro sulla porta
è ormai difficile gioco
ai nostri anni remoti.
Hai bruciato la vita in silenzio
in ogni cosa lasciando
un breve gesto incompiuto.
(da: Un grido tra le mani 1959)

LETTERA A MIA MADRE

Ti abbiamo vuotata la casa
uno dopo l’altro andando
come la nidiata dei gatti
che si danno al vicinato:
la casa ancora fresca di calce
costruita apposta per noi
ed ora vi stai larga e sperduta
ad intristire nel pensiero
che ci tieni dappresso
con amore risentito.
Uno ad uno ci hai perduti
per le scale di casa
che scendono ai paesi del mondo
per i quali la sorte ci conduce
a vivere nell’ansia
dei ricordi fatti carne
nel tuo viso screpolato
come grigia parete di roccia
dove il tempo incide
gli anni tuoi ed i nostri.
A quest’ora mastichi
i pensieri dietro a una finestra
come quando mi cercavi
con la fronte sui vetri;
stenti a ritrovare il più triste
tra i ragazzi sulla strada
perché un vecchio ragazzo, a quest’ora
cammina sui binari:
Oh tu non sai che i binari
ci portano su e giù tutto il giorno
sobbalzando per le strade
di questa città.
Stenti a ritrovare chi possa somigliarti
e sola
t’immergi nella sera
a tessere nell’ombra,
nella solitudine amara,
le storie del passato
perché amaro si compia
il tuo destino di madre.
(da: Un grido tra le mani 1959)

CHE MAI CI LEGA

Porta San Giovanni, fuori le mura
già s’apriva il tuo sorriso
nel moto del labbro voglioso
a scompigliare il verde dei prati
e cercavi nell’occhio un dirupo;
l’arco dell’antico Acquedotto.

Ma sempre eri ferma nel ricordo
alle nostre contrade del Sud,
al caro mondo di campagne
dove lo stelo tra i denti
ha il sapore di mandorla dolce.

Eppure a questi campi venivi
accolta nel vento d’autunno
incontro al tempo che franava
sui nostri anni d’amore.
Oh, il nostro amore più antico
di quelle rovine! Che mai ci lega
a questi archi visitati dal vento,
ai pini che svampano nel cielo,
al tenero sambuco che piega
il midollo sotto il nostro riposo?
Che mai ci lega a questo prato
se altri si adageranno qui
in faccia al tramonto?
(da: Un grido tra le mani 1959)

PER QUALI ALTRE PROMESSE

Tra questo intrico di luci, perdersi
nel respiro delle nebbie avvampate
che appannano il fiato alle parole,
qui, lungo gli umidi viali del Nord,
è come sperdere l’amore nell’insonne
furore delle prime carezze.

Il tuo viso riverso nella notte;
al mio fianco il tuo corpo caldo
e senza frontiere; i tuoi occhi,
nidi d’immagini febbrili,
che viaggiano incessanti nel fragore
lungo i bouulevards lumescenti
nella bruma di fine settembre.

Qui gemono le nostre voglie inquiete:
sui selci dove il passo si fa incerto
per l’erta di Rue du Dragon.

Ma tra poco addio diremo
ai quais ghiaiosi, ai faubourgs senza ricordi:
il Sud prepara le sue notti uggiose
nei nostri quartieri di provincia
dove l’amore è un caldo di ossa
premute nei vicoli ciechi.
Per quali altre promesse ora
riderai all’istante di partire?
(da: Un grido tra le mani 1959)

I MORTI CI SEPPELLIRANNO

Ora bisbiglio sillabe inerti
al tuo udito, quando la notte
ci sfigura e il sonno l’asseconda,
quando innocenza si fa la memoria
nel sogno che inventa la sorte.
Ecco, questo è il tuo viso
e questo il tuo silenzio
esposti al calore del mio corpo
ma nulla v’è che riannodi il giorno alla notte.
E le carezze dimenticate nella mano
rimordono agli anni, al vorace tempo
che dirotta le promesse al cieco torrente
fatto pieno dai nostri giorni dimessi
imparentati all’oblio delle attese.
Oh la vieta stagione di un istante,
quando promettersi la vita era possesso,
quando dare un nome all’angoscia
era un inganno di parole senza senso,
una febbre di immagini assolate
che sazi ci facevano di vita, mentre
nel sangue si quietava il germe dei sensi.
Ora i morti ci seppelliranno, essi
più vivi della nostra morta esistenza,
del nostro inquieto domandarci
se valga o no la pena di raccattare
il bene che ci cade di mano.
(da: Un grido tra le mani 1959)

FORSE UN BATTERE D’ANNI

Dentro la siepe di more ancora stai,
dentro il camice bianco, dentro la striscia
d’ombra,
dentro il seme del mio cuore vagabondo
con la mano levata sul viso
rivolto ai treni che si perdono
nel vuoto dei mattini d’estate.

E il mio sguardo ancora trafigge
il roveto che celava la dissipata
stanchezza degli occhi
nei quali annottavano
calde promesse di diniego.

Sono andate le care date del passato,
i tris d’assi, i duroni alle ginocchia,
gli ignorati amori dello schermo,
eppure sulla traccia di un’istanza
ritrovo tutta l’incertezza
del tuo amore d’allora.

Forse un battere d’anni
basta a farti sera nel ricordo
ma non pensare perduto
nessuno di quei giorni:
chè ai ricordi ancora resiste
il viale dei nostri saluti.
(da. Un grido tra le mani 1959)

CHE SAI CITTA’

Di tanta neve che cade
sulle strade acciottolate e s’illumina
al chiarore di fiochi fanali
che sai città?
Io so di paesi stampati nel cielo
dove l’inverno duole
come il canino che morde la fame,
dove le case basse di calcare,
calde solo di fieno, stanno stipate
attorno ai focolari e gli uomini bruciano
chili di tabacco nero
avanti che il grano
spunti sotto il piede delle pietre.
Io so di paesi, assediati
nel cerchio delle nevi, dove l’amore
dura tutta una notte perché
l’amore arde più degli sterpi:
oh, il livido corpo di una donna
sopra un letto di spigo!
Che sai città, di sofferti paesi dove l’uomo
conserva intatto il cuore
al gelo delle nevi, nelle mani,
odorose di terra boschiva,
stringe un mucchio di sogni
e negli occhi chiari
porta l’ansietà dell’estate?

A quest’ora Barbarella rincasa
con il rosario sotto lo scialle,
rientra il dodge con gli spalatori,
la gente si chiude dietro le porte
ad aspettare il bel tempo
per la luna nuova di domani:
la luna dilagherà sulla tavola
all’ora di cena e farà colmo il tegame.
Il vento si fa strada nel sonno
dei cani che s’asciugano il pelo
distesi sulle stuoie.
Che sai città,
quanto diversa sia la neve
che cade sopra i pini d’Appia Antica
da quella che affoga il sasso
rotolato sopra il seme?

Hai visto in questi giorni
rompere il ghiaccio delle strade
da uomini goffi nei pastrani,
con le sciarpe al collo e i guanti di pelle,
hai visto il gesto crucciato
di chi non sa tenere il badile
ma non sai dell’ampia falcata
dell’arnese che leva nell’aria,
come un’insegna, il braccio nudo.
Ed io ti dirò, ti dirò, città,
che vi sono paesi dove c’è guerra
tutti gli anni, all’arma bianca
tra uomini ed elementi,
tra gli uomini e la fame,
dove s’aspetta la luna nuova
tutte le sere.
(da: Un grido tra le mani 1959)

GIAMMAI DI QUEST’EPOCHE

Nella memoria è il mio presente:
riesumate i morti
che la terra ha dispersi
in solchi profondi,
fermate degli uomini la voce
nel rumore dei giorni.

Da Montesanto a Toledo il tratto è breve
qui ho messo in serbo
i giovedì d’una breve adolescenza..
In fila come i grani d’un rosario,
con i calzoni che la crescita accorciava
e l’oro dei bottoni tra le dita,
trascinavamo la noia
sui cartocci svuotati nella friggitoria
e sull’acqua marginata ai marciapiedi.

A destra il chiostro dei giornali,
(lì sotto si protesse dalla notte
un mio compagno).
Più innanzi l’acquaiola
ingrassava in un camice bianco
ed aveva la voce arrochita.
In alto stavano appesi ai balconi
triangoli rosa e celeste
lasciati ad asciugare
come alle finestre della periferia.
La donna che ci veniva incontro
il giovedì, sempre alla stessa ora
la conoscevamo tutti: usciva
da un postribolo di Vico Lungogelso.

Questo il nostro passeggio domenicale,
lo sporgersi per un’ora alla finestra
che riguardava un angolo di mondo
e scampo non v’era a tanta prigionia.

Il mulatto ci vedeva partire ed arrivare,
nei suoi occhi c’era sete d’affetti
ed impazienza,
mangiava brodo di carote tutto l’anno,
era buono come un negro
ed è morto in sanatorio un anno fa.
Un compagno di banco
a sedici anni era già calvo,
ancora studia medicina e fa il mercante.

Giammai di quest’epoche io perderò
memoria ora che in oscura carne
radicato è il ricordo.
Inesausta la mia vita
si lasciava andare a quei giorni
dietro alle facciate dei palazzi
e ancora d’ignote tracce va in cerca
che mi costringevano i passi
lungo strade assordanti di meraviglia.
(da: Un grido tra le mani 1959)

LA MIA TERRA

Dall’altra parte c’è il torrente,
la pianura mal nutrita delle stoppie,
il mio paese con le strade
sconvolte dal progresso.

Dal treno che s’allunga indeciso
ho visto fermi sulle prode, dove
la mitraglia falciò l’erbe a primavera,
i personaggi dipinti sulle pale degli altari
con il capo eretto come effigi
coniate sopra antiche monete:
sono effigi di re e di tiranni
ad attendere il regno delle messi
che viene dietro alle promesse.
Ho visto le donne proterve e macilente
con i seni penduli sul ventre
accennare ad un saluto nei canti
lenti e sorretti dal fiato della sera,
ho visto le case spente e velate
dietro ai tralicci delle impalcature
e i muri di tufo crescere come ombre
Dall’altra parte c’è la terra gialla,
stremata dalla siccità, ingorda d’acqua,
che risuona sotto il passo, sorda
come un orcio vuoto e incrinato.

Un’ora fa stavo a spogliare
il granoturco dalle foglie e sentivo
i re lamentarsi, con un pugno
di chicchi stenti e malati
nella mano adusa a mendicare.
Un’ora fa ti stavo addosso adagiato,
come sul ventre d’un otre sgonfio
o mia terra, in faccia alla vigna giovane
di un anno ad ascoltare le voci
querule del malcontento e già sentivo,
venirmi dalla gola dei monti, il fischio
lacero del treno che mi porta
sui fiumi che saranno deviati
per estinguerti la sete.

Ora scendo verso le luci pallide
di deserte stazioni ed imparo
il nome dei paesi dalla voce
assonnata dell’uomo che muove
la lanterna ad ogni sosta.
M’incrocio con i fari delle carovane
in corsa sull’asfalto, m’illumino
al bagliore dei falò che tengono desti
gli uomini lungo i pendii e vado incontro
ai bengala della domenica sera,
alle risse nelle cantine

di questa gente che finalmente
ha denaro per ubriacarsi.
Nella corsa che somiglia ad una fuga
mi sfiorano i rami d’acacia
già vicini a nudarsi delle foglie
e, prima ancora che ne stia lontano,
sogno come cosa già perduta
il pane di casa e la parlata
d’una infanzia cui la mente
tien dietro disperatamente perché
questa è la mia terra e qui tornano
gli anni e i pensieri ad ogni fuga:
perché lunga è la memoria
e lungo è il passo che mi tiene lontano.
(da, Un grido tra le mani 1959)

INFANZIA

L’età ha un nome quando le giostre
piantano i pennoni alla periferia
e le altalene si muovono nel vento
per i cieli dei sobborghi.
Dalla garitta del tiro al bersaglio
s’affacciano ricordi sulla corsa
del tempo sprovvisto di riviere
e s’aggrappano mani di fanciulli
agli occhi grandi di stupore
scavati sulla fronte dei cavalli.

Dietro ai carrozzoni della carovana
l’infanzia gioca a rimpiattino,
o mio cuore turbato, e nell’ombra ridesta
ansia di fanciulli e limpidezza di grida
per il dolce carillon delle giostre
nel gorgo delle lente stagioni
(da Un grido tra le mani 1959)

STRADA A MEZZOGIORNO

In questa estate che dura a finire,
a mezzogiorno la strada
andando
me la traccio da me.

Strada che porti al mio podere
ha un peso quest’anno
il bianco che calpesto
perché il sole
è rimasto a far nuvole
di tutto quel fango.
(da: Un grido tra le mani 1959)

QUEL CANTO

Nell’oscurità gli occhi dicono parole
(sweet heart sweet heart sweet heart)
ed hanno il tremore d’acqua mossa
dentro un pozzo profondo.
Ma la bocca indovino
che modula le note:
una sensitiva che vibra
al tatto del respiro.
Le mura sconfinano,
tacciono i suoni,
il canto mi regge nel vuoto
e mi possiede.
(da: Memoria di Lei 1972)
1945

ESPRESSIONE

In una remota esistenza
dovesti inventare il sorriso
che altre nel tempo han mutato.
Ora tu lo ripeti
e solo tu sai come si fletta
la bocca per tacere una gioia:
è questa la magica forma
per esprimere te stessa,
anche quando delira
un vampore sulle guance
che sembran tenute da mesi
nelle notti inviolate dei cassoni,
come il grano per i Sepolcri
del Giovedì Santo.
(da: Memoria di Lei 1972)
1945

FEBBRICITANTE

Il mio nome si è ammalato
sulle tue labbra
che lo dicono piano
come a reggere l’ostia
prima di ingoiarla.
Se ti accarezzo
la mano mi brucia;
se mi accosto
bevo il respiro
affinchè non aliti nell’aria
questo fuoco di febbre
che accende il ceppo secco
del mio cuore.
(da: Memoria di Lei 1972)
1946

UN GIORNO VERRAI

Tu un giorno verrai
attraversando i prati
senza pestare il trifoglio
e schiuderanno gli anemoni
al tuo posto
pur se lontana è la primavera.
Stupirai a vedere
come fiorisca un ciliegio,
ma basterà che lo tocchi
perché la sera calando
mi porti il profumo dissepolto
di cinque petali
che attaccasti sognando,
con le dita umide ancora
di rugiada forse raccolta
in una remota carezza
che facevi al mio penare.
(da: Memoria di Lei 1972)
1946

VIAGGIO NEL DESERTO

Questi miei piedi terragni,
radici nell’uomo, hanno incrociato
meridiani e paralleli, hanno calcato
le strade del mondo
per portarmi incontro a te
gente universa
nella terra desolata.

I

Questi miei piedi dolenti
camminarono tra i cadaveri
nella crudele notte della guerra,
schivarono in pietosi tragitti
i corpi confusi ad altri corpi,
marciarono diretti al Sud
con gli alluci rivolti alle stelle dell’Orsa
come l’ago nella rosa dei venti,
cercando la fuga dal terrore;
la strada della terra buona,
il passo della misura umana
laddove fossero promesse
di libere parole ad alta voce
spartendo il pane con la libertà..
Era il tragico autunno del quarantatrè
e la fuga fu una marcia
di dolorosi ritorni agli spettrali scenari
di città desolate.
Recavo in testa nascosta la morte
e negli occhi l’amore
alle cose guardate.
Voi mi portaste dolenti
camminando sui fiumi d’asfalto
o dentro i solchi dei maggesi
arati dalle bombe,
alla foce della libertà
(da: Viaggio nel deserto 1988(

V

Questi miei piedi d’acqua
modellarono orme nella polvere rossa
lungo i margini delle strade andaluse
dove i muri son così bianchi di calce
che ti vien voglia di scriverci sopra
abbasso il Caudillo;
batterono il flamenco nella grotta della Faraona;
camminarono per il barrio di Santa Cruz;
s’accostarono ai misteri dell’Alhambra;
ritmarono il passo del toro
che impazziva nell’arena
con una falce nera di luna sul capo;
andarono per vieti itinerari
a cogliere simbiosi
di antiche opposte civiltà, ma l’amore,
il mio amore distendeva radici
sul cammino dei gitani
che sfilavano in oscure carovane
di villaggio in villaggio
sotto il sole della meridiana
mentre la partoriente gemeva
sul filo delle fruste
tese per lo schiocco nell’aria.
Eppure cantavano e sognavano
d’essere soltanto gitani, di nessun paese
e di tutti i paesi del mondo,
simboli d’ingenua libertà popolare
che spegne la rivolta
nell’irrequieta dignità nativa.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

VI

Questi miei piedi impazienti
fecero scalo a Praga
quando la breve primavera
era già tutta devastata
e a Piazza Venceslao le transenne
ne arrestarono i passi sulla soglia
di un altare attorno al quale ognuno
protendeva una invisibile rosa.
Innanzi al vuoto del futuro
ingigantiva il passato
nei restauri amorosi
d’antiche statue barocche
che spiavano con bocche mute la vita
sui ponti, per le vie, dovunque
la storia fosse testimone
di remoti fastigi boemi.
La bella dorata città dalle cento torri
s’accartocciava nelle volute
dei suoi rococò, chiusa dentro l’ordito
dell’arazzo che le strade disegnano
attorno alle sinagoghe deserte.
Mentre Zdenek Prihoda moriva
le colombe si spiumavano in volo
con verticale terrore nelle ali
e le ore battute sulla Piazza Vecchia
annegavano nella Moldava
assieme alle saltellanti antiche
marionette della torre bruciata.
La sola gioventù per quelle strade
nitriva d’amore come bionda puledra
e le sfere dell’orologio del ghetto
ruotavano a rovescio.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

VII

Questi miei piedi penitenti
hanno strisciato sugli assiti
nel crepuscolo delle chiese,
hanno percorso sinagoghe e moschee
in tortuosi itinerari per condurmi
a sciogliere e comporre l’assoluto.
Ma da quali vetrate discesero
le serene presenze della speranza,
filtrate dall’occhio aperto di Dio,
sulla mia strada inquieta?
A Strasburgo, a Colonia
alla Sainte-Chapelle, a Saint-Severin
la grazia pioveva in policromi riflessi
nel buio delle arcate dell’anima mia
che non riusciva a tendere l’ogiva
fino ai gotici slanci delle sue cattedrali.
La speranza, o Signore, l’ho ritrovata
nelle voci bianche che delirano Bach,
nella Passione secondo Matteo
e a pochi passi da casa nel tuo volto
impassibile senza odio né collera,
nel solenne gesto delle braccia
levate ad abbracciare il mondo
dall’alto della Cappella Sistina
sul mio corpo nudo di uomo
stremato per il lungo viaggio nel deserto.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

LETTERA DA VIENNA

Potrei descriverti
l’incerto colore del Danubio
la Foresta che assedia la città
vista da un tavolo del Kahlemberg
o dirti a quanto acquisto uno scellino.
Ti scrivo invece che nel cuore dell’Europa
forse
ho incontrato il nemico
che mi braccò per tutta una notte
con il mitra sotto l’ascella.
E’ l’uomo del cantiere
che mi viene incontro
con gli occhi chiari
pieni ancora del sole dei nostri paesi
e le braccia inermi lungo il corpo;
sotto la tuta celeste
mi somiglia come un fratello,
taciturno mi sta accanto
nel lento giro della Riesenrad
o canta in coro con me
nella bettola del Grinzing.

Ora siamo tornati
alle tranquille stagioni,
ognuno porta sul petto
la stessa croce che piantammo
sul cumulo che copre
le ossa disfatte del nemico
freddato dietro la siepe;
il soldato disperso
nella valle di Macchia d’Isernia
che vidi ucciso lungo il ruscello
aveva lo stesso sorriso
del fattorino che oggi
mi stacca il biglietto lungo il Ring.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

L’ACQUA DU HUDSON

Al quattordicesimo piano
della cinquantottesima strada
in una stanza del Manger Windsor Hotel
l’acqua dell’Hudson
sale implacabile
assieme ai rifiuti di questa città
e vi annegano
-tutti i giorni vi annegano-
gli uomini
da solitudine ossessi
che stanno a costruire il futuro
senza un passato
da amare o negare.
Sale da Harlem
cheta come l’inedia,
torbida come gli stupri,
vorticosa come l’ebbrezza
ed è nera come la pelle dei negri,
bianca come la cornea dei negri,
rossa come il sangue dei negri.

A Broadway si beve ghiaccio e bourbon
misto all’acqua dell’Hudson
e le insegne che incendiano la notte
si spengono come candele;
a Wall Street lava i cervelli
alla finanza degli Stati;
al Rockefeller Center
si fa asettica nelle provette;
al Palazzo di Vetro gorgoglia
nella gola dell’ultimo oratore;
a Bovery disseta ladri e accattoni.

L’acqua dell’Hudson
sale ed invade Manhattan.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

LASCIAMO MANHATTAN

Nel quartiere di Queens
un’ora d’amore
costa dai venti ai tenta dollari;
nel Bovery, invece, al suicida
che non potrà mai comprare
la conoscenza di un uomo influente
ne bastano tre per una corda.
Ma nessuno sa dirmi
quanto costi l’ingresso
nel mondo dei banchieri.
Perciò
la folla s’accalca
nell’imbuto dell’Underground,
corre per strade
senza mai voltarsi,
passa i ponti
da una riva all’altra.
Perciò.
E’ perché in cima alla corsa
c’è il sorriso di Lincoln
stampato sulla carta moneta
per comprare
rivendere e comprare
il benessere
che qui chiamano happiness

Lasciamo Manhattan!
Lasciamo Manhattan!
Ma se usciamo dai coni d’ombra
che proiettano i grattacieli,
se attraversiamo i ponti
sospesi nella chiarità
spietata della luce,
ci troveremo soli
negli opachi quartieri di Brooklin.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

ANTICA STRADA DI DENTRO

Verrò sempre a rivederti
antica strada di dentro al paese
che solchi contorta le case
e ti incroci con vicoli grigi.
Lì in quel punto preciso
all’ora del vespro
quando tornai da soldato
incontrai mia madre
chiusa in un velo di dolore
che andava per le chiese
perché mi credeva perduto.
Lì in quel punto preciso
nell’abbraccio le dolsi il costato
rotto dal lungo palpitare
e le buttai al collo
le innumeri ore di marcia
e tutti i giorni passati
lontani dal suo amore.

Il sangue suo mi fluiva nel corpo
mentr’ella di sofferta gioia
partoriva un altro figlio.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

LA CONGREGA DEI MORTI

Di tempo in tempo vengo
alla congrega dei miei poveri morti
che la memoria ritrasse
nel più malinconico giorno di vita
quando, inconsapevoli,
cominciarono a morire tossendo.

Ammonitore è il gesto
se la mano percuote
la lastra di marmo
che umilia i nomi
e sigilla parole
brevi o lunghe di vita;
temeraria è la domanda
quando insinua a quali approdi
giunga il volo della morte
ed è vano scrutare
nella notte delle loro dimore
per assistere
alla dissoluzione dei corpi
incorrotti soltanto
nel nostro sovvenirli.

Siamo in pena per voi
ma forse più benigna è la sorte
in quel mondo oscuro
che recide il filo delle stirpi
aspettando
d’altra vita il simposio
nell’ossario
del campo di Ezechiele.
(da: Viaggio nel deserto 1988)

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Nato a Venafro (Isernia) nel 1922, e laureatosi a Napoli nel 1947 in Giurisprudenza, Gennaro Morra vive a Roma ed è stato dirigente generale presso la Presidenza del consiglio dei ministri. Pubblicista e collaboratore di periodici letterari e di quotidiani. Ha scritto numerosi saggi dedicati al Molise e prevalentemente a Venafro, massimamente contenuti nelle edizioni dell’Almanacco del Molise (1975-1982) e in riviste storiche specializzate: (Samnium, Campania Sacra, Studi Storici Meridionali, Archivio storico del Sannio ecc.), nonché uno studio particolareggiato sugli avvenimenti circoscritti all’abbazia di San Vincenzo al Volturno, e ancora Una dinastia feudale: I Pandone di Venafro nel 1985, Il castello di Venafro nel 1993, in collaborazione con F. Valente e Venafro nel 1996 con S. Capini e D. Catalano.L’ultimo suo lavoro, Storia di Venafro dalle origini alla fine del Medioevo, è uscito di recente (Edizioni di Montecassino 2000), con una prefazione di Errico Cuozzo, oedinario di Storia medievale nell’Istituto Universitario” Suor Orsola Benincasa” di Napoli.
Per la poesia ha scritto cinque sillogi: Solstizio D’estate, Gastaldi Editore 1951, Parole udite domani, Schwarz Editore, 1953, Un grido tra le mani, Rebellato Editore, 1959, Memoria di Lei, in edizione privata, e con lo pseudonimo di Andrea Morghen Roma, 1972; Viaggio nel deserto, Firenze Libri, 1988. Sue poesie sono apparse in La Fiera Letteraria, Momenti, Situazione, Poesia Nuova, Quartiere, Quinta Generazione, Prospetti. E’ stato segnalato al San Babila 1950, ed ha vinto a Firenze il Premio La Soffitta 1956.
Si sono, tra gli altri, interessati alla sua opera E. Falqui, B. Battistini, T. Tiglio, E..F. Accrocca, C. Conti, E. Mazali, A. Paolini. Sue poesie sono in: Prima antologia dei poeti nuovi, Edizioni della Meridiana, Milano 1950; Seconda Antologia dei poeti nuovi, Edizioni della Meridiana, Milano 1951; Il Presente, Poesia e Critica, a. II°, n. 7 -1953, Poeti italiani del secondo dopoguerra a cura di M. Cerroni, Labor Arti Grafiche, Roma, 1955; La selva dei poeti a cura di L. Peretti, Editrice Volere, Firenze 1955; La giovane poesia a cura di E. Falqui, Editore Colombo, Roma, 1956; Poeti italiani del secondo dopoguerra con premessa di M. Apollonio, Miano Editore, Milano 1956; Il secondo 900 di C. Bettelli, Editore Amicucci, Padova 1957; L’istanza realista e sociale nella giovane Poesia Italiana di R. Manelli in La giovane poesia italiana e straniera, Edizioni del Fuoco, Roma 1959; Legittimità e limiti della giovane poesia sociale di G. Zagarrio in idem; Poesia abruzzese del 900 di G. Sgattoni, Editrice Quadrivio, Lanciano 1961; La Cultura delle regioni, Abruzzo e Molise, di Tommaso Di Salvo e Giuseppe Zagarrio, Ed. La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967; Studi di poesia e di critica di A. Frattini, Marzorati Editore, Milano 1972; Novecento letterario italiano di E. Falqui, vol. 5°, Vallecchi Editore, Firenze 1973; La poesia neorealista italiana di S. Turconi, Mursia Editore 1977; Poeti Molisani, a cura di Titina Sardelli, Editrice Marinelli 1977; Poeti in Abruzzo e Molise di G. Porto in Inchiesta sulla Poesia, Edizioni Bastogi, Foggia 1978; Oltre Eboli: La Poesia, La condizione poetica tra società e cultura meridionale- 1945-1978, volume primo, a cura di Antonio Motta, con interventi critici di Carlo A. Augieri, Introduzione di Leonardo Mancino, Lacaita Editore 1979, Il Neorealismo nella poesia italiana 1941-1956 di W. Siti, Einaudi Editore, 1980; La poesia nel Molise, Quinta Generazione. anno. IX 1981.gennaio-febbraio nn. 79-80, a cura di Mario M. Gabriele; Poesia e regione in Italia, Istituto Propaganda Libraria 1983, di Alberto Frattini, Cronache Lucane del 10 novembre 1988 di Francesco Marotta, Poeti molisani d’oggi: appunti per una campionatura di Luigi Fontanella su Misure Critiche, nn. 68-69, anno 1988, La Stanza letteraria di Luciana Argentino, 15 giugno 1990; Letture di V. Rossi, Edizioni Il Ponte Italo-Americano, New York 1993; Letteratura delle regioni d’Italia —Storia e testi- Molise- di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli, Editrice La Scuola, 1994, Poeti Molisani: tra rinnovamento trasgressione e tradizione, Nuova Letteratura 1998, a cura di Mario M. Gabriele, La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea, Nuova letteratura 2000, a cura di Mario M. Gabriele.

SINTESI CRITICHE

“Poesia già matura e temprata nella idonea esperienza degli accordi interiori, perciò serenamente composta, elaborata. Classica nel tono armonioso e dimesso, moderna negli accostamenti di stile e di immediata spontanea capacità espressiva….”(M. Apollonio)

“Egli sembra non dipendere da nessuno e la sua voce è un singolare esempio di severità, di compostezza e di ardita solitudine. Niente drammi, niente coralità, niente svolazzi, niente oscurità ma solo un verso articolato semplicemente, aspro e a volte sassoso come la sua terra del Molise, arido come le cime piatte e desolate dei suoi monti. Anche il suo dolore è attenuato entro i limiti di una denuncia senza niente di retorico. Il fascino di questa poesia sta proprio lì, in quel coraggioso smorzare i toni forti, in quell’accontentarsi degli accordi più scarni e dimessi”. (A. Paolini)

“Il suo primo volume di versi è sulla scia del gusto novecentesco. Col secondo libro egli entra nell’area neorealista sviluppando i temi della miseria e dell’arretratezza dei contadini meridionali espressi in un linguaggio discorsivo ma carico di suggestioni letterarie”. (S. Turconi)

“La poesia di Gennaro Morra è costruita su una ”bipolarità” di equivalenza tra folclore e “meridionalismo” in modo pertinente ed intrinseco; ne consegue che ogni immagine tipica della cultura della povertà si completa sul piano del “significato” solo se posta accanto al corrispettivo tematico di una simbologia “sociale”. (C.A. Augieri)

“Fuori dagli schemi fissi e gratuiti la sua poesia immediata ed intensa scava nella miniera di una civiltà apparentemente stanca ed esausta, ci sa dare una immagine appassionata e convincente, veramente, degna di essere conosciuta”. (G. Cremaschi)

“La misura più vistosa di questo Sud di Morra è l’elegia, come accettazione e rimpianto della terra dei padri. In questo senso è più vicino a Quasimodo, a Sinisgalli, a Gatto. In questo senso il Molise è un’arcadia di memorie”. (A: Motta)

“Morra resta fedele, nei liberi moti del suo canto, alla terra dei padri, alle sofferenze, alle miserie, alle speranze dei suoi corregionali, in una testimonianza felicemente equilibrata tra umana partecipazione e ansia di riscatto”. (A. Frattini)

“Gennaro Morra può di diritto includersi tra le voci più apprezzate che l’Abruzzo ha dato, tra il 45 e il 60, alla ”giovane poesia” italiana (A. Frattini)

:….E’ una poesia aspra e forte, con accenti scabri, con toni di concisione, con modernità di movenze: una poesia che lascia un solco in chi legge, che attira per una sua racchiusa forza umana, per un suo preciso impegno di canto, che rifugge da edulcorate finezze, per scavarsi, rude e sofferto, nell’anima”. (P. Raimondi)

…..La maggior forza di suggestione (e di persuasione) deriva proprio da questo lessico arido e violento che gode della straordinaria proprietà di aprire improvvise e folte risonanze: sta proprio nella forza di certe cesure, di tutto il ritmo “interno” che sorregge e guida l’operazione di questo poeta….”(D. Menichini)

“Gennaro Morra è uno di quei poeti che non ci stancherebbe mai di conoscere meglio, per quella istintiva virtù verso una tipizzazione lirica nutrita di acuto e sincero amore alle cose, per quella riscoperta di una realtà umana, attraverso i suoi racconti emotivi, di singolare validità e a carattere e contenuti di presenza e memoria”. (D. Cara)

“C’è un’oggettivazione quasi umana, fraterna di cose, come di persone che vivano e soffrano; è dolorante realismo che geme in versi scabri, dove si sente il soffocato singhiozzo, l’affanno di una “terra di pianto nato da occhi aperti a sorrisi di dolore”. Leggendo questi versi si prova la stessa impressione che si ha davanti alle sofferte figure umane ritratte da Carlo Levi” (Oronzo Giordano)

“Il canto di G. Morra (Parole udite domani Schwarz, 1953), affonda le sue radici nella terra dei padri, il Molise, ed è tenuto su una vena di malinconica sospensione tra il desiderio di fuga dalle “strade catramate” della città e la coscienza della drammatica miseria contadina.
La protesta sociale assume una forma accorata, descrittiva, immediatamente accessibile per la popolarità dell’immagine e la semplicità della paratassi”. (Giuliano Manacorda in Storia della letteratura italiana contemporanea 1940-1996)