Poeti molisani tra rinnovamento, trasgressione e tradizione (1998)

PRIMA PARTE
 

PREMESSA

Non sono poche le antologie che nel corso del Novecento hanno documentato le ipotesi di poetica e le teorie critiche di Gruppi e correnti letterarie, sottraendosi, il più delle volte, ad impegni storiografici di più ampio respiro. Il fatto è che oggi si tende a porre l’attenzione al carattere specifico di un certo periodo, cioè alla poesia come situazione d’insieme, come genere e stile culturale, (Parola plurale p.10, Sossella Editore, 2005), grazie anche al supporto di una critica che si subordina alle esigenze del mercato e dei mass-media. (Romano Luperini, Breviario di Critica). Se a tutto questo, aggiungiamo le scelte soggettive dei compilatori, più propensi ad addentrarsi negli eventi poetici del postmoderno, reiterando linguaggi già conosciuti, allora, le operazioni riguardanti le cosiddette periodizzazioni, finiscono col coinvolgere anche il capitolo delle omissioni e delle esclusioni dei poeti di altre regioni, che hanno un proprio underground linguistico, per il quale tanto più grande è l’interesse, quanto maggiore è la coscienza che la storia, nei confronti di tanta produzione valida (anche se nell’area dell’epigonismo) ma ignorata, non farà mai giustizia se non in casi sporadici.(da: I poeti della Quinta Generazione nelle Regioni d’Italia, Forum, Forlì).
Nel ridisegnare la “mappa” della poesia molisana, dopo le prime antologie regionali, apparse come documenti esploratiivi, a metà strada tra il Rinnovamento e la Tradizione, ci pare giusto ampliare alcuni “confini” non perlustrati precedentemente, perchè “pur aspirando ad esserlo nessun antologista è onniscente. La sua parzialità, che lo voglia o no, è quindi inevitabile. E’ essa, in fondo, a costituire l’unica patente di nobiltà di quella presuntuosa operazione che è l’allestimento di una antologia”.(Mario Lunetta in Poesia italiana d’oggi, Paperbacks, Newton Compton Editori, Roma, 1981), vale a dire il censimento linguistico su diverse aree di ricerca, al fine di proporre nuovi aggiornamenti poetici, che andrebbero sicuramente smarriti se non si procedesse ad una costante catalogazione dei vari momenti letterari, così eterogenei e complessi tra di loro, che hanno costituito, a partire dagli anni Sessanta, quella enorme torre di Babele all’interno della quale non sono mancati indirizzi operativi, per l’affermazione di un sistema linguistico alternativo alla Tradizione.
In questo ambito nasce e si sviluppa nel Molise “una generazione di intellettuali che, presa coscienza della propria marginalità non sente più questa condizione come subalterna all’egemonia letteraria nazionale.
La loro ricerca pur arricchendosi naturalmente della Stimmung popolare non si dispiega più in chiave mitica e terragna, ma spesso in posizione dialettica, attiva e contestativa del colonialismo letterario cui per tanti anni sbrigativamente (e cinicamente) i detentori del monopolio culturale volevano ridurla” (Luigi Fontanella su “Poeti molisani d’oggi: appunti per una campionatura” su Misure Critiche, nn.68-69, anno 1988).
Si tratta in specifico di un collettivo linguistico che attraverso tematiche sociali, metafisiche, cosmiche, ed esistenziali, tenta di decifrare i segni di culture diverse fino a connettersi nei meandri verbali della Neoavanguardia, con le sue forme scissioniste e iperattive. In questa complessa operazione in progress del significante, la critica ha operato per “appunti” e per “campionature”, appena sfiorando i molteplici e significativi segnali di trasformazione semiologica che, attraverso testimonianze esemplari, venutesi ad accumulare nel corso degli anni, hanno determinato una linea di “resistenza” verso i metodi linguistici dominanti nel territorio, con un’operazione anche “rivoluzionaria” se si vuole considerarla tale, ma sicuramente operativa sul piano dei contenuti e delle proposte verbali, che sono l’unica eccezione di autentica progettualità anche in assenza di un preciso statuto d’identità, difficile a reallizzarsi dopo lo spostamento in avanti della ricerca verbale.
Più in generale si dovrebbe ampliare il discorso intorno alla nuova poesia e ad una eventuale – linea regionale -, verificando la “Meridionalità” anche in quei poeti che hanno espresso una diversa realtà socio-culturale
o che hanno approfondito nuove tematiche attraverso il recupero del “paesaggio molisano” visto come luogo di sollecitazioni psicoespressive all’interno di un contesto linguistico, che ha trovato i suoi agganci con le altre aree nazionali e internazionali, dopo la fine del mito e dei valori della “civiltà contadina”, validamente espressi dai poeti dell’area rondista, neocrepuscolare ed ermetica.
Di fronte ad un contenitore linguistico poetico, fortemente operativo e ai – precari equilibri- di cui parlava Luciano Anceschi, per la sistemazione storica di una esperienza letteraria, anche la poesia molisana, non poteva che rimanere ai margini della cosiddetta -sospensione di giudizio- che ha interessato sia la produzione letteraria del -centro- che della- periferia-..
Da qui la necessità di cogliere alcuni aspetti della poesia molisana rimasta per lungo tempo a luci spente -, in una —riserva letteraria,- che sopravvive soltanto di autopubblicazione,senza possibilità alcuna di collegarsi con il mondo editoriale nazionale, fossilizzandosi nella emarginazione e nelle omissioni repertoriali, sebbene un’indagine in tal senso, sia stata da noi, già pubblicata con La parola negata (rapporto sulla poesia a Napoli) dove”ci s’interroga e si cerca di dare una risposta ai motivi socio-culturali dell’esclusione dei poeti campani, e dei napoletani, in particolare, dai regesti nazionali della poesia coinvolgendo in questa operazione i poet di tutto il Sud”.come rileva G.B.Nazzaro nella sua antologia: Poeti in Campania -1944-2000- Marcus Edizioni 2006, pag.178.

RETROSPETTIVA CULTURALE

(1) Le componenti di emarginazione e di isolamento, coagulate intorno alla miseria delle aree interne, al di fuori di una cultura imprenditoriale, che sarebbe venuta con ritardo nel Molise, negli anni Settanta, con l’insediamento del Gruppo Arena a Boiano, della Holding IT a Pettoranello, della Fiat a Termoli, oltre ad un fitto nugolo di piccole e medie imprese sorte a Venafro e a Pozzilli, hanno contribuito a determinare nella regione, una poesia depositaria di valori inattaccabili, tanto che l’elegia e l’arcadia finiscono con l’essere i motivi fortemente egemoni di uno “specifico Parnaso rimasto a lungo più in ombra a causa dello stretto legame che subordinava non solo la gestione amministrativa ma anche la vita culturale di quest’area regionale con popolazioni di frequente accomunate dalle sofferenze di secoli di oppressione, di sottosviluppo, di sfruttamento, sì che in comune risulta l’anelito all’affrancamento di tante piaghe sociali che si traspone nella coscienza e nella voce dei poeti in un comune afflato religioso”. (Alberto Frattini Poesia e Regioni in Italia, Istituto di Propaganda Libraria, pag. 120, 1944-1983)
Su codesti dati nasce nel Molise un meridionalismo poetico d’impronta conservatrice, che rimarrà a lungo testimonianza della letteratura della civiltà contadina, con opere fortemente rappresentative di una realtà fatta di precarie illusioni, con i temi dell’ emarginazione e della povertà, tra pregiudizio e passivo fatalismo, sacro e profano: tutti motivi che hanno fatto da sfondo ad ogni poetica e romanzo storico, per coglierne le diverse realtà esistenziali, e individuare le ragioni dello squilibrio economico tra il Nord e il Sud d’Italia, e della ben nota — questione meridionale -.
Per questo motivi non esitiamo a definire tradizionali gli scrittori e i poeti molisani, che nell’ambito delle correnti letterarie del Primo e della metà del Secondo Novecento hanno denunciato il loro isolamento, traducendolo in un’avvilente condanna sociale, senza determinare reazioni ideologiche e culturali di sradicamento dal loro status esistenziale.

ARTURO GIOVANNITTI

(2) Indiscusso interprete della realtà del mondo contadino e delle esigenze di una classe operaia emarginata dal potere centrale, è Arturo Giovannitti, (Ripabottoni) (1884), che “nasce poeta nei paraggi della —lirica sociale- di fine Ottocento: Carducci e Rapisardi, Guerrini e Costanzo”. Ma l’esperienza in America (dove il suo genio fu prontamente riconosciuto, tanto che Louis Untermeyer lo incluse nel 1919 in The New Era in American Poetry), e soprattutto il passaggio alla lingua inglese diedero al suo stile una strepitosa accelerazione in senso sperimentale, e sia pure entro i confini di un linguaggio che, data anche la materia specialmente proletaria, prediligeva i toni enfatici”. Giovannitti fu un personaggio mitico, centrale nella grande esperienza del sindacalismo internazionalista e rivoluzionario degli Iww, gli Industrial Workes of the World, i cosiddetti wobblies, che fino al terrore rosso, diffuso dopo la Rivoluzione d’Ottobre guidarono negli Stati Uniti i grandi scioperi degli anni Dieci. (Francesco Durante da Corriere del Mezzogiorno, pag. 12, del 26 giugno 2005), Per questa sua attività di sindacalista, Giovannitti patì il carcere, lasciandoci un testo, che qui riportiamo, e nel quale rivive questa sua esperienza. Della sua attività di poeta rimangono due sillogi: Parole e sangue, Cosmo Iannone Editore, Isernia, 386 pagine, 16 euro, e Quando canta il gallo, Il Grappolo, Mercato San Severino, 258 pagine, 15 euro. Ma Giovannitti è anche poeta di sinceri affetti familiari. Questi esiti li troviamo nella lirica: “Il boccale” del volume “Quando canta il gallo”.

Amor mio dolce, oggi è San Martino,
le noci sono cotte e i fichi secchi.
Già stride il primo ceppo là sui vecchi
alari ed ogni mosto si fa vino.

Vieni! L’inverno già scende i sentieri
del monte; io alla pipa mia di canna
torno e a rilegger sulla vecchia scranna
vecchie storie di vecchi novellieri.

Vieni dunque, le castagne sono cotte:
andiamo giù a spillare il vin novello-
tu tieni alto il boccale, io col succhiello
cercherò il cuore dell’antica botte.

Con “Nenia sannita”, dal ritmo cullante e ipnotico, Giovannitti firma il suo primo manifesto rivoluzionario, elevandolo a simbolo della problematica meridionale e a disegno libertario più ampio delle sue battaglie civili e politiche:

Sei nato di marzo come il rondone,
come la rosa canina e l’agrigna
mora dei rovi e delle fratte.
Chi se l’ha letta la stella maligna,
chi te l’ha detta la mala fortuna?
Il mago zoppo t’ha rotta la cuna,
la fata gobba t’ha tolto il latte,
e il prete ubriaco che t’ha battezzato
t’ha messo sul capo la mano manca.
Il mio braccio s’è addormentato
ma tu non hai sonno ed io sono stanca;
tu hai freddo ma il fiato mi si è gelato,
tu hai fame ma secca ho la mammella.
Ninna nanna, animuccia mia bella,
Dormi per mamma che ha tanto vegliato.

……………………

Core di mamma, il tuo giorno è venuto,
non mi mancare ma sentimi e bada:
l’ostia sacra è pasta di grano,
il Re è di carne come il villano,
la ronca è di ferro come la spada,
questo ti dico e questo ti canto.
E se mi campi di lacrime e pane,
crescimi forte, non crescermi santo,
zanne di lupo e cuore di cane,
non mi morire di morte infame,
non mi morire servo o soldato
come tuo nonno, tuo padre e me.
Ma per il padre che t’hanno scannato,
per questo ventre che t’ha portato,
per queste mammelle che t’hanno allattato,
muori in galera, muori dannato
scosta via l’ostia e roncola il re.
Ninna nanna, cuor mio desolato,
ricordati mamma che muore per te.

“Giovannitti fu il bardo della libertà della rivolta: fu un uomo ammirevole per i sinceri e forti sentimenti: dotato di un grande cuore, divorato da un desiderio di bellezza e di beneficenza: ma a lui la Natura non concesse mai di poter raggiungere nel regno delle parole quei ritmi che come una sonda toccano il profondo della vita umana….. Egli fu e rimane un esemplare pittoresco dello stadio che le masse lavoratrici dell’industria americana….attraversarono cinquanta annifa”. (Giuseppe Prezzolini, da Il Tempo, 1964).

Il volume del Grappolo, prefato da Francesco D’Episcopo, riproduce la silloge messa insieme nel 1957 dagli amici de La Parola del Popolo di Chicago. Il volume di Iannone, curato da uno specialista della materia come Martino Marazzi è corredato dalle testimonianze- in presa diretta- del poeta Joseph Tusiani. Altri interventi su Giovannitti sono riconducibili allo stesso Francesco Durante nel suo capitolo Italoamericana, pubblicato da Mondadori.

COLUI CHE CAMMINA

Al di sopra del mio capo, odo il rumore dei passi,
tutta la notte.
Avanti e indietro; vanno e vengono….
Ancora….ancora….ancora….
Tutta la notte; tutte le notti…..
Un’eternità nei quattro passi che vanno; un’eternità
nei quattro passi che tornano e nei brevi,
sempre
uguali intervalli, pesa il Silenzio, la Notte, l’Infinito.
Ché infiniti sono i nove passi di una cella di prigione,
e senza fine è la marcia di colui che cammina,
tra i muri di mattoni gialli ed il rosso cancello di ferro
ingenerando pensieri che non si possono ammanettare
che non si possono segregare, perché errano lontano,
nella luce solare del mondo, ed ognuno di essi va
peregrino verso la meta del suo destino.
T’imploro, fratello mio, perché sono assai stanco
di udire e contare i tuoi passi, e non mi reggo
più dal sonno.
Fermati, riposa, dormi fratello mio, ché l’alba è
assai vicina e non è soltanto la chiave che può
riaprirci il cancello.

LAURA VITONE

(3) Voce estranea dal contesto generale della poesia rurale, è certamente quella di Laura Vitone, autrice di due plaquettes di poesie: La notte della luna, Pellegrini. Cosenza, 1973 e Lettera immaginaria, Forum, Quinta Generazione, Forlì, 1982, con le quali l’autrice si inserisce in un circuito poetico, domestico e antiborghese, nel quale trova ampio spazio una visione appartata della vita con la casa eletta al centro di un mondo minore, luogo di poesia e di estraniazione, inventario di oggetti fissati nel tempo come certe immagini da dagherrotipo.
Il Molise è visto come un paesaggio al plenilunio, tra meriggi e solitudini e duri inverni, mentre le stagioni passano e si fa appena in tempo a scrivere agli amici qualche lettera immaginaria dalla vecchia casa di provincia, con le suppellettili consunte e il vecchio guardaroba: tutto un repertorio di piccola oggettistica che affiora dal quotidiano, tra gestualità ripetute e piacevole contemplazione, dove trovano posto: la stufa e la tavola sparecchiata, lo specchio appannato e il quadro alle pareti, le stoviglie e l’orologio, le piantine sui davanzali e i cari libri, fino alla estrema dichiarazione” mi piacciono le cose in disuso,/ i vestiti fuori moda;/ le tazze un poco sbrecciate,” con l’improvviso recupero delle immagini esterne:” Dalla finestra guardo le stagioni,/ i viandanti, l’orologio del campanile./ Tra le braccia serro una canzone;/ un verso, mentre v’è sempre/ un cesto pieno di cose da rammendare;/ le pentole e la polvere” il tutto in una atmosfera crepuscolare e guidogozzanniana della vita, appena rischiarata da mezze luci, negata alla gioia e ai momenti sereni.
C’è nella poesia della Vitone un compiaciuto amore verso le cose passate e ingiallite, una visione grigia della realtà che ci ricorda da vicino Moretti e Corazzini.
A giustificare questa situazione psicologica è la stessa Vitone quando afferma:”Spesso penso che sono nata nel secolo sbagliato, perché amo tutto ciò che ha a che fare con l’Ottocento: i libri, la cultura senza stravaganze, tersa e profonda, le vecchie case, i mobili, efficienti e senza stile, le cucine fumose…gli ameni pettegolezzi delle nonne sulla soglia delle case, il tranquillo godimento delle cose semplici”
Allora si potranno meglio comprendere certi percorsi poetici, portati avanti in forma diaristica alla Emily Dickinson e le ragioni stesse di questa poesia che cerca il passato più che il presente.

LE CARE VOCI E I PASSI PERDUTI

Le parole che furono dette
e i pensieri che noi solo sappiamo,
quello che ricevemmo più di quanto demmo,
i desideri appena evocati
e i sogni mai raggiunti,
ciò che incominciammo e mai terminammo,
la trepidazione delle vigilie,
l’antica gioia e l’antica noia,
la pioggia sui viali,
l’aurora che tinge il mondo
e la notte che dilegua
dalla porta grigia,
le piantine sui davanzali,
il pane il vino la tavola e la dolce dimora,
il cielo ridente, il cielo fosco,
le care voci e i passi perduti
e tutte le cose ora senza importanza
se appena le ricordiamo
vagano per le contrade deserte
come vecchi fantasmi.

FRAMMENTI

Comprare stoviglie al mercato,
rinnovare il guardaroba,
annotare le spese
mentre l’orologio sgrana le ore
e il giorno se ne va.
Ma non amo ricostruire:
mi piacciono le cose in disuso,
i vestiti fuori moda,
le tazze un poco sbrecciate.

UN GIORNO CHE NON SO

Un giorno che non so
la luce resterà dove trascorse,
vedrò sui prati
la brezza muovere l’erba
come piccoli piedi
in una corsa irriflessiva,
gli alberi avranno tutti gli uccelli
della mia infanzia,
ma non un grido o un rimpianto,
la vita è già nell’altro versante.

Un giorno che non so
annuncerà la nebbia che non vedo.
Voci che non sento
racconteranno una storia
e nella stanza ove non sono
qualcuno accenderà le candele
per il mio piccolo sonno

RADICI E HUMUS DEL PAESAGGIO MOLISANO

(4) Più vicini ai temi della civiltà contadina, e del rapporto dicotomico tra città-campagna, sono i poeti Giuseppe Jovine, 1922 (Castelmauro), Vincenzo Rossi 1924, (Cerro al Volturno), e Nicola Iacobacci,1935 (Toro), i quali tentano di ricostituire nuove radici ed humus, eleggendo il paesaggio molisano al centro delle loro emozioni, che si immettono sul territorio delle occasioni poetiche, tra presente e passato, con una tensione fortemente istintiva e orfica, della vita e della realtà.
Alla luce delle correnti letterarie succedutesi nel tempo, appare evidente che la linea poetica, da universo immobile, adottata da Jovine, Rossi e Iacobacci, finisce col rimanere lontana da qualsiasi innovazione linguistica o di parapoesia sperimentale, per la loro scelta nel restare fedeli alla cultura da piccolo borgo, mentre l’evoluzione della Forma in Italia, nel momento in cui questi poeti operavano, subiva notevoli cambiamenti con l’Avanguardia e i gruppi letterari scissionisti.
Il risultato è un omogeneo quadro di ricognizione sul territorio, produttore di occasioni poetiche, che spaziano nei meandri del ricordo, dove si ricompone il passato, trasfigurato in una grazia descrittiva e parnassiana, dentro la quale sfumano soffusi melodismi, e libere evocazioni del territorio e del paesaggio.
Tutta la vicenda umana e letteraria degli scrittori meridionali va collocata in un quadro di confronto ambientale e di legame personale con un mondo di miserie, di oppressione, di superstizione e di immobilità per poter comprendere l’essenza della loro intelligenza e gli esiti della loro fantasia: Alvaro e Jovine, Silone e Sciascia, ma anche Verga e Pirandello non si sottraggono, come tutti gli intellettuali meridionali, a una lunga vigilia di delusioni e di dubbi prima di pervenire ad un modello di certezza ideologica e di acquisizione culturale. (Pompeo Giannantonio, Rocco Scotellaro, Mursia, 1986, pag.65).

GIUSEPPE JOVINE

(5) Attraverso una corrosiva espansione ideologico-poematica legata alle vicende esistenziali e sociali del mondo rurale e urbano, dove si colloca il sentimento d’amore per la propria terra e per la donna amata, si realizza l’esperienza poetica di Giuseppe Jovine che, col volume Tra il Biferno e la Moscova, Cartia Editore, 1973, perviene ad una visione di vita meridionale nella quale gli affetti familiari e i luoghi dell’infanzia si riaffacciano prepotentemente, con tutta una vasta terminologia mitica, che si rifà alla memoria e all’amore del proprio paese. Poeta dalle multiformi aggregazioni psicologiche e culturali, coglie con amarezza ma anche con delicato pudore, tutta la realtà del vissuto quotidiano, dove spesso entrano a corte la nostalgia della civiltà contadina e la forza dell’impegno civile, che ritroviamo anche nei suoi racconti.
Jovine ha svolto anche attività politica, pubblicando saggi e racconti e un prezioso volume in dialetto molisano: Lu Pavone, Edizioni Enne, 1983, con una nota di Tullio De Mauro; un’opera che si allinea alla tradizione poetica meridionale che fa capo a Rocco Scotellaro e Albino Pierro, ed ha stretti legami con la tragica realtà storica e sociale del Sud. (Walter Mauro)

DACCI OGGI LA NOSTRA MUSICA QUOTIDIANA

Oggi mi basta
il tonfo dello zoccolo del mulo
nel cortile muschioso del Palazzo,
lo scrostare delle scarpe del bifolco
che calmo appende al chiodo la bisaccia
nella grande cucina del massaro,
il guizzo del gorgozzule sonante
se ingozza l’aspro vino del padrone,
il bicchiere sorretto come un fiore.
Che dolcissimo andare alla deriva
in questo mare labile di suoni.

LUNGO IL LITORALE ADRIATICO

A le stagioni d’oro
si correva lungo il litorale
a piedi nudi sulla sabbia calda-
In altra guisa la mia corsa dura
e il mare mi sta accanto come allora.
Resistono ancora
i canneti e i trabucchi sbilenchi,
i cànapi invischiati d’alghe e i rovi.
Non chiederti dove porta questa riva.
I passi dei nostri compagni
si sono fermati in cima alla collina
ed è un frullare d’ali verso il mare
il fiorire di tombe bianco-allegro
tra i cipressi che guardano alla fonda
i battelli sul punto di salpare
e il mare ci sta accanto come allora

VINCENZO ROSSI

(6) Diversa è invece l’esperienza di Vincenzo Rossi, narratore e poeta, che fin dalle prime prove a quelle più recenti, fa emergere un conflitto ideologico tra mondo periferico e mondo centrale, con una forte e personalissima visione dicotomica tra tempo evolutivo e tempo statico, quest’ultimo il più adatto a preservare nel ricordo le immagini di uomini e cose, l’incontaminato habitat della natura col suo verde botanico e i suoi animali, con la descrizione di vicoli e orti, di sentieri e tratturi, nell’armonia musicale di fiumi e stagioni, in un “poema sinfonico che si eleva nel dominio dell’Alto Appennino e che fa contemplare la misteriosa bellezza del creato, in sintonia con la natura”, come celebrazione di un mondo proiettato contro lo spirito di questo nostro tempo, che tracima tutto ciò che non rientra negli acquisiti comportamenti contemporanei. Ancora una volta il meridionalismo viene esercitato nelle sue forme iconografiche e celebrative, espletate tra arcadia e neodecadentismo, in una vasta e ampia geografia spirituale, che si proietta all’esterno, come messaggio morale e testimonianza di un Sud che non chiede più nulla.

VERDI COLLINE

Oggi vi abbandono, folle urlanti,
ferme o in corsa per le piazze:
torno al canto del trattore,
all’odore antico della terra,
alla scintilla del piccone sulle pietre.
Odio le ciminiere delle officine
dove batte un falso cuore per il mondo
e non amo le vostre tristi aiuole
scosse dal passo di chi ozia,
di chi langue e muore di sospiri.
Oh io non amo chi molle si consuma
incrociando le braccia sui sedili.
Verso verdi colline porto il cuore
in cerca di compagni dentro il grano
e compagne tra le vigne in fiore.
Quando il mezzogiorno splenderà
come un dio in mezzo al cielo
intrecceremo l’erba nei capelli,
nelle mani rametti di mortella,
pianta sacra, Venere, al tuo amore.

DOVE LA CAPRA

Dove la capra s’alza ad acciuffare
le cime dei cespugli e il bue
spande il suo gagliardo richiamo,
dove canta una falce in mezzo al grano
e nudo e selvaggio il contadino scava,
la vita della madre antica,
dove un’ansia cupa sveglia
tante madri a sospirare figli
(è un esercito che vive in sorde terre
dentro urli e caverne di carbone)
come quest’umile canto d’amore
e all’ombra che cade sul petto
e s’intreccia con fiori e dita che amo
invoca un’ora di pace
nella profonda luce del meriggio.

NICOLA IACOBACCI

(7) Una dimensione poetica soggetta ai transiti del cuore e della mente, caratterizza la poesia di Nicola Iacobacci, fatta di atmosfere limpide e rarefatte, che sono il risultato di un’attenta lettura del mondo verso il quale operano gli scatti della memoria e del quotidiano. Il verso tende ad affrescare ciò che si è smarrito cogliendo, con singolare drammaticità, la fine delle cose. Ed è poesia che si trasfigura nei volti e nei personaggi perduti nel tempo, rintracciabili nei volumi, Sotto il barbacane La pietra turchina, Il passo dello scorpione, Il diavolo senza corna, Di/spero, e Il lucchetto cifrato, che raccolgono il meglio delle perlustrazioni psicosoggettive dell’autore, il quale recupera usi e costumi, miti e tradizioni della propria terra, con un’azione poetante che apre ampi scenari di vita urbana e rurale. .Il rapporto memoria-terra, e madre-amore, nella dispersione del passato e nel trauma del presente, determina una focalizzazione del linguaggio sul vissuto, riportato a volte, anche con tratti narrativi.
Un’altra possibile identificazione di questa poesia è il sotterraneo vocalizzo dell’anima che si fa grido esistenziale nel momento in cui appaiono le percezioni dell’effimero.
Più in generale, si può parlare di poesia unitaria per l’adesione ai codici linguistici consolidati e di impianto letterario propulsore di occasioni multiple, aperte a tutto campo.
Da qui il senso di una poesia, che non può essere circoscritta alla esaltazione della fantasia e del sogno, o alla ricerca dell’originalità a ogni costo, ma alla riscoperta dei valori dell’uomo, intendendo per valori non solamente quelli definiti tali dalla morale della società nella quale si opera, ma quei valori universali che sono immutabili nel tempo, (Quinta generazione, anno 1981, gennaio-febbraio nn.79-80, da una dichiarazione di poetica dell’ autore).

SERE

Non scorderò
le ginocchia rosse di fanciulle
sulle pietre lisce del fiume
e le culle sotto i salici
avvolte nella rete a maglie fitte
perché la biscia, attirata dall’odore del latte,
non sfiorasse la bocca dei bimbi.
La donnola seguiva il fischio del pastore
tra i cardi gialli dei tratturi
invischiati di lana.
Sere negli occhi mesti delle mule
martoriate dalle mosche cavalline
sulla ripa del paese odoroso
di conserve seccate negli orti.

IL SONNO E’ LA MORTE DEI VECCHI

L’ala del passero preso alla tagliola
è immobile sul muro del bastione.

Odore di sorbe sui tetti
e di cotogne che il vento gonfia
sul dorso della costa
quando i tordi, a coppie,
scompaiono tra i rovi.
L’ombra sonnolenta si sdraia sotto il tiglio
e nelle viuzze dormono i ragni
accanto alla preda impigliata nella rete.
Il sonno è la morte dei vecchi
su scanni di pietra addossati ai muri scalcinati
delle case rosse di gerani.

SOLE OTTOBRINO

Sotto il sole ottobrino
che scava nelle vigne
sentieri carichi d’amori
il tuo corpo è la calamita
che trafigge la volontà d’essere
nel sistema esatto dei mondi.

Il filo delle perle
sulla camicetta di seta
è uno svolazzare di farfalle
sulle corolle che s’aprono
al morbido tocco delle dita.

Vivrà questo amore
ai margini sfioriti dell’autunno
ubriaco di mosto e di canzoni antiche.

ODORE D’ERBA

L’allodola ritorna verso il sole
con l’ali di rugiada;

ci si sveglia
coll’antico dolore
che l’uomo porta nella carne.

Eppure quando il sole
invade i vicoli
e le vecchie tornano a sorridere
come se la vita fosse appena cominciata,
si scioglie il nodo alla gola
e si sente nel petto
un’aria d’erba e di ginestre.

TERRA MIA DOLCE

Il sole ha schiuso lungo i ruscelli
nidi di gazze che si levano in volo
nell’aria che fumiga e spande
odore d’erbe.

Sulle colline
dove l’azzurro trafigge
il cuore dei vecchi,
l’aratro affonda nei solchi
con pena di millenni.

Terra mia dolce!
terra ch’io sento nel sapore del pane,
nel verde degli ulivi,
nel fermento delle vespe
sui tini traboccanti d’uve!

Terra del mio Molise,
d’amori e di leggende,
di fragole nei boschi e d’abetaie
dove il cinghiale annusa tra le giunchiglie
profumi di salvia.

LE PROPOSTE SOSTITUTIVE DELLA LINGUA

(8) Nel clima culturale degli anni Settanta si sviluppa nel Molise una poesia che non si identifica con i consueti temi della povertà del Sud e dell’ambiente rurale, anche se ne esalta ampiamente il dissidio città-campagna e il binomio terra-madre.
La problematica meridionale viene recepita diversamente e impegna il poeta e l’intellettuale su piani ideologici rivolti ai temi della Resistenza e dei mali sociali del paese attraverso le immagini-racconto, che accentuano il senso di solitudine e la ricerca di nuovi spazi oltre l’angusto limite della vita di provincia, nel diretto contrasto dei rapporti umani fra i vecchi e i giovani, fra ciò che è utopia e ciò che è realtà. La pagina letteraria fornisce le ragioni e i motivi di un’ incomunicabilità di tipo esistenziale, perché diverso è l’occhio poetico che spazia su un mondo nel quale trovano collocazione la fatica dell’uomo nelle fabbriche, il ricordo della guerra e le prime lotte operaie, con una concretezza poetica che mette in primo piano le differenze sociali, i conflitti generazionali fra genitori e figli, Siamo, ovviamente, nel campo dello sperimentalismo realistico con tutte le implicazioni ideologico strutturali dei testi, che vanno a riflettersi nelle opere di alcuni autori molisani che, fuori dal clima del postermetismo, formalizzano una poetica colloquiale e discorsiva, non molto dissimile da quella che si venne a realizzare con Pavese e il gruppo degli scrittori dell’area piemontese, impegnati in un rinnovamento tematico e spirituale, tra lirismo autobiografico e descrizione dell’ambiente medioborghese.

FILIPPO POLEGGI

(9) Sulla spinta rinnovatrice delle nuove tendenze letterarie si muovono alcuni poeti molisani, che si distaccano dal predominio linguistico nella regione, rinnovando temi e la stessa coscienza operativa di fare e scrivere versi, in un ambiente culturale poco incline ai mutamenti e alle soluzioni sostitutive della lingua e dei suoi contenuti. Il rinnovamento linguistico avviene nel 1971, sette anni dopo la nascita del Gruppo 63, con l’adozione di un primo linguaggio di derivazione pavesiana sintetizzato nella plaquette 11 naif poesie/racconto-Poesie per il Molise, Arti Grafiche La Regione, di Filippo Poleggi, il quale realizza un travaso linguistico dal centro alla periferia, distaccandosi da tutto il filone ermetico-crepuscolare, che aveva caratterizzato la poesia molisana degli anni Cinquanta, agendo non tanto sulla struttura linguistica, come antisistema, ma sulle soluzioni contenutistiche rivolte al diario esistenziale e ai fatti della cronaca privata e sociale, in una circoscritta e dettagliata analisi del quotidiano, senza eccedere nel prosaicismo, perché le storie sono ridotte in rapidissimi flash back, nel tentativo di dare alla sintesi poetica il massimo della rappresentazione e dell’oggettività. Poleggi si serve della parola e del racconto per stabilire un’intesa realistica tra sé e gli altri, per collocarla negli altri e introdurre quella coscienza collettiva che sganci — una volta per tutte — la rarefazione sociale, il catenaccio ossidato del perdere il passo col tempo. Dalla lettura dei testi non è difficile trovare echi poetici d’impatto lucano, o meglio chiazze più o meno marcate, una sottocutanea presenza ombrata di Rocco Scotellaro, tanto per intendersi, di” E’ fatto giorno”.Tutto sommato Poleggi adotta la “speranza” come mezzo, lascia sul suo piano di lavoro argomenti e proposte per un’ipotesi (sia essa storica, esistenziale, sociale, ecc.) un’ipotesi che racimola, nel suo portato, una quantità di esperienza e che va sperimentata, non fosse altro che per testardaggine.(Francesco Scarabicchi).

NELL’OMBRA DELLA SERA

Nell’ombra della sera
il fuoco che brucia le stoppie
di fine agosto
avanza tranquillo
e cova l’incendio del bosco.
Altrove è dolente stupore
di pazzia che ti prende.
Il problema non puoi
chiamarlo diverso
perché è tale
e vi rompi
la tua poca forza.
Qui il fuoco
ha intaccato il bosco
e mani di uomini forti
lo hanno respinto.

UN POETA ANCORA

Ancora poeti vanno
per colline di pandorato
a cantare
la pace dell’uomo
e la mano
dolce del verde.
Ma bisogna tornare
ai giorni di sempre
alle giacche
tirate sulla nuca
nelle notti fredde
senza luna.

IL VECCHIO E IL VINO

Il vecchio canta
con quanto fiato ha in gola.
E’ l’unica cosa
che ormai possa fare.
Si guarda la pelle secca
sulle braccia magre.
Guarda gli uomini
Abbracciati alle donne
che vanno nei prati
e i solitari che bevono
e cantano senza costrutto.
Il vecchio decide
che vale la pena
e va a prendere un fiasco.
Più tardi lo trovano morto
con il fiasco pieno a metà.

UNO CHE HA VOLUTO ESSERE SOLO

Cosa si dirà dell’uomo
che ha scelto la solitudine
solo per non essere
uomo di neve.
La madre lo piangerà
fino alla morte.
Gli altri diranno
che è stato ben strano
ad andare così
senza parole.
Aspetteremo
che ritorni ancora
per scrutare
i segni sul viso.
Vorranno penetrargli l’animo
per scoprire ragioni
che sono le stesse
di quelle che non hanno.
Per esse
non c’è stato coraggio.
Sarà per loro un mercante
che ha odore di spezie.
Un nipote penserà a lui
il giorno che sognerà
di fuggire di casa.

L’EMIGRATO

Tornò una mattina al paese
più povero di come era partito
ma nessuno badò a lui.
Ne tornano ogni anno
stanchi, poveri, delusi
per aver sciupato la giovinezza
nella dura fatica
nella lunga solitudine.
Ma Paolo
non si rassegnò all’indifferenza
e in osteria una sera
parlò di un certo amico
che presto sarebbe venuto
a dividere una ricchezza con lui.
L’amico arrivò in corriera
e si seppe che aveva mentito.
Quelli dell’osteria
erano pronti
ai morsi profondi.
Ma i due erano sereni
nella loro amicizia

GIUSEPPE PITTA’

(10) Allo sperimentalismo tout court, a metà strada tra il gioco visivo e l’alchimia tipografica, si rifà Giuseppe Pittà, il quale gestisce un proprio linguaggio iperattivo che si ricombina con gli umori e con le proposte totalizzanti della poesia nata intorno agli anni Settanta, fino a resistere, e a opporsi con ogni mezzo e strumento letterario, alla tradizione e al laccio storico che ha limitato e limita qualsiasi tecnica di trasgressione e di rinnovamento.
Queste poesie si caratterizzano soprattutto per una spiccata tendenza argomentante intorno agli aspetti più controversi della realtà, proiettati, audacemente, in un gradevole surrealismo dove le vicende si incastonano con graffiante denuncia e ironia.
Ed è proprio sulle tracce della postavanguardia che Pittà ripercorre i sentieri già da altri attraversati, con una visione della poesia che vuole essere, come in effetti dimostra di essere, proposta innovativa, prima ancora che presenza e testimonianza tra la provincia e la nazione.
Il dibattito culturale intorno alla poesia viene assunto da Pittà attraverso esperienze letterarie tramite l’adesione ad un linguaggio, che traduce in forma ampia le proposte dei primi sperimentalisti, promotori di un alfabeto in linea con i programmi poetico-ideologici, visti come materiale di lotta e di contestazione.
Da qui l’intervento in prima persona di Pittà, come collaboratore di riviste letterarie e politiche, impegnato anche in teatrini off della Capitale nella lettura di autori latino-americani, per una riformulazione della poesia e della pratica del linguaggio negli anni di maggiore furore e rabbia
Con Giocare di vento, Edizioni AxA, Roma 1993, l’autore ripropone le scelte stilistiche maturate nell’ambito della ricerca verbo-visiva.
Questo volume è un momento ludico tra pittura e poesia, per meglio ironizzare sugli accadimenti quotidiani, anche se tutto questo comporta uno sbilanciamento sul fronte del racconto, che vuol essere un lungo intrattenimento engagé sui problemi dell’esistenza e dei mali del mondo.

DALL’OCCHIO GIGANTE DEL BIDONE

Me lo presentarono una mattina di sole e di sciopero
mentre violento e solo scorrevo nell’antico destino
portavo al collo a quel tempo una campana di disperazione
inventata o forse solo scoperta da un cane goloso
leggevo un manifesto amabile acquistato ogni mattina
sbattuto con garbo nella borsa invecchiata ad artificio
per tirarlo poi fuori la sera attento a non sgualcirlo
conoscevo il vuoto del giorno e sorridevo alla rivolta
perciò camminavo sereno nel buio d’ogni momento
cercando tra le panchine una gonna larga e facile
o un rosa pallido per scambiarci figurine
disponibile al toro pescavo dalla tasca ogni fantasia
creando ghirigori meravigliosi e giochetti irresistibili
qualcuno mi teneva la mano soffiandomi profumo
progettavo con simpatia ogni legale tradimento
divertendoci tutti un mondo a parlare di libertà
me lo presentarono una mattina di sole e d’agonia
in una cantina stretta tra bottiglie colme di lacrime
era vestito di nuvole di pioggia e pianto vero
m’avvolse nel mantello e mi mostrò una luce
da allora è qui con me nella reggia sulla strada
mi bacia ed è felice ed è unico è il mio corvo

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::::::::::: dove amano gli eroi uccisi nel sogno:::::::::::::
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::::: abita il mago la casa sull’altopiano::::::::::::::::::::::
::::: george col falso amore della gioventù::::::::::::::::::
::::: spalanca labbra colorate al nudo uragano:::::::::::::
::::: promette alla valle d’essere generoso:::::::::::::::::::
::::: e dipinge nel cielo una fiaba di luce:::::::::::::::::::::
::::: il gabbiano intanto canta la sua storia:::::::::::::::::::
::::: ritrovando nel passato il dolore e la tristezza:::::::::
::::: il fiume gli riporta il raggio disperso::::::::::::::::::::
::::: e la pietra invoca a suo nome la pace::::::::::::::::::::
::::: il fuoco sorride all’ombra del pensiero::::::::::::::::::
::::: il gioco stimola una moribonda fantasia::::::::::::::::
::::: george abbraccia il sogno del vero dio::::::::::::::::::
::::: sedendo sul trono accanto al ragno:::::::::::::::::::::::
::::: stringe nella mano una quercia felice::::::::::::::::::::
::::: ed entra nel magico segno del perdono::::::::::::::::::
::::: un volto tutto nuovo regna ora nel battito::::::::::::::
::::: l’aquila sorride al giorno che cammina:::::::::::::::::
::::: la stolta strada si sposta e fugge via::::::::::::::::::::::
::::: george ammira placido le stanze del sudore::::::::::
::::: calpesta l’orrido profumo del vincitore:::::::::::::::::
::::: con un solo sguardo uccide l’aspide del canto:::::::
::::: divorando bocche fameliche col cervello::::::::::::::
::::: il bacio arriva improvviso e tenero:::::::::::::::::::::::
::::: mentre già pensavo d’essere senza vita:::::::::::::::::
::::: muove allora una mano incerta verso l’estate::::::::
::::: sfiora il viso illuminato dal sentire:::::::::::::::::::::::
::::: e senza chiedere per sé nient’altro che amore::::::::
::::: stringe al petto triste il ritrovato sole::::::::::::::::::::
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se il sole fosse fuoco
si potrebbe tentare di costruire la vita
riempirla di splendore
darle meraviglia
se solo fosse uno strepito di luce
si potrebbe congegnare una forza una esistenza
e
perché no
dotarla di mari e fiumi e montagne
rinfrescarla con la pioggia con il vento
metterci un po’ di tutto
animali nuvole piante
e
infilarci fantasia e verità
vestirla d’ardore di passione d’entusiasmo
imboccarla teneramente portarla a maturazione
voglia di crescere e realizzare
si
potrebbe avvampare di futuro
partorire principi
eccitare le fortune
già
si potrebbe pensare ad un serio progetto
inserirci qualcuno qualcosa
che
si piazzi al centro di tutto
e
dia movimento
qualcuno qualcosa
che scopra che inventi che edifichi
che dia struttura ai sogni alle idee alle aspirazioni
un piccolo avvio alla storia
che mostri imprese gloriose e deliri creativi
un fecondo periodo di furia
che sia spinta e impulso e costruzione
si
si potrebbe inventare la vita
peccato però non si possa giocare più di tanto
è tutto così freddo così spento.

*
ma ha capito la luna d’essere complice del sogno

l’ombra del falco si ferma al sole
sorride al giorno antico in frac
soffia sul sentiero del vediamoci domani
sorvegliando un triste passato moribondo
un cono di polvere intanto si fa nuvola

ma soffre il fiume di nostalgia nel deserto della follia

il cuore del falco si siede sul vento
parla alle stelle del suo amore lontano
fa volare nel tempo la cenere del fumo
aprendosi al gioco difficile della festa
un volto di cipria adesso recita le nenie

ma la neve è innamorata anch’essa della luce

la mano del falco si piega alla pioggia
bacia il mago delle passioni povere
lancia il futuro nella strada omicida
luccicando di musica venduta al mercato
una lucertola di sangue ora uccide il bello

ma la serpe s’accorge dell’odio del mondo giusto

la fantasia del falco si specchia nel cielo

chiama le dolcezze al suo fianco vivo
entra nel sospiro d’un deserto colmo di colore
porgendo dal palmo aperto un cuore che sogna
il fuoco nel carro del sole apre le ali

ma quando e perché l’amore ha deciso di chiamarsi amore

– a bordo d’una ragnatela davvero sensibile——————-
———————————————————————–
– come se non bastasse – si presenta all’alba anche il sonaglio di
– un serpente – con la voce di velluto chiede un pasto adeguato al
– suo rango – accomodandosi tranquillo su un trono di nuvole –
– abbastanza improvvisato – la sorpresa è tale che il piccolo barista
– arabo – lascia cadere al suolo un’infinità di pensieri di ——–
– cartapesta e cristallo – con ordine allineati su un vasto vassoio –
– di tenerezza – un cappotto liso e sicuramente vicino alla morte-
– zoppicando vistosamente infila la porta sul – deserto -senza –
– prima aver dimenticato uno stanco sorriso alle catene del passato
– ai tavoli intanto quei fragili passerotti coperti di speranza——
– accordano e tentano d’accordare il canto del – ringraziamento –
– e il buon dio da vero maestro dilettante urla i consigli ———–
– una bandiera piena di — buchi si pavoneggia al piano———–
– strimpellando con discutibile gusto l’inno della storia- mentre
– alla sua destra un cane tenore pulsa indignazione – in alto o —
– forse in basso – una manciata di stelle scoppia dal ridere——–
– sulle pareti una famiglia intera di rose s’arma di nuove spine-
– il nostro eroe comincia ad ingozzarsi di sentenze al sangue – la
– sua corte di minuscoli insetti abbozza un ballo digestivo——–
– permettendo all’occhio del padrone di concentrarsi sull’ idea—
– un otre colmo di facili emozioni – spalanca la bocca enorme – e –
– antichi calici accolgono con passione i — sospiri dell’amore —–
– in pratica – l’atmosfera è senza alcun dubbio silenziosa – ma —
– c’è — come una microscopica screpolatura nel cubetto di———
– esistenza — che s’aspetta da un momento all’altro lo scoppio
– del contrasto — il sovrano è giunto ormai all’ultima portata—-
– già s’intravvedono i segni della sazietà attraverso le lenti a —
– contatto — una deliziosa forbice vestita a cameriera————-
– conduce la coppa del dolce — e il dito atteso con terrore inizia
– ad alzarsi a comando — il ventre in silenzio viene adagiato sul
– tavolo tondo del tempo — una sottile lama di luce già è pronta
– ad interpretare la parte del boia — il sovrano recita ———le
– motivazioni complete del sacrificio – il colpevole —-riconosce
– la sua colpevolezza d’esser nato — ed inizia a -morire con la
– serenità di chi bacia l’errore — come se non bastasse————-
– la terra racconta il suo tremore —- dalle fenditure del cielo
– viene fuori un liquido che non è vino — e ————————–
– l’alce vero signore del tempo e dello spazio — visibilmente——
– annoiato—————————————————————–
– decide di strappare questo suo lavoro venuto così male———
—————————————————————————-
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

GIOCONDO COLANGELO

(11) Apparso per la prima volta con delle partiture poetiche inedite nell’antologia Poeti del Molise, Giocondo Colangelo (1954) ha fatto seguire, dopo la pubblicazione di queste sue scritture autobiografiche, una plaquette di versi e calembours dal titolo Senza recita, Casa Molisana del Libro, 1982, che tra neutralità dei vecchi schemi e alleanza a un dire nuovo, segna sulla carta della quotidianità le tangenziali dell’esistenza e le cifre del vissuto, tratteggiando il ricordo e il sogno verso punti di fuga e di morte, secondo suggestioni letterarie ben precise (Whitman e Rimbaud sono solo alcuni dei poeti presi a riferimento), tra motivi ora ironici, ora delicatamente memoriali, al di fuori di ogni riconferma e restaurazione di modelli archetipi senza, tra l’altro, sconfinare nei territori degli squilibri formali, per lasciare, come dice l’autore, le sue poesie alle spalle, per perderle e, secondo l’insegnamento di quel prete di un libro di Borges, Bioy Casares, che insisteva sulla necessità di perdere l’anima per salvarla, ritrovarle, all’interno del rapporto odio-amore, fino a dilacerare il tessuto esistenziale e ricucirlo da ogni strappo e ferita, prima della inevitabile resa o sconfitta.
Quanto alle ulteriori prove o verifiche, a livello di consistenza, di cui parlava Pasquale De Lisio, recensendo Senza recita su Proposte molisane 82/1, pag, 197, non crediamo che esse debbano costituire delle condizioni essenziali per riconfermare giudizi e chiavi di lettura. Senza recita resta, al di là delle (im)probabili sortite poetiche dell’autore, un momento altro o a sé di quel fervore letterario, come esperienza parallela degli avvenimenti culturali prodotti negli anni Settanta-Ottanta.
Con molta probabilità il documento poetico di Colangelo sta a indicare il rifiuto di una Forma declamata e artefatta, ovvero, la negazione al bel canto e allo stile delle cifre di Cocteau.
Senza recita propone nella sua struttura, momenti di vita vissuti nel silenzio e nella emarginazione, nel quadro delle varie esperienze fatte dall’autore. Da qui l’uso di una parola poetica che rifiuta il ninnolo tradizionale, l’idillio e l’arabesco, e che pure sta a dimostrare e a indicare una delle tante strade percorse dalla poesia nel conflitto dei segni e dei significati.

DEDICATO A UN PURO AMICO IMMAGINARIO

Ci siamo cacciati in un brutto pasticcio Fred,
non vedo come faremo a venirne fuori!
Queste ombre sanguinolente non ci mollano più,
il capezzale di morte è lì sul nostro cammino,
alla foce del fiume ci attendono, non ci andremo!
Ti dedico questi granuli di sabbia,
sabbia del deserto, deserto della mia stanza,
mentre fuori mille cervelli
stanno esplodendo in orgasmi di utopie,
domatori inferociti divorano i leoni,
(moro in facoltà fa l’occhietto al collettivo),
hare krishna infangato da calessi in corsa
piange sul ciglio della strada,
James Joyce urla nella tomba:Rivoglio le mie lettere,
Monsieur Bernard applaudito al comitato
rimpiange vecchie glorie,
“have a good time, baby” lanciato nello spazio
rientra dall’uscita d’emergenza,
“lascia andare le parole” sussurrato all’orecchio,
non ho molto tempo vuole dire.
Quest’ultima visione,
non mi rimane altro prima di partire.
Una stanza illuminata,
Mary col suo adolescente nudo sulle ginocchia,
“altri quindici giorni e poi sono fuori”,
un vecchio cortile circondato d’aiuole,
ci siamo lui io e tanti altri,
Mary col broncio perché si ride di lei;
-cento anni per capire che la chiave delle Illuminazioni
era lì, dietro la porta -.
Lui in divisa, intossicato di vita, sorride all’amico,
gli promette bevendo un lunghissimo spleen.
(Genzano 27.2.76)

Stanotte son di guardia alle stelle,
la luna non c’è,
se la son pappata rabbiosi sergenti.

Il gatto nel cortile
gioca a rincorrere il coniglio,
mentre l’uccellino incollato
sta morendo sul muraglione.
Stanotte son di guardia alla luna,
le stelle non ci sono,
se la son pappata rabbiosi sergenti.

In una simile notte
senza lucciole
dev’esser morto Esenin,
in una simile notte
sul muraglione scuro
il mio passerotto muore.

Ufficiale di picchetto chiudi bene
il cancello stanotte,
non lasciar passare i ricordi.

*

Ospemiles di Firenze
ad attendermi tutti burloni fiorentini.
il primo accenno a Ciapaqua
e i libri di Burroughs nella borsa.

Gli amici mi venivano a trovare.
Nicola mi portò l’assassino,
ne fumammo insieme
e ridemmo di Mary.

Vecchia Olanda nella mente.
Mary era sempre lì
col suo adolescente nudo sulle ginocchia.
La notte copulavamo felici.

Telecuore con esofago barrierato
dette esito negativo
e glicemia e azotemia
erano solo una scusa per succhiarmi del sangue.

Bronchite catarrosa subacuta
fu la carta vincente.
Con i miei quattordici giorni di convalescenza
nel taschino della giacca

salutai gli amici burloni e Firenze,
Nicola dietro il bancone e Mary.
“Altri quindi giorni e poi sono fuori”
furono le sue ultime parole.

Finalmente novembre,
sono quasi alla Fine.
-Bisogna aver rispetto
per tutto ciò che finisce –

Il mese è dedicato ai morti,
anche a te Pier Paolo
ucciso dalla tua sessualità.
Me l’ha detto quest’oggi

la mia radiolina,
è successo dalle parti di Ostia,
e pensavo che solo a gennaio
stavo in biblioteca, seduto, a parlare di te.

“ Non ho paura della morte, ne avevo
solo da ragazzo” allora dicevi.
E Cimo che continuava a ripetermi:
“ Deve essere proprio un intellettuale pazzo”.

“Era un trasgressore di tutti i codici”
scriverà di te un tuo amico.
Ora quest’Italia furfante
si è persino dimenticata di te,

che facevi tanto per scuoterla.
Ma non temere l’oblio,
i poeti vivranno in eterno,
e tu certo, non eri da meno..

*

Me chi mi ama? Dannazione!
Rinchiuso fin dall’infanzia in galere scolastiche
ad affogare il cervello nella noia
tamburellando masturbazioni
rincorrendo la vita, irragiungibile.
Sogno di essere felice ma non lo sono.
Me chi mi ama?
Trobar clus nella notte buia.
Lucio nella latrina di servizio a salmodiare poesia.
Dopo la sua partenza per Lucca non mi ha più salutato.
Ed ora…un cranio pieno di libri,
senza valore ormai.
Nei sogni pieni di incubi possono riviverli, se voglio.
Fantastiche storie dell’Aldilà.
Me chi mi ama?
Solo il gatto Manoski. Quando ha fame.
A chi mai confessarlo?
Il mio pensiero — precursore del vento —
mia sola dama di compagnia,
Sto vivendo nella mia mente.
Questo (ed altro) aspettando l’autobus
In un frizzante mattino autunnale,
a Roma.

A M.
Chi ucciderai ancora? Chi porterai alle stelle?
Che altre menzogne inventerai?
(Osip Mandelstam)

FIGHT ON

RITMO è la percussione
di questo pezzo di Peter Tosh
un reggae arrangiato
da musici e pittori fiamminghi del Cinquecento
Lacrima è quella che non hai versato
per me
Drogato è il ricordo
delle estenuanti attese
dagli addii di sasso
dalla tua lacrima non versata
ma non questo ritmo
oh come vorrei essere io l’alchimista
e a notte tarda dopo la serata
rincasare verso la mia donna di colore
io il giamaicano
l’arabo che languisce nel metrò parigino
il vecchio alcolizzato con l’armonica
che ogni sera suona alla Station olandese
giocondo colangelo figlio di Michelangelo
murato in queste quattro (mila) mura di libri
che se scrive una canzone per domani
è solo per ritrovare il fanciullo che era ieri.

Quanto al ”Taccuino del sognatore ” accluso a “Senza recita “, qualche tavola di lettura riteniamo di doverla recuperare, anche a costo di trasgredire sul piano metodologico, ma è un peccato veniale che vale la pena di commettere. In altri termini si vuole riportare in superficie da “Le impressioni parigine” tutto “ l’humus poetico” e il “ sentimento critico “ del poeta in relazione alla sua visita al Louvre e alla chiesa di Notre-Dame di Parigi , In effetti opera anche qui un vagabondaggio culturale sul mondo esterno, con una minuziosa descrizione sui fatti e gli avvenimenti che si presentano durante il giorno nella cosmopolita Parigi popolata di ambulanti e giocolieri, di colonie di arabi e di venditori di quadri e oppio, di clochard e di miserie grandi e piccole che si consumano all’ombra delle rues e delle bidonvilles:

da : “ IMPRESSIONI PARIGINE “

TUTTI VOGLIONO VEDERE

Tutti vogliono vedere . Alla chiesa di Notre-Dame la gente si accalca per vedere il Tesoro. L’ingresso è di tre franchi. Per gli studenti niente riduzione. Ai due lati della chiesa, dentro la basilica del Sacrè-Coeur si vendono i ricordini. Piccole dosi di religione da riportare a casa, agli amici. La chiesa di Cristo è trasformata in un mercato. Turisti dappertutto, i giapponesi con le macchine fotografiche perfino nelle orecchie. Fotografano Cristo. Una vecchina domanda a un sacerdote, nel suo strano dialetto spagnolo dove vendono dei crocifissi “Comment ?” è la risposta. La vecchina insiste:” por comprar de los crucifijos, por comprar Jesucristo “. Il prete capisce, sorride. Glielo indica. Questo secolo consumistico ha trovato il sistema di commercializzare pure Cristo. Lo si vende, si compra, si paga per guardarlo. Ce n’è per tutti i gusti. Il Cristo per i poveri, di pochi franchi, e il Cristo per i ricchi. Una massa di venduti che vendono. Ma , a parte il mercato, la basilica del Sacrè-Coeur ti colpisce per la grandiosità della rappresentazione religiosa. Entrando, di fronte a te, in alto, un Cristo immenso con le braccia allargate ti domina. Ai suoi lati, papi, santi. Sono molto piccoli rispetto a Lui. Però sempre più grandi di altri personaggi che seguono. L’autore di questa rappresentazione ha voluto creare una scala di valori nella gerarchia religiosa. L’ordine d’importanza nella gerarchia è dato dalla grandezza. Rappresentazione alquanto banale, ma efficiente. Si è dominati da questo Cristo immenso. In questa chiesa l’uomo non esiste. La prima volta che vi entrai stavano celebrando una messa. Il prete all’omelia dava l’idea di voler fare un discorso politico. Parlava con lo stesso ritmo e timbro di voce con cui si fanno i comizi. La politica in chiesa? Non c’è da stupirsi. Durante le guerre i francesi, popolo di nazionalisti, si radunavano in chiesa per pregare. Finite le guerre eccoli di nuovo in chiesa per “ celebrare “ la vittoria. Amen.

Barboni nella metropolitana, agli angoli delle strade, sdraiati nei giardini pubblici. Sembra la città dei pezzenti, Parigi. Puzzano d’alcool lontano un miglio, puzzano di morte. Tanti arabi. Vengono dalle ex – colonie. Fanno i lavori più umili. Uomini delle pulizie nel mètrò. Non vedono mai la luce. L’altro giorno al Jardin des plantes un arabo sdraiato su una panchina, solo. Triste, già morto. Consumava così le sue ore, i suoi giorni, i suoi anni. Sarebbe venuta voglia di andargli incontro, abbracciarlo. “Fratello, non lasciarti morire! Ritorna nella tua terra, sii felice”. Non l’ho fatto. Come potevo.. Sono andato via. E’ rimasto come l’avevo trovato. Un pezzo di Marocco venuto a morire in terra straniera, in terra francese.

Niente. E’ proprio vero, hanno trasformato le loro chiese, i francesi, in mercato. Mercoledì 22 agosto alle venti e trenta concerto per organo di Lionel Rogg. Prezzo quindi franchi. Portano Bach in chiesa e lo vendono, loro. Proprio come Cristo. Non c’è che dire. Mi sono imbucato. Non c’è che dire. Giorni fa per farmi i capelli, senza shampoo, nella lontana periferia, in un umilissimo coiffeur, 33 franchi ha voluto, lui, il barbiere. Trentatrè franchi, che equivalgono a seimilatrecentosessantanove dannate lire. Niente. E allora mi sono imbucato in chiesa. Bisogna rubare ai ladri, è l’unico sistema per sopravvivere, in un posto di ladri.

Esco dallo Studio Saint – Sèverin dopo aver visto per l’ottava volta il film – concerto di Bob Marley, quello del giugno 77 al Raimbow. Ho fumato nella toilette del cinema con due ragazzi arabi di Algeri. Prendo Rue Saint- Saint-Sèverin e taglio per Rue de la Harpe così sono subito a Boulevard St. Germain. Sono le venti circa. E’ l’ora in cui cominciano ad affluire sul boulevard i venditori ambulanti di oggetti fatti a mano, braccialetti, collanine, orecchini. Arrivano anche i venditori di quadri, di posters e i suonatori ambulanti, o occasionali, che cercano di svoltare la serata. Ogni sera così. Davanti alla chiesa St. Germain – des – Prés il circo. Il lanciatore di fiamme, il mimo, gli acrobati, il prestigiatore e l’uomo delle catene. E’ un ragazzo biondo ,quello. L’ho osservato per alcune sere. Sempre la stessa scena. Ogni sera. Si fa legare dai passanti una lunga catena di ferro intorno al corpo. La fa incastrare con due lucchetti e dopo dieci minuti, con le contorsioni del corpo, riesce a sfilarsela. La gente applaude. Poi è la volta dei vetri rotti. Vi si sdraia sopra con la schiena e si fa salire sul corpo dieci persone. Voilà. Il gioco è fatto. Nemmeno un taglio. Altri applausi. E’ infine la volta delle fiamme. La gente è contenta. Finito il numero passa con un cappello tra il pubblico, sono generosi. Lui ringrazia per ogni monetina che riceve. Dopo il tin metallico china la testa e cinguetta un merci. Se ne va. Anch’io. Faccio la rue de Rennes. All’angolo, davanti alla farmacia, i soliti invertiti. Sono ragazzi, si baciano e abbracciano tra di loro, per provocare i passanti. Ci sono anche lesbiche. Per strada sono come cullato dalla musica. Cammino come in un sogno di Dalì. Timothy Leary dice che è l’unico pittore dell’LS.D., senza L.S.D.. Sono solo e felice.Una volta tanto. E’ per via del fumo. Tutt’intorno è un luccicare di colori. Le macchine sfrecciano, superbamente. Le sento amiche. Sono arrivato in un attimo, in albergo. La musica si dissolve in ascensore, come in un sogno. Il Raimbow, Bob Marley, scomparsi. Però ogni tanto qualche nota ritorna. Mi aspettano ora il vino e il formaggio. Anche una pesca. E’ da ‘ sta mattina che non mangio. Sono fortunato. In Giamaica hanno qualcosa come meno di niente. L’ho visto al cinema. Solo la musica e tanto sole. Il resto è miseria. Bidonvilles.
Per ora basta. Spegnerò la luce su questo giorno. Leggerò Céline prima. Forse.

Volevo vendere due libri ai bouquinistes. Un totale di novantadue franchi. Non l’ho fatto. Volevano darmi massimo venticinque franchi, per i due libri, quei rabbini. Volevano speculare sulla mia miseria. In parole povere truffarmi. Quei ladri. Il furto legale è più schifoso di quello illegale. Ha le spalle coperte. Al sicuro.
L’ho scrutati subito, in fondo all’anima. Hanno pensato: “Ha bisogno di soldi, lo prenderemo alla gola“. Ma io non glieli ho dati. Ho intuito il gioco. Me ne sono andato. Prima li ho esaminati bene, però. Sono una marea di persone anziane, tra cui una buona metà ha superato l’età della pensione. Pochissimi giovani. La gran parte è composta di vecchie che non hanno alcuna intenzione di mollare. Se ne potrebbero stare tranquille in pensione, ma non lo fanno. Se ne stanno lì a farfugliare prezzi, a vendere cartoline sbiadite dal tempo e libri scritti da fantasmi. La morte le coglierà sul lungosenna, aggrappate all’ultimo franco, all’ultimo respiro. Una prece. Che tristezza. Nessuna mi ama. Sono piombato in un abisso di solitudine.

PIER PAOLO GIANNUBILO

(12) La metamorfosi dei segni e dei significati, continua in Pier Paolo Giannubilo (1971), nel volume Ariascensione e Oltraggi, dove si fa più chiara la sensazione estetico-culturale di un copioso approvvigionamento di echi e richiami, in cui”la letteratura dei classici diventa punto di riferimento, se non proprio una bussola, un buon libro di preghiere cui affidarsi in caso di smarrimento lungo la strada”, come ci informa l’autore, a conclusione della sua nota al volume. Da qui il prevalere di un discorso, che libera la propria corporeità in un viaggio antropologico e spirituale, e nell’appartenenza biogenetica ad una identità psichica.
Nella vertigine di una poesia etico-esistenziale e nel tragitto verso una cybercittà del paradiso si compie il progetto ideologico-poetico di Pier Paolo Giannubilo che si porta autonomamente su posizioni neometafisiche, istituendo momenti di sincera ansia spirituale e di ricerca dell’Assoluto. In questo senso vanno interpretati alcuni passaggi poetici, che attraverso l’ipostasi e il carattere metaforico del significante, si aprono ad una dimensione metastorica dell’esistente. E’ un discorso che si snoda attraverso scatti illuministici e dichiarazione di eventi, che lasciano trasparire il desiderio di intraprendere la scalata dell’aria verso una Gerusalemme Celeste, vista come luogo di Speranza e di Salvezza, lontano dagli oltraggi e dai carnefici, per un rinascimento cristiano, sempre idealizzato e tutto da scoprire attraverso una ipotesi di poesia intesa come estrema giustificazione della Creazione e, contemporaneamente come j’accuse, rimostranza, come capacità di materia e percorso atmosferico,smaltimento di scorie”.
L’Io metafisico ferito dalla realtà quotidiana si smarrisce in cupe riflessioni, percorre i sentieri del dubbio, pone cocenti quesiti:”Ma a che servì questo viaggio? / a chi? / se in parte il mio cuore si è sfilacciato strada facendo/”), portandosi, subito dopo, su posizioni imprevedibili che mettono fine al rovello spirituale. Torna così la luce sull’ombra, mentre si dischiude il terreno nel quale giace “il pallido primogenito”, lasciando intuire con questa Resurrezione, un nuovo approdo salvifico.

SUSPICIUNT

Fiocchi di loto e di soffice spugna
Precipiti sulle zolle riarse nuova manna
Riabilitano i sensi andati perduti.
Un’altra possibilità, un altro tentativo
Per una seconda creazione.

Ma è evidente che il profeta rimborsi
Col suo sangue l’aver dirottato le cose.

Tiepida pioggia senza sali ci risveglia.
Ma fate largo, fate aria.
Il primogenito muore come un frutto sepolto.
Ma fate largo, fate ancora un po’ d’aria.
Respira . .
Stazione di servizio Flaminia Ovest.Febbraio /96

SAN MARCO (O ALTROVE), ULTIMO ATTO

Fuggo l’officina della misericordia
edificata sulle lagune
e come questa anche tante altre.
Meglio sarebbe assistere al pasto
che ne farebbero alghe muschi
buste di plastica piuttosto
che al mercato di libercoli
videotelefonini parietali
inframmezzati agli affreschi,
a guided tours di improvvisati agiografi
sulle soap opera dei santi.
Centinaia di luddisti ispirati
rieseguiranno forse un giorno
come in una moviola il gesto atletico
di Gesù nel Tempio.

Ma adesso a Te che sei immagine roteante
in eterno elastica impalpabile,
che ci donasti di un corpo molliccio
eppure glorioso, sconquassato,
a sfiancare su una croce.
– Dì soltanto una parola –
un gesto leggero che riconduca
la carne ai suoi sentieri naturali,
soltanto uno sguardo che stilli
pioggia tiepida a rinverdire
i fiori secchi del mio cuore
– ed io sarò – un uomo, basta poco – salvato –
DESPICIUNT

Tutto il martirio si era compiuto.
Dalla nostra visuale angolare
il petrolio in mare verde mutato
al largo di piattaforme d’acciaio.
Acido denso grumo da quassù la terra.

Ma a che servì questo viaggio? a chi?
Se in parte il mio cuore si è sfilacciato
strada facendo, e brandelli ne ricadono
come meteoriti sulle teste dei giustiziati,
pere acerbe pendenti da lampioni
che grattano il cielo – A che servì? – mi interrogo.

Servì.

Ho visto il pallido primogenito
Riesumato dall’interramento
Cercare con gli occhi suo padre.
“ Ho tutte le mani sporche d’inchiostro
ho tutte le mani sporche di sangue” cantava.
Incurante del primo abbandono
subìto sul colle a forma di Teschio.

LE VOCI

Il sangue delle arance
gocciola sulla ceramica
l’impugnatura dello stiletto
calcia lo sguardo all’indietro di anni
sull’antica chiamata
sulle voci terminali
cui mi sottrassi per tempo
( a scadenze poco più che semestrali
s’arrampicava lungo il petto
fino alle narici di me bambino
un odore trasparente.
Lo chiamavo l’odore dell’anima,
interpretandolo esalazione
dovuta alle scosse d’assestamento
prodotte nella struttura
dall’intrusione di nuovi peccati)
Più bello, più bello se mi ritraggo
nell’umida valva del sogno
dove ristagnano a pelo d’acqua
i pellicani morti e gusto
l’intrecciarsi di serpi e ragazzine
TERRE CHIARE

A lungo accartocciato sulla carne
sugli inquieti fianchi latini
di donne svogliate
Che erano un denso ondeggiare di piaghe,
E più spesso nel ricondurre
in un solo intricato viluppo
i lacerti dapprima spersi
Cedetti alla stanchezza che mi sfece,
scomponendo ricomponendo
riaffrescandomi a tinte più gaie.

Ora Ti sarò accanto, mi appresserò
alle distese indistinte,
Rincuorandomi al dolce mormorio
delle brigate di adolescenti
scaldati al tepore del suolo
che condivisero ciò che non è più:
Il soldatino catturato
e fucilato alla schiena
il prigioniero in silenzio
il bavoso tossico.
Sarò compagno non insidioso
alle rasserenate madri
Come lucertole immobili
Brillanti ai sassi levigati e bianchi.

Ecco, un frammento di Te si protende
Sulle penne dello Spirito Santo,
viene a mostrarci la scia
a riproporre il futuro
che alcuni fra noi
Ebbero il coraggio di reclamare,
Ed altre ancora nuove terre chiare.

DUE MILLENNI

O: Un colore di cui fiorisce la molle armonia del Paradiso
Specchiava nell’aria la carne della femmina cherubino:
I poeti accanto a me morivano in comunione con le prostitute:

1/1916 Per sottrarci allo strazio degli untori celebravamo
nelle catacombe,

Ma alla fine affogati di sterpi battemmo cespi d’erba abbarbicati
sui picchi,
Cogliendo una parziale e sanguinosa, quanto inutile, vittoria.

1917/1989 Come in principio fu il sovvertimento, le cose
sovvertì il cupo comunismo

– la catastrofe che sciogliesse il nodo, lo strappo necessario
(così credemmo) – fasciandoci il cuore di una speranza.

199°/1995 Al culmine della storia, il Tuo accordo mi prese
poco avanti negli anni.
La delirante adolescenza mi avrebbe sommerso. Fui salvo
nella misura in cui
Sperimentai massiccia quella Croce di cui tanto
S’era profetato all’anno trentatre del primo dei due millenni.

JAUFRE’ RUDEL

Le aule non ancora scandagliate
in qualche spigolo certo nascondono
madonna Federiga folignate.
(Leggevamo insieme Jaufrè Rudel,

le doglie del notaro di Lentini…
elettrizzati non solo al desuescere
di quelle forme verbo/nominali
rimpastate nel magma delle nostre

ma anche da colpevoli sfioramenti.
Piccola ingorda – ci sperava molto:
-D’aquest’amor suy tan cochos- un bald(o)
bardo le avrebbe riproposto in qualche
verso dedicatorio a quel bel volto
per vassallaggio alla sua vanità)

(13) PRESENZE NEOREALISTE

GENNARO MORRA

(14) Nell’esercizio delle scelte operative,e delle presenze neorealiste, segnaliamo l’opera di Gennaro Morra (1922), la cui produzione poetica è stata saggiamente calibrata più nella qualità che nella quantità, allineandosi a quanto ha luminosamente scritto Roberto Bertoldo in Nullismo e Letteratura, Novara 1998, ovvero che la pudicizia, rispetto alla propria opera, è la più bella dote di uno scrittore. E’, altresì, il segno che quando si scrive sa di non mentire a se stesso.Ed è ciò che troviamo nella poesia di Gennaro Morra, assieme ad una non rinnegata sacralità delle corrispondenze umane e familiari, che danno il giusto tono all’eloquio narrativo, chiamato a rivitalizzare un volto o una storia, nella circolarità di un sentimento, che unisce il ricordo alle proiezioni dell’anima. Paesaggi e figure interagiscono attraverso le immagini-racconto, per la ricerca dell’altro di sé del poeta, il quale si trova a suo agio quando i riferimenti poetici s’identifichino con il segno di una cultura periferica, che fornisce le ragioni di una incomunicabilità di tipo esistenziale. Il risultato, alla fine, è un insieme di monografie dell’anima nei campi della memoria. L’esperienza poetica di Gennaro Morra si circoscrive nell’area del neorealismo degli anni 1953-1957: un quinquennio in cui comparvero una cinquantina di volumi che massicciamente consacrarono e nello stesso tempo esaurirono il tentativo di imporre questo tipo di poesia, con i suoi temi riguardanti la miseria, lo sfruttamento, il folklore e la rivolta del contadino meridionale, anche se il Falqui definisce questi autori marxisti o poeti dell’istanza sociale, la cui avventura poetica terminò a causa della situazione poltico-sociale del paese che andava rapidamente cambiando. (Sergio Turconi, La poesia Neorealista Italiana, Mursia, Milano 1977, pp. 58-59-60), ma anche dall’avvicendarsi di una generazione poetica che non aveva vissuto le esperienze dell’antifascismo e della Resistenza, e che si indirizzava verso nuovi modelli di cultura neocapitalistica. Né vanno considerati in chiave riduttiva e marginale gli impulsi del cuore, che sono poi quelli che danno un senso al dire poetico di Morra, come una griglia capace di ospitare nelle sue maglie elementi condensativo.metaforici, come ha giustamente rilevato Walter Siti ne Il Neorealismo nella poesia italiana, 1941-1956, Einaudi Editore, 1980, pag. 44: Dietro ai carrozzoni della carovana / l’infanzia gioca a rimpiattino, / o mio cuore turbato, e nell’ombra ridesta / ansia di fanciulli e limpidezza di grida / per il dolce carillon delle giostre / nel gorgo delle lenti stagioni. / (da Un grido tra le mani, pag. 11). Per i neorealisti il sentimento finisce per essere niente più che uno strumento difensivo di compattezza, un evitare nello stesso tempo la distanza fisica e la difficoltà intellettuale, secondo il giudizio di Mario Cerroni il quale mette in evidenza alcuni versi di Morra, visti come temi-chiave del cuore, luogo privilegiato della condensazione, dove si concentra tutta la natura. Da qui nasce il patrimonio poetico di Gennaro Morra, che con Solstizio d’estate ,— Gastaldi, 1951, Parole udite domani, Schwartz, 1953, si fa più cospicuo in Un grido tra le mani, Rebellato Editore, 1959, seguito da Memoria di lei, (1972); un libretto in edizione privata di 100 esemplari numerati, con lo pseudonimo di Andrea Morghen e che pochi, come Zagarrio e noi che l’abbiamo ricevuto, hanno avuto la fortuna di leggere. Si tratta, in particolare, di un libretto di 26 pagine, contenenti cinque poesie di cui solo l’ultima ha il respiro di un poemetto dedicato alla donna amata, al centro di un discorso elegiaco, e di un nuovo petrarchismo novecentesco. Ad apertura del volume sono riportati due versi di Langston Hughes: My baby lives across de river / An’ I aint got no boat, e infine con Viaggio nel deserto, Firenze Libri, 1988.
Morra occupa un ruolo di protagonista all’interno della generazione dei neorealisti nel Molise, tanto è vero che fu incluso nell’antologia di Enrico Falqui: La giovane poesia, limitata a pochi validi, poeti, non rientranti nel periodo di nascita tra il 1922 e il 1930: (quelli della quarta generazione del Macrì), ma con opere pubblicate tra il 44 e il 55 e cioè: Fortini, Fiore, Piovano, Cerroni, Manichini, Zagarrio, Frattini, Pasolini, Accocca, Scotellaro, Di Ruscio e Morsucci, rilevando il carattere distintivo di Morra nel segno crepuscolare e pascoliano, il che rende il giudizio esatto, ma distante poi dalle altre soluzioni linguistiche innervate nel corso del tempo e che emergono nei testi inclusi in Viaggio nel deserto, sotto forma di stilemi, e intrusioni lessicali di tipo anglosassone, come a voler incorporare qualche suggestione metalinguistica, anche se il discorso è prevalentemente lirico-mitopoietico, ancorché fonico e musicale, ma di una musicalità in sintonia con la tradizione, per perdersi e ritrovarsi in essa. E’ una poesia dai toni discorsivi tra tristezza e pacata nostalgia, dove non manca la presenza della morte, che secondo un pensiero di Cioran, spesso si pensa senza tregua e vi si è rassegnati, e che in Morra si trasfigura in un’immagine antropologica, domestica e metamorfica, senza sconfinare nella documentazione del negativo. Come per Montale, anche per Morra il ricorso ai ricordi diventa condizione essenziale per esistere, perché solo nella memoria c’è il presente.
Questa tendenza regressiva a spaziare nel passato è dichiarata nei primi versi del testo: Il paese di mio padre, in Parole udite domani, ed esemplifica il percorso lungo il quale si formulano gli imput che danno spazio ai sentimenti, misurati nelle esposizioni e nei transiti memoriali: Da quando son tornato / a starmene in questo paese / mi sono fatto estraneo / a tutto il resto del mondo. /
E’ il primo segnale di isolamento e di ritorno in un paesaggio privato, proposto in ristretti nuclei oggettivi nei quali convergono miti e affetti familiari; che costituiscono gli unici agganci con l’ambiente rurale, visto come pausa d’isolamento e di fuga dalla città. Questa realtà per Morra è il Molise dell’infanzia e del ricordo, della coscienza amara del dramma collettivo del Sud. La poesia sociale di Morra, evidentemente definibile nell’area del neorealismo, col suo timbro epico, con il suo tono iterativo, cantilenante, secondo schemi tipicamente popolari, ha i suoi principali referenti nella desolata cognizione di un paesaggio geografico e umano irredimibile dalla sua condizione disperata, dove gli uomini non hanno neanche volti umani.(da: Letteratura delle regioni d’Italia —Storia e testi —di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli, Editrice La Scuola, Brescia, 1994, pag.54). Sul terreno specifico delle corrispondenze semantiche e dei correlativi oggettivi emerge il distacco tra letteratura e classe popolare, ovvero, tra innesto letterario e coscienza politica, così importanti nel dibattito culturale ed etico civile promosso negli anni 45.47 da Il Politecnico, per cui il termine sociale, coniato anche dal Manacorda alla poesia di Morra,va riferito, probabilmente, ad un contesto provinciale nel quale il poeta compila un repertorio di sensazioni umbratili, tra ermetismo e neorealismo, dove lo spostamento in avanti del dato sentimentale, figurativo, geografico ed esistenziale, trova una giusta collocazione nelle tematiche provenienti dal binomio città-campagna, che creano momenti di raccordo con un certo romanticismo isolato e maudit.
Ma è l’adesione ad un ambiente primitivo ad instaurare un rapporto confidenziale con la Natura, che diventa il luogo privilegiato della ricomposizione dei sentimenti, che si organizzano in un paese dell’anima nel quale trovano spazio tante piccole isole di solitario abbandono e di piacevole sopravvivenza.
E’ probabile che in questo perdersi e ritrovarsi si circoscriva la cifra poetica di Gennaro Morra, col suo tipico movimento sintattico, che si associa ad una struttura ritmica comprensiva di più simboli del mondo arcaico, recuperati da un abilissimo gioco di proiezione delle retrospettive mentali, che rimuovono radicalmente ogni connessione e rapporto con la vita urbana.
Si pensi, soprattutto a questa operazione di transfert, come condizione mimetica con la terra-madre, che non diventa mai elemento marginale, ma avventura della coscienza oscillante tra assopimento e risveglio, di fronte ad un mondo inalterabile e, per questo,, meno ostile, perché depositario di richiami ancestrali.
Quello che emerge è un reportage di scontri e incontri sul dato reale e immaginario in cui si inseriscono alcuni elementi mitici, ricostituiti da una memoria distaccata dalla letteratura dell’oggettività. E’ quanto si rileva nei primi documenti poetici caratterizzati da una duplice operatività linguistica, collegata più ad una gestione autonoma del significante che a vere e proprie fratture dicotomiche.
E’ un’operazione che può far nascere sospetti di ambiguità estetica, ma le intermittenze e i rovesciamenti formali, che si susseguono in una costante concatenazione e successione, sono consequenziali all’urto delle cose e al riaffacciarsi costante del confronto antitetico tra mondo periferico e mondo centrale: da qui le scelte linguistiche spostate sul versante dell’ermetismo e del neorealismo.
Ma è con la silloge Parole udite domani che si viene a realizzare un maggiore effetto nell’ambito della maturità stilistica e della più generale acquisizione del significante spostato in area neorealista. Morra, pur essendo un poeta del Sud ha saputo evitare le facili maledizioni che hanno accompagnato la poesia meridionale, mitigando le storie di miserie e di dolore,attraverso il recupero delle proprie radici, bruciando sul nascere, qualsiasi operazione di malumore e d’invettiva nei confronti dell’emarginazione e del potere.
Superato, così, il rischio d’un epigonismo di maniera, proprio di tanti poeti meridionali, prende forma e si consolida la poetica della memoria, fino ad approdare ad una solitudine campestre, che è amore per i propri campi e per le sere d’estate che giungono improvvise / sotto i lampioni delle piazze / dove i ragazzi imparano a chiamarsi / con nomi inventati nella rissa (Parole udite domani, pag. 12) . Dominano nel contesto poetico analisi e piccoli credi di fronte ad un’esistenza, dura e implacabile, in una policromia semantica supportata da una musicalità profonda e cameristica.
Vi sono poesie che mettono in rilievo il senso effimero del tempo, che muta e cambia il volto degli uomini e la vita stessa, rivisitati nel rapido scatto del pensiero, che traccia i contorni di un paesaggio immutabile negli anni, nell’impulso della riflessione e dell’autocompiacimento della propria misantropia. E’ in sintesi, lo stesso alibi poetico che portò Pavese a riconoscere nella campagna i luoghi originari di una interazione fisica e psicologica, dopo aver percepito un diverso rapporto con la vita e la natura.
Ed è quanto si rileva in Morra con i suoi centrifughi paesaggi mentali, che affiorano in un’atmosfera poetica, fortemente umana, e intimistica, nell’attimo stesso in cui vengono a frapporsi gli arretramenti psicologici volti alla ricerca del tempo perduto: Ritorno d’epoche sgomente / e adolescenza precoce, / avete preso il pallore del tempo. / Come un pensiero obbligato / la memoria mi stanca / questo costringermi / a indovinare il passato. / (da Parole udite domani, pag. 7).
C’è in questo esporsi nel mondo della memoria, una percezione acuta del senso del nulla, subito ripopolato da situazioni e fatti collocabili nel paradigma di storie che si evolvono nel rinnovato rapporto con le cose, quando subentrano i ritorni psicologici a ricostruire un tessuto umano dilacerato dalle contraddizioni quotidiane: Io qui vengo ad incontrarmi / con la notte e faccio barricate / per difendermi dal vuoto / ch’esse portano dietro di sé / finché il canto dei galli / non chiami l’alba sui monti. / (da: Parole udite domani, pag. 10).
Il meridionalismo di Morra è essenzialmente iconografico: da qui le celebrazioni dell’ambiente rurale, visto come luogo d’identificazione culturale e sentimentale, per meglio attingere ad un bacino di memorie recuperato attraverso un monolinguismo tematico di straordinaria innocenza e malinconia, che spontaneamente si manifesta quando il poeta si lascia alle spalle la città, per riconquistare vecchi sogni e nuove emozioni.
Si costituiscono così gli elementi connotativi di un discorso modellato dal senso della vita e della morte, col ripristino di storie d’epoche sgomente,) dove i morti li seppellisci a fior di terra / fuori la porta dell’orto, /e continui a portarli presenti, / li senti respirare nella polvere / accendi i lumi ai loro piedi / e li chiami come da un balcone. / Ciò è evidente in Parole udite domani nel quale il discorso si fa sommesso parlato, cadenza musicale e trascrizione fedele di un ambiente; un libro che a rileggerlo non sembra aver smarrito l’originaria forza evocatrice, quella che porta il poeta a scrivere, in maniera impareggiabile, qualche lettera al caro Velso Mucci, che è un gioiello di suasiva affabulazione alla luce del sacrificio della memoria, che si scioglie in una delicatissima short story. C’è un’oggettivazione quasi umana, fraterna di cose, come di persone che vivano e soffrano: è dolorante realismo che geme in versi scabri, dove si sente il soffocato singhiozzo, l’affanno di una “terra di pianto nato da occhi aperti a sorrisi di dolore”. Leggendo questi versi si prova la stessa impressione che si ha davanti alle sofferte figure umane ritratte da Carlo Levi (da Il Presente-poesia e critica, anno II°, n. 7, 196, di Oronzo Giordano), quel Levi con il quale il Morra fu in amicizia negli anni 56 e 57.
Viaggio nel deserto è l’ultimo volume di Gennaro Morra, dopo un silenzio durato sedici anni.
Vi appare, ancora una volta, l’impegno morale nel quale il poeta si è sempre affidato nel corso degli anni, inaugurando nuovi stilemi e neologismi, come collegamento alle forme meno scissioniste, ma pur sempre innovative nel linguaggio rispetto ai primi rapporti poetici.
Certo non emerge molto sul piano della resa sperimentale, tenendo presente il cauto equilibrio formale al quale si è sempre attenuto l’Autore, anche se l’esigenza di adeguarsi a nuove letture e temi, appare lodevole negli inserti e squarci plurilinguistici, che qui e là affiorano come segnali di frattura e di movimento lessicale.
Sono lontani i tempi delle suggestioni letterarie di Parole udite domani e di Un grido tra le mani. Il discorso è diventato più libero e meno elegiaco. Sembra questo Viaggio un ampio giro intorno al mondo nella violenza della Storia.
Riappaiono i tumulti di Piazza Venceslao e la Primavera di Praga, una e cento città dell’Europa e dell’America, il fiume Neva, Broadway e Wall Street.
“ A Broadway si beve ghiaccio e bourbon / misto all’acqua dell’Hudson / e le insegne che incendiano la notte / si spengono come candele, pag, 29, asienme a tutta una descrizione topografica di New York, con il Palazzo di Vetro e Manhattan e gli opachi quartieri di Brooklin.
“ Nel quartiere di Queen / un’ora d’amore / costa dai venti ai trenta dollari, / nel Bowery, invece, al suicida / ne bastano tre per una corda /”, pag. 31.
E’ un discoso che si evolve con assoluta coerenza e fdeltà di fronte alla elencazione di fatti e al collasso di una civiltà: una testimonianza altamente sofferta di un umanista che ritrova nela catastrofe il senso profondo della propria fragilità e impotenza, attraverso una autonomia testuale che affronta i riferimenti storici con un forte impegno critico e civile.
Questa presenza di temi sociali e resistenziali, disseminati nel corpus dell’opera, ci ricordano un altro protagonista della nostra poesia: Vittorio Sereni, che con Frontiera e Diario d’Algeria, ha tradotto con lucida trasparenza, il teatro di guerra che investì e bruciò l’Europa intera.
C’è in effetti una posizione critica e ideologica, tutt’altro che marginale di fronte al potere dei colonnelli in Grecia e dei carri armati in Ungheria.
Si tratta di una breve informazione poetica, inserita in un contesto strutturale che lascia spazio nella seconda parte della raccolta a interventi elegiaci e autobiografici; tuttavia è innegabile la sua partecipazione con voce dolorosa a sé stante.
Oltre le sigle del ricordo e della speranza di ricucire i drammi e le violenze di popoli e civiltà, nasce il Viaggio, che il poeta stesso riconosce come un transito nel deserto dei giorni bui e che potrebbe essere, fuori della metafora, il luogo della follia e della morte, e chissà, forse anche il passaggio nel deserto della poesia, che sembra aver fallito il suo compito di salvezza, da qui l’opinione ricorrente della sua inutilità.

IL PAESE DI MIO PADRE

Da quando son tornato
a starmene in questo paese
mi son fatto estraneo
a tutto il resto del mondo.

Una notte
vidi portarmi a sepoltura:
compresi allora
che urgeva il bisogno
di farmi amico l’olivo e la vite,
di porgere il cercine
alla donna della fonte.

Allora compresi
che la mandria si sarebbe affacciata
sul muro di cinta al mio sepolcro.
E dimenticai i pinnacoli barocchi,
i pescatori col pileo,
i palazzi tinti di rosa.

Ora resisto al bruciore
che il fumo delle stoppie
mi fa nelle narici aperte
e, come un fanciullo, aspetto le giostre
somiglianti a case cupolate.
Quegli altri paesi esistono
soltanto nei libri;
li ricordo come una lezione
bene imparata
e mi riempie di meraviglia
il sentirli chiamare.
Attenderò il giorno
in cui mi infosseranno i piedi
in questa terra
perché vi metta le radici,
mangerò fave fresche
e pannocchie bollite,
mi guarderò dai cani dei pastori,
le notti d’estate le passerò a cantare
sopra mammelle di grano
questo è il paese di mio padre.
(da: Parole udite domani,1953)

LETTERA

Caro Velso
qui dove mi esilio
per fuggire ai tramonti improvvisi
ai raggi obliqui senza luce,
agli orizzonti proibiti
da pareti che si restringono,
qui la notte viene di lontano
fors’anche da Brà
o da un meraviglioso paese;
qui la notte la portano i buoi
nei neri occhi assonnati
e il gracidare dagli stagni
che non hanno riflessi di stelle.

Ancora qualche muro mi difende
dalla paura che recano
le notti senza annunzi di sere,
eppure ogni volta è un inganno
di ombre rapide dietro alle quali
i prati affondano come il passo
nella mota di certi temporali.

Dove s’ancori il silenzio
non saprei confidarti;
io spoglio mi sento e non tocco
da questi contagi.
Se mi sporgo
l’occhio annega e nel lento cammino
riconduce al tatto ogni cosa smarrita.

Di sotto alla casa
l’asina percuote il selciato
con un ritmo di trance
i cani, stizziti, abbaiano
all’eco dei propri latrati
o al lamento che fanno lontano
gli organetti di Barberia;
nella stanza accanto, in alto
stanno il cappello ed il bastone
con il quale mio nonno
rimuoveva la terra
alle radici delle piante.
Se volessi scavare
il seme che ho interrato stamane
saprei dove ritrovarlo ad occhi chiusi.
Io qui non vengo a riposare:
m’affaticano le veglie
sul saccone riempito
con cartocci di granturco,
io qui vengo ad incontrarmi
con la notte e faccio barricate
per difendermi dal vuoto
ch’esse portano dietro di sé
finchè il canto dei galli
non chiami l’alba sui monti
(da: Parole udite domani, 1953)

PAESE

Le tue spalle di roccia,
le mura senza tempo,
i santi immobili alle cantonate,
il silenzio che stagna
dentro una cerchia d’ulivi.
Ecco i miei luoghi dove hanno voce
soltanto le campane
e il tempo fa ressa
attorno alle sue mura.

Le donne sulla soglia delle case stanno
a scaldarsi con il fiato negli scialli;
gli uomini sotto le arcate, chiusi
con i visi nascosti nel silenzio triste
e nell’ozio di mantelli scuri.
Tu dici che la vita è una veglia
ma il sonno nasce sotto le ciglia
di questa mia gente stenta.
Lo porta il sole della meridiana,
l’uggia della nebbia dagli orti,
il lamento della tramontana.
Oh non è qui la vita, in questa cava
che i secoli assediano e la noia
fa profonda; non è
in questo silenzio indolente.
(da:Parole udite domani, 1953)

PIANTO PER IL SUD

Tu, terra appena scalfita dai solchi,
terra battuta da piedi mai calzati
che ti camminano sul cuore antico,
che ti affondano il sasso nella carne
e non ti lamenti le ferite
e se gridi, la voce
ti si stanca nella gola,
terra di pianto nato da occhi
scoperti a sorrisi di dolore.
Nel tuo ventre di cenere
è briglia la radice dell’acacia
e dell’agave
e del cardo dove dirupa l’abisso.
Le tue case diroccate
sono denti di un teschio;
come capestri vi pendono ancora
le funi che tenevano al collo
i muli nutriti di gramigna.
E i cani smagrati
ancora vi fanno la guardia.
Nel tuo cielo inarcato le campane
suonano sempre a martello
paese di chierici in processioni
e di salmodie mormorate
per vicoli storti.
I morti li seppellisci a fior di terra
fuori la porta dell’orto
e continui a portarli presenti,
li senti respirare nella polvere,
accendi i lumini ai loro piedi
e li chiami come da un balcone.
La tua ventura è d’oziare
per le strade di questa prigione
urlanti di scritte sui muri delle case
che hanno le spalle volte al mondo
da dove nessuno ti chiama,
nessuno risponde all’amaro richiamo
paese di fuori legge per fame.

Oh, nel Sud risalgono i monti
e si chiamano a viva voce
da un paese all’altro.
Nel Sud vi sono soltanto
chiese e pagliai
e strade senza sbocchi,
strade allargate
dalla carraia dei barocci.

Nel Sud si muore depredati,
anche senza la camicia.
Che cosa sarebbe il Sud
senza la malaria nei pozzi
e le carestie,
senza il gallo che al mattino
ti sveglia dalla spalliera del letto,
senza le cantilene nelle aie.
Che cosa sarebbe se i suoi abitanti
avessero volti di uomini.
(da:Parole udite domani,1953)

SULLA COLLINA DEI VENTI

Non v’è riposo sotto le croci
confitte nel cuore dei morti;
qui, sulla soglia del mondo,
non dà luce il chiarore dei lumi.
L’erba sui tumuli che i morti
inarcano con il loro respiro
l’ha bruciata il gelo di novembre.

Novembre è sceso nelle tombe ,
dentro i sarcofagi di cenere
attraverso le crepe della terra
per dove passano le nostre voci
d’uomini a gridare nomi vani
sulla collina dei venti.
(da:Parole udite domani, 1953)

RITORNI D’EPOCHE SGOMENTE

Ritorni d’epoche sgomente
e adolescenza precoce,
avete preso il pallore del tempo.
Come un pensiero obbligato
la memoria mi stanca
questo costringermi
a indovinare il passato.
…………………………………………
Oh, ignoti profumi di giugno
io non seppi mai che foste voi
ad imbiancare l’olivo.
E a grattare la terra,
non le corolle cadute cercavo
ma il lombrico nascosto,
la tana della talpa.
E’ la quotidiana ferita
la portavo come un premio
assaporando
l’acredine del sangue.
(da: Parole udite domani, 1953)

ESTATE

Bianca estate, alla tua luce inerte
cerco gli archi delle schiene, piegate
a tentare il sapore della terra
sulla destra del fiume di pietre;
dall’alto scopro le mie strade
distese in un riposo insonne
laggiù oltre l’aie polverose
tra la radura di stoppie dove
la terra grida sete ed arso vento
sotto cieli distanti, perduti
agli impalpabili orizzonti.

Pigro nell’aria assolata è il silenzio
che nasce qui; da queste antiche tombe,
tra le foglie d’ulivo immote,
fuori dai chiusi spazi delle case
dove la gente si muove senz’ombra,
dove il sole s’adagia indolente e il fumo
dei secciai s’annida nelle crepe
a preparare l’autunno.
(da: Parole udite domani,1953)

SENTO IL CUORE DELLA TERRA

Lasciatemi andare per queste strade,
lasciate che il piede affondi
nel solco che traccia la ruota,
nei fossi che la pioggia fa colmi,
lasciate che pesti l’erba
riversa nella mota.
Una guancia accosto alle crepe
che s’aprono nei prati
e sento il cuore della terra
inviolato alitare il suo male.
Non voglio più tornare
sulle strade catramate:
i miei passi qui hanno
dolce riposo e m’è guanciale
l’afflitto verde del trifoglio.
(da:Parole udite domani, 1953)

ED IO A FARMI SCHIAVO

Ed ora viene la pioggia (affrettato
questo rosario d’acqua sonante
rotto dagli embrici sconnessi delle foglie
aperte come palmo di mano
lacere), a lavare le fogne,
a nutrire i miei spazi d’ombra
(fragili spazi d’occulte stagioni)
a far germogli di radici attorno
al tempo che fa spreco di noia,
ad ammucchiar rovina di pensieri
in un angolo battuto dall’ombra
qui dove un grido sarebbe un pavese
sugli anni privi di memorie.
Ma l’inverno è presagio di sgombri relitti:
fumano le mura degli squarci
dove sterile il muschio intristisce;
madidi pendono i fiori alle finestre,
come un rogo si spengono le case.
Nel cuore del mattino m’ha destato
questa pioggia d’acqua e di voci,
deludendo un desiderio di sole
forbito d’abbagli sul granito
che suda in lontane città di nebbia;
ed io a farmi schiavo di liquido
pianto nella domenica insulsa,
a prepararmi un limite scoperto
oltre il viaggio indifeso, oltre il suono
d’una mattutina fanfara di campane.
(da:Parole udite domani, 1953)

NEL TRAGITTO DEL TEMPO

E’ il tempo delle vigne devastate.
Per le vie già l’odore di vinacce
che i carri recano nell’aria
mossa dal vento dei canneti.
………………………………………….
In nessun’ora come in questa,
rapida e indecisa nel vespro,
ho scoperto nelle voci stenuate
un pianto remoto di sgomento
che geme sotto il peso della creta
trascinata come un segno per le strade.
E scalzi piedi calcano
il debole tepore dei selciati;
diluvia la sera nei cortili,
negli occhi chiari di sdegno,
nel seme duro a aprirsi,
nei tini rossi di mosto, sulle mani
colorate come di sangue stinto.
Annotta nei cuori vinti dalla sorte
ma spazio c’è in me per quest’ombre,
per questi convogli d’uomini
perduti nel tragitto del tempo.
(da: Parole udite domani, 1953)

Seconda parte
 

GIOSE RIMANELLI

(15) Quando si parla di poeti e scrittori esclusi o dimenticati dai circuiti editoriali più importanti, si vuole solo evidenziare uno status di emarginazione culturale che colpisce sia i poeti autoctoni sia quelli residenti all’estero. Ci riferiamo, in particolare a uno dei casi letterari più emblematici e controversi, quello di Giose Rimanelli, uno scrittore che, sradicato dalla realtà molisana e di fronte ai guasti provocati da una società fortemente industrializzata, come quella americana, nella quale egli vive e opera ormai da molti anni, non esita a denunciarne i dati negativi, con un impegno che ci ricorda quello del gruppo degli angry young men e, più di recente, dei poeti della Beat Generation di cui hanno fatto parte Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs, e Gregory Corso, ma è anche un intellettuale di talento a cui la critica di casa nostra ha riservato un imperdonabile silenzio, come ha fatto rilevare Giacinto Spagnoletti nella sua “Storia della letteratura italiana”-Newton Comptom 1994, pag.856-857,- riferendosi, in particolare, al romanzo “Tiro al piccione” della prima edizione mondadoriana del 53 e della riedizione einaudiana del 92. Ma qui ci interessa, la poesia di Rimanelli scritta in forma di Cantica tra il 1964 e il 1993, attraverso la quale egli tenta di decifrare i segni e i segnali di culture diverse in un mondo visto con gli occhi di ”Alien”.E’ un documento etico-ideologico e linguistico-formale tra i più significativi, che globalizza l’esistente in un canto epico di rara tenuta ed efficacia, unitario nel suo – continuum- poetico dove non mancano gli agganci memoriali con il “crudo Molise”, che riemerge come un fossile nei vari momenti di recupero del passato. La verità è che Rimanelli è rimasto legato alle sue radici molisane e al concetto di una “Meridionalità” che, per sua ammissione,va estesa anche ai poeti non residenti in Italia, ”che hanno però cantato un’unica e comunale pena, un’unica e regionale gioia, unisona e corale nell’antropologica ansia di ritrovare il germe, le radici”, così come dichiarato nella “Rivista di Studi Italiani”, dic. 86 giugno 87, pp.141-142, e riportato da Luigi Fontanella su “Misure Critiche” nn. 68-69 pag.132, anno 1988, e che sta pure a dimostrare come il dato geospirituale e il trapianto dell’io si slarghino su piani territoriali assai diversi tra loro, per un nuovo conflitto dicotomico città-STATES e Regione-MONDO, verificabili nel volume dal titolo: Alien Cantica An American Journey -1964-1993-. edito e tradotto da Luigi Bonaffini – New York -Peter Lang , 1995, con un saggio critico di Alberto Granese e una Postfazione di Anthony Burgess, oltre ad una nota dell’Autore, che è una ministoria intorno ad un sofferto recupero di un magro libro di versi scritti in slangy American, dove emerge la sua condizione di “Alien” in un paese-pianeta nel quale agisce un immaginario personaggio di nome Bambolino o Sonny Boy, ovvero l’altro di sé del poeta che finisce con l’essere il soggetto principale di questa poesia chiamato a misurarsi con l’oggettività delle cose, in uno sdoppiamento di ruolo, di sentimenti e di situazioni varie, anche se a condurre il gioco (e che splendido gioco!) è il poeta stesso con la sua voce, paterna e premurosa, nel monologo-dialogo e scissione dell’io parlante:
XLIV (2^ parte)

Barbugli eretto allo specchio oh Bambolino mio diletto
me stesso sei là che m’aspetti? Questa vita è la mia vita
così sana così piena di carezze di sorprese mi raffina
mi trascina senza fine nella vita questa vita la mia vita
un po’ fragile un po’ facile ora tenera ora tremula ora
petalo ora palpebra ora palpito ora porpora ora turbine
ora cardine ora pettine ora platino ora viscere ora redine
ora polvere ora lampada questa vita la mia vita così
strana così piena può stordirmi può fermarsi può chiamarmi
dove crede nei crepacci nella neve sopra il sole le bufere
questa vita la mia vita è l’amante d’ogni sera m’idoleggia
mi raggira e mi abbraccia lei mi crede questa vita
la mia vita è la sola che possiede: tu non l’ami? Eppure
Bambolino lei ti veglia: è un’ardente lampada di fede.

Se è vero che “ogni emigrazione è una lacerazione”, come ha scritto Rimanelli nell’Elogio per mio padre”, capitolo 2 del suo recente: “Dirige me Domine, Deus Meus”, riportato da Giovanni Tesio nella Postfazione al volume di poesie in dialetto di Rimanelli dal titolo: I RASCENIJE, Edizioni MobyDick-Cooperativa Tratti-Faenza-Giugno 1966, allora è anche vero che i materiali etnici ritrovati in questo viaggio americano, in particolare: qualche zolla del Molise, alcune gocce d’olio di frantoio e l’immancabile rosolio di casa, sono da considerare veri e propri legamenti territoriali dai quali ripartire per capire le utopie, i sogni, gli allarmi psicosomatici e psiconirici come quelli dichiarati a pag.138 , Cantica LII di “Alien “

per Joseph Tusiani
L’aroma giunge a sbuffi dalle scale
angolo di letto, focolare.

Children growing guns in band,
scrisse Ralph sul giornale.
E corrono i vicoli, le strade,
uccidono se stessi, i loro pari.
In fiamme sono i villaggi
in questa Merica di sogno dei miei avi,
tutto è possibile niente è strano.

Io soltanto. E’ spesso, solo solo al buio,
mi scruto se ho il cancro, mi siedo
accanto al letto o sul divano, di profilo:
penso lontano, oltre il mare oltre i fuochi
i giochi del bimbo che ero, il suo esilio
designato. Niente è più nuovo,
eccetto domani, appeso a un filo.

Da qui il desiderio di ricerca di un paese innocente che rivive nella indimenticabile “Kalena”, dove approdare e ri(nascere) fuori dall’inferno metropolitano, prima che ”l’asma” ritorni pag. 12-, e metta in circolo il meccanismo del disagio esistenziale trasferito su Sonny Boy il quale svolge il ruolo di “passenger”, ora abbagliato dalle insegne al neon delle notti tiepide di Chicago, ora fermo vicino ai fiumi che di reale hanno solo i simboli della civiltà dei consumi, con l’Hudson macchiato d’olio e il Minnesota River, diventato un canale di fango. E’ un viaggio che mette in luce violenza e degrado, paesaggi primordiali come quello del vertiginoso Grand Canyon e visioni di azzurri nerastri come i cieli di Santa Barbara e Berkeley, tra fumo e caos, in una fitta topografia di luoghi come il “ lercio King Midas Saloon”(pag.12), o l’O.K. Corral del Montana (pag.58),tra città e quartieri che bruciano, come Los Angeles e il Bronx (pag.140) e “ vichi camionali “ dove / ragazzi non più teneri crescono armi nelle mani /….” / giustiziano se stessi i loro pari “ / ( LII Ter-pag.142 ) fino al reportage di alcuni eventi di cronaca nera, come quelli sulla “setta di cultisti del Branch Davidians, rinserrati nel loro Ranch Apocalypse, cremati vivi nelle fiamme e nel fuoco delle loro baracche di legna “ ”con quelle loro sofisticate armi, quei mirini pronti, innescati / e cibo, provviste da durare fino alla fine del mondo” : il tutto come in un rapporto informativo intorno alle cose e ai fatti quotidiani , dove il punto più alto è costituito dalle storie narrate ed assemblate in una interazione plurilinguistica, che mette allo scoperto civiltà letterarie diverse, fino al recupero paleografico del “verbum” latino, all’interno di qualche tema squisitamente metafisico (Cantica XVIII pag.48).
Poesia questa di “Alien Cantica An American Journey”, che attraversa il mondo con ampie graffiature chiaroscurali i cui segni si saldano e si fondono all’interno di uno sperimentalismo, che mette in evidenza un lavoro molto controllato, raramente di laboratorio o di pratica oltranzista, già iniziato con “Carmina Blabla”, Rebellato, Padova, 1967 e Jazzymood (1999), fino a “ Alien Cantica An American Journey “, che si differenzia per i diversi tracciati e segnali semiologici e psicoespressivi attraverso i quali, Giose Rimanelli, recuperando gran parte della Neoavanguardia italiana e passando per la Beat Generation, realizza una personalissima poetica nell’ampio panorama della cultura contemporanea euroamericana .
Di questi esiti, Egli ne dà ampia documentazione attraverso il mèlange linguistico, che si colloca tra mondo esterno e mondo interno; non a caso il viaggio di Bambolino o Sonny Boy è uno smarrirsi continuo nella società contemporanea che vive in un Inferno dantesco rivisitato in chiave moderna attraverso Storie o Cantiche, che diventano rappresentazione crudele e, a volte, spietata di tutto ciò che sta davanti agli occhi, per una denuncia anche critica del quotidiano negativo.
“Alien Cantica An American Journey” resta un documento esemplare, nella sua eccezionalità poetica: un vero e proprio “poème en prose” come autentico messaggio lasciato dal poeta nel suo lungo girovagare per l’America. Ma è anche un appuntamento retrospettivo, con ampi agganci mentali agli affetti familiari, che rivivono in pagine “molisane” messe in “Appendice” e nel pieno cuore della “Cantica”, all’interno di un’atmosfera di ricordi e di gestualità indimenticabili, con una pluriscrittura psicanalitica che avrebbe certamente fatto piacere a Jacques Lacan.

Oh va’ via da quel lercio King Midas Saloon sull’autostrada
con le sue sguerce slabbrate minifucks fuggite di casa
e Reverend Spoon pastore di condoms e dildos che sparla
con strazio di AIDS e doomsday nel suo colmo bicchiere.
Ma questo a parte, tu sei stufo di birra di sbirri.
E adesso ascoltami bene, Bambolino: scivola intatto
nello spacco di scalpo che ancor hai un rock o un rap,
metti un piede avanti a quell’altro e se la porta ti sbatte
alla schiena cacciandoti fuori non battere ciglio: hai solo
dopo tutto lasciato mammolette, primroses di sfatti giacigli.

Impala la notte: non vi trovi sbadigli ma maglie di stelle,
e non sbiancare d’orrore nell’improvviso tremore (terrore?)
che ti scaglia fuor del paniere per quel sadico muso di rossa
Corvette che di balzo sbuca dal buio e quasi t’annusa
rincorsa com’è da cops e strida e lampi di corte mitraglie.

Questa è la tiepida notte di Chicago, anni dopo Al Capone.
Non vedi quelle luci blugialle blurosa di pelle carnosa
che abbagliano tagliano visi risate di gente ch’esplode
su strade balconi, e quelle cosce muschiose che sfrusciano
ansiose d’amore? Effluvio di vita di morte nel cuore.
Letti profondi, sensuali guanciali un po’ lustri di bava
palustre aggrumata come quel tempo, ad Amsterdam, in vuote
sere di bile cercando Van Gogh il quartiere degli Albatros
dei mariners affogando sonno libidine nell’acqua lustrale
dei canali per paura che addosso ti crollasse il mattino.

Su su, Bambolino: guarda quel mambo di gambe quelle mani
quei culi quell’oceano ondoso di anche di curve con labili
sibili passandoti accanto, e osserva mano a mano la mista
conserva di coppie con mano nella mano e le altre, spogliate
forse di affetti, annoiate e distratte, domandagli: come mai?

Ma subito il ritmo s’impiglia, il rap è finito ed un frale
vento di mare, perfido australe, ora sale dal lago si mette
ad urlare, ferito animale, nelle valli nevose della tua mente.
Forme d’ombre remote, di ore alterne, ora ruzzolano lente
dalle lanterne del Parco. E’ giorno di nuovo, e l’asma ritorna.

Altre occasioni poetiche Rimanelli le ha formalizzate nel tempo con editori italiani; ricordiamo a tal proposito, il volumetto pubblicato da Caramanica nel 1998, con il titolo Sonetti per Joseph,, fino alla recente plaquette Terzine estorte dal silenzio, Enne, 2004, dell’editore molisano Enzo Nocera, a parte alcuni volumi di narrativa pubblicati presso l’editore Cosmo Iannone di Isernia. Chi ha seguito da vicino il percorso letterario di Giose Rimanelli non può definire questo scrittore e poeta un monolinguista, in quanto sono tanti i referenti a livello di significante assorbiti nell’ambito di più civiltà letterarie, a cominciare dal classicismo medioevale al neorealismo, dalla Neoavanguardia, alla letteratura angloamericana di Charles Olson ed Herman Melville, da Samuel Beckett, a Pound, da Walt Whitman a Ruben Dario, con qualche curiosità metafisica verso George Poulet, come rivisitazione e riappropriazione temporale dei suoi cinque anni trascorsi nel seminario di Ascoli Satriano in Puglia, che gli consentirono una intensa acculturazione dentro un orizzonte occupato totalmente dal medioevo, dalla patristica ai mistici, dalla letteratura religiosa controriformista ai quaresimali di Padre Semeria.(Sebastiano Martelli).
Ma l’elenco delle frequentazioni letterarie è soltanto sbrigativo, e non rende giustizia delle ampie letture dalle quali Rimanelli ha limato i suoi arnesi, per un mestiere, quello dello scrittore, aperto a
tutto campo. Il suo dinamismo linguistico non è mai conclusivo: da qui l’ansia di rimescolare le carte in tavola, per rimettere tutto in gioco e riscoprire la realtà perché il materiale dell’arte, parafrasando Bradley, non è mai lo stesso. Il giudizio estetico di Bradley, che rileviamo, casualmente, da una lettura sul concetto relativo al metodo di analisi della realtà, proprio di questo esponente del neohegelismo inglese, autore, tra l’altro dell’opera Appearence and Reality, Londra, 1893, ci porta indirettamente a ciò che ha scritto Anthony Burgess nella Postfazione al volume “Alien Cantica” e che si collega, per certi aspetti, al pensiero di Bradley: Giose Rimanelli è uno di quei notevoli scrittori che come Joseph Conrad e Jerry Peterkiewicz e, tra i suoi conterranei, Niccolò Tucci, è passato all’inglese dalla sua prima lingua proponendosi di ringiovanirlo in maniera che pochi scrittori, benedetti e appesantiti dall’inglese come loro lingua primaria, hanno potuto fare.In un certo senso ogni scrittore nutre il desiderio di creare non solo opere d’arte nuove, fresche ed originali, ma anche ricreare la medianità del linguaggio. La tesi di Bradley e l’enunciato di Burgess tornano a conforto del nostro giudizio per cui il linguaggio di Rimanelli è una riconduzione agli stadi di una lingua-forma, inconsciamente e volutamente archetipa e inedita, che lo fa apparire, di volta in volta, il maudit di sempre, il camminante sotto cieli diversi, barbaro e angelo insieme, malinconico e Bambolino nei momenti di abbandono o di rivisitazione del passato. La ricerca paleoneometamorfica della parola rimane per Rimanelli autentico materiale dell’arte riproposto sempre come rapporto/confronto con sé stesso e la realtà. La spinta esponenziale del linguaggio fa sì che si apra a ventaglio la maggior parte del dizionarietto dei termini critici (stilistico-linguistici) facendoli confluire e oggettivare come materiale dell’anima. Ci riferiamo al dolore-esilio-rancore, che mettono allo scoperto un insieme di informazioni collegate fra loro come unità centrale. Qui aggiungiamo anche altri aspetti come per esempio l’ortografia psicofonetica, il reiterato uso e abuso della parola inventata o recuperata, le affinità ideologiche con i gruppi culturali più avanzati, che costituiscono solo una pagina dell’esperienza letteraria di Rimanelli, il quale non dimentica né la tradizione né la seduzione linguistica autre, ma neanche l’amore per la sua terra, che rivive in tutte le sue opere di narrativa e di poesia. Non vi è dubbio che a rimarcare il significante sia sempre l’aggancio ad una situazione psicologica tesa a individuare in due patrie, lontane e vicine: l’America e il Molise, due territori di storia e di memoria, di sogno e delusione. Non a caso la silloge Sonetti per Josseph diventa un transito poetico fatto di pensosa meditazione e rievocazione della vita, anche se a prevalere è la religione della morte che entra nelle pieghe spirituali del poeta e ne fa un cantore di calda ironia e fredda lucidità tra presente e passato, mito e realtà: una poesia che accomuna dialetto e lingua, storia e tradizione, innovazione e sperimentalismo, per spaziare in quella zona misteriosa dalla quale è difficile captarne le origini, come quelle che hanno dato vita alla miniplaquette, Terzine estorte dal silenzio, tutte sostenute dal gioco della parola e dall’ironia, dove vanno a collocarsi inserti di saggezza della quotidianità dell’essere, tra sound jazzistico, e un tenero amore per il creato. Ma chi meglio di Rimanelli può descrivere la sua poetica quando afferma: Solo chi è lontano conosce la pena di non essere vicino. E ciò si applica all’amore. L’amore può essere carnale o mistico, amicizia o intellettuale conoscenza, partecipazione in progetti altruistici o richiamo di aiuto. E l’amore si mostra specie quando è mostrato. Il mio amore per il Molise ha sapore di fuga e ritorno, smemoratezza e riconciliazione. So che affonda nella terra, nei suoi fiumi, nel sarcasmo che mi saluta, nel sorriso che m’invade, la stretta di mano sul crocevia. Il mio amore è il fanciullo che è partito ed è l’uomo che ha inventato il mito Molise per potersi risciacquare nei suoi fiumi. Con questa password d’accesso diventa facile per il lettore introdursi nelle opere di questo scrittore, che anche dopo la lacerazione di Ground Zero, rivive la sua storia umana e letteraria tra l’America e il Molise, con l’animo e l’avventura di un viajero en el mundo.

II
Panico volo
su curve viscide vie
nella accecata Savannah
per infine crollare sfinito su griglie
di magnolia e ortica, un mondo feroce
di coleotteri e formiche…..
Il mare
giù giù rantola e sbatte
ma qui nessuno verrà a cercarti
imboscarti
parlarti di vocazione rimorsi
fughe astiose notturne
come quei gatti
di ròtte grondaie o quei cani

quei cani còtti di sole di sale
sull’asfalto che fuma.

Per lui solo
c’erano state notti escoriate
insicure trascorse nel brivido fosco
del chiaro di luna,
appoggiato come sempre per caso
col suo capo reclino pensoso
sulla crosta di muffa
della vecchia persiana di casa
nel crudo Molise
quando i sogni (essi pure) erano
draghi…..
Ma così disteso rappreso,
non vedere non sentire:
mentre il rombo che arriva
col giorno è solo il turbine sordido
delle odiose scorie di ieri.

*
Ma poi ti dicevi,
certo stupito atterrito i chiusi pugni
sul petto sul viso
e il male all’anca alla schiena.
Oh su su , Bambolino,
ancora e sempre sepolto imbottito
nel fradicio mito del fortes fortuna, etc.?
Svegliati, per favore…….Ma non strozzare,
ti prego, quell’ansia sorda d’anni
pieni felici trascorsi
nell’enigmatico foglio della parola
e ad uno ad uno contati stipati
nell’umida cella assolata del cranio
con appena una sedia una branda,
nessun cielo alle sbarre, finchè la morte
non tornasse a prenderti di nuovo.

XIX

Mia madre le mie vie

bastarde insidiose flessuose amorose

rotonde profonde le mie vie
nel sole e all’ombra di platani olmi
le mie vie di vie chiassose sassose
turiboli e triboli sulle vie del mondo

Mia madre le mie vie

una mappa di vene di pori
tortuose mostruose di senape sale
nodi di ghiande lamine d’oro tra rovi
nel fango di vie cercando la mia via
che sale le scale porta nel mondo
Mia madre le mie vie

una testa che scoppia di pena tremori
ineffabile amore d’amore ma tu a stento
ancor vivo nello scroscio di tuono
che taglia la sera perfora il buio di vie
su cui arranchi guardandoti intorno

Mia madre le mie vie

icona all’incrocio di vie con fiori
secchi la testa reclina mentre a distanza
sopra ponti di vie mangiate da tarli guide
frustano cavalli carichi di pacchi sudore
nell’incomprensibile dolore

V

Oh va’ via da quel lercio King Midas Saloon sull’autostrada
con le sue sguerce slabbrate minifucks fuggite di casa
e Reverend Spoon pastore di condoms e dildos che sparla
con strazio di AIDS e doomsday nel suo colmo bicchiere.
Ma questo a parte, tu sei stufo di birra di sbirri.
E adesso ascoltami bene, Bambolino: scivola intatto
nello spacco di scalpo che ancor hai un rock o un rap,
metti un piede avanti a quell’altro e se la porta ti sbatte
alla schiena cacciandoti fuori non battere ciglio: hai solo
dopo tutto lasciato mammolette, primroses di sfatti giacigli.

Impala la notte: non vi trovi sbadigli ma maglie di stelle,
e non sbiancare d’orrore nell’improvviso tremore (terrore?)
che ti scaglia fuor del paniere per quel sadico muso di rossa
Corvette che di balzo sbuca dal buio e quasi t’annusa
rincorsa com’è da cops e strida e lampi di corte mitraglie.

Questa è la tiepida notte di Chicago, anni dopo Al Capone.
Non vedi quelle luci blugialle blurosa di pelle carnosa
che abbagliano tagliano visi risate di gente ch’esplode
su strade balconi, e quelle cosce muschiose che sfrusciano
ansiose d’amore? Effluvio di vita di morte nel cuore.

Letti profondi, sensuali guanciali un po’ lustri di bava
palustre aggrumata come quel tempo, ad Amsterdam, in vuote
sere di bile cercando Van Gogh il quartiere degli Albatros
dei mariners affogando sonno libidine nell’acqua lustrale
dei canali per paura che addosso ti crollasse il mattino

Su su, Bambolino: guarda quel mambo di gambe quelle mani
quei culi quell’oceano ondoso di anche di curve con labili
sibili passandoti accanto, e osserva mano a mano la mista
conserva di coppie con mano nella mano e le altre, spogliate
forse di affetti, annoiate e distratte, domandagli:: come mai?

Ma subito il ritmo s’impiglia, il rap è finito ed un frale
vento di mare, perfido australe, ora sale dal lago si mette
ad urlare, ferito animale, nelle valli nevose della tua mente.
Forme d’ombre remote, di ore alterne, ora ruzzolano lente
dalle lanterne del Parco. E’ giorno di nuovo, e l’asma ritorna.

VIII

Eri una pianta tra le piante del cielo:
intruglio di scorie metalli gialli fili
di paglia con quel tuo eterno rincorrere
la strada che abbaglia, la freccia che taglia,
un flusso felice che ammassa di rosa le sere
la neve il silenzio il rapido amore le voci
l’astrale richiamo oh fly the friendly skies
sull’eremo strano di quest’altipiano.

Ora strusciano e passano, vampe di bruno
di miele, solo curve figure: gli sciatori
del sabato; ma poi d’improvviso s’adorna
l’attesa, ritorna la sera nel flebile flusso
che addossa la neve il pensiero a conche di sonno,
a voci vicine lontane ch’echeggiano intorno.

Niente è più incerto dell’oggi sfogliando gerani
nell’eremo strano di quest’altipiano.

Eri una pianta tra le piante del cielo:
adesso più non avrai l’oscuro furioso piacere
di fendere la sera in quelle aspre abituali
trottate dentro scrosci iracondi di pioggia
risate nei morsi crudi del madido gelo appeso
nel cielo come muco indurito ingiallito
da brutali bufere, ma il cuore era sazio sereno
nell’eremo strano di quest’altipiano.

Colmavi di spazio il pensiero anche se tralci
di quest’orribile gelo ancora avvolgevano
di strazio di siero la ragnatela di vene
nel delicato intelletto: uno striato violino
di resina cera che hai cullato sul petto
e udito stridere nelle notti del crescere.
Bruma ora ed oro mesce l’oggi sui curvi ripiani
dell’eremo strano di quest’altipiano.

Eri una pianta tra le piante del cielo.
Un Minnesota Mike? Wham, bam, thank you, ma’am!
Sei adesso mangiato dai rospi che popolano
stagni fontane e le alture su su, i declivi
su cui cade lo sguardo e dove risplende cinereo
l’occhio sidereo delle campane, quel canto
che ancora t’avvolge t’ammalia di palpito umano
nell’eremo strano di quest’altipiano

XII

Sei entrato ieri sera nel bazar della stazione
per fiuto sapendo che avresti rubato qualcosa.
Sei ancora quel vecchio stupidone malato d’azione

che ha perso pettine e specchio ed ora è Primula
Rossa, violetta stordita che ancora non osa
cancellare in sordina le peste di gatto lasciate

intatte a languire nei pacchi di carta in cantina
dentro i quali si celano scritte gotiche storie,
memorie: tutto un maniero con merli e avvoltoi,

un sentiero di rugginose bombarde, tristi mansarde
inondate di ragni bluastri di stigmate di graffi;
e infine paura d’andare restare cercar di capire

le cifrate voci oltre il muro oltre le fratte
del Tempio, le infrante promesse, emozioni d’intesa
rapprese in nuove magnetiche enigmatiche azioni

con l’apparizione improvvisa di segni come facce
come moniti lampeggianti su rotte labbra di strade
e laggiù anche, verso il fiume, dove rotola la barca

di carta, dove galleggiano frasche e notti di veglia.
Best glue in the joint, per la teglia e la griglia.
Nope. Il linguaggio scompiglia la vita in famiglia.

XX
per Mary de Rachewiltz

Sono un viandante bruciato dal sale,
passato al setaccio dei venti:
ho vertebre enormi, voce possente,
e ho visto, vi giuro, cieli infiniti.

Col mio dio parlo Quechua o latino
ma spesso mi stanco, torno a partire,
a volte non solo, con Pound o Celan,
Dante, Walt Whitman o Rubèn Dario.

Non sono infelice in America né cupo
o collerico, ma non posso dormire.
La notte è velluto, rigurgito d’onde,
ruggito, tremito profondo; è la marea

che a balzi sale le scale alla King Kong,
mossa com’erpice, arpa ed altare.
E’ la canzone del cuore di Delmore.

Hart Crane? Oppure riguarda (non dire)
altre catene? Nulla: tutto è normale
reale quando mi frulla: And I love you.
America, anche se non posso dormire

XXIII

Un melon mis à mùrir sur un rebord de fenètre
de mansarde? Che azzardo! Birth’s out, death’s in?

Certo più non riesci a giustificare te stesso
proprio perché il tuo credo è solo impulso di credere.

Certo più non riesci a sostenere te stesso
perché certe cose solo accadono nel dubbio di credere.

Certo più che altro anche i sogni ne hanno una colpa
se essi poi sono la chiave di queste e quelle cose

come ad esempio il perenne dolente pensare a qualcosa
per non capire non sentire perché condannata è la gente

nel sole nell’ombra dalle feroci mitraglie dell’odio
e nessuno (come olio che scorre) nessuno fa niente

risente le mosse le scosse del disordine e quanto
rinfranca l’orrore del vivere senza più cuore.

Miserere di noi dal rosso fango di Topanga Canyon
al nerastro azzurro di Santa Barbara e Berkeley

dove scivolo in bilico tra fatsos and harlots un po’ uso
allo stufo di cercare ragioni soluzioni rischiose

ai sempre presenti pressanti momenti di scuola lavoro
offrendo il mio onore il mio fiato nell’eterno peccato

di correre e disporre di tranelli parola nell’odiosa
rinuncia d’amore denaro perché quanto è mortale mi nuoce.

Aux armes, citoyens, il n’y a plus de RAISON.
I came from HER womb gli occhi fissi upon my tomb.

XXX for Luigi Fontanella
in tempus ludendi
Bella Carnap che incise surrealistici pali totemici
era profeticamente barbuta e parlava con soffice voce.
A volte come in sogno o bevuta camminava allo specchio
tutta nuda mostrando i suoi crudi contorni e l’atroce
presenza del vuoto tutt’intorno i cuscini di pietra
che adornavano d’ombra l’alcova dei suoi vergini incontri
in giorni di fiera e trastullo sopra i monti, ed ora
-anzi spesso-baciava solo se stessa in un buio di tomba
rimirandosi intera come ieri nell’abbraccio fortuito
del nuovo fanciullo portato a valle con suoni di tromba
perché-lei spiegava mascherando orgoglio e passione-
l’amare d’amore è l’acido calice d’ogni buona stagione.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

E in falsetto recitando Falstaff strillava alle bambole
che adornavano i muri e ammiccavano affrante di gioia
attraverso lo specchio Sì certo non cerco più scampoli
o Bella mia bella anzi penso d’averti infine capita
con la tua spina all’orecchio la voce fioca al mattino
e quello sguardo che più non riguarda l’arazzo e la stuoia
e scruta inquieto il calore che naviga spento su colazione
e cene all’aperto (di tutto un’esperta) che ti capita ora?
Quando ti svegli nell’ancora scialba mia tersa mattina
perché ti ripeti che ci faccio a starmene sola? Stralci
di mondi rimbalzano a fondo nel cranio del povero niente.
Tu hai visioni di cose di fiori in ogni ora del giorno
sebbene un perduto Nessuno ancora ti ama ti cerca ti adora
ma tu indietro non torni non puoi senza un Qualcuno
che t’esca dai pori ti porti per mano facendoti vecchia.
Riempiva i sacchi del Tempo con sassi e foglie d’alloro,
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Se non fosse stato per quei suoi primitivi aggressivi
esclusivi bisogni di fisico ardore e passioni irrisolte
nelle fosche e pur vaghe compagnie di nuovi paragoni
che lei tuttavia riteneva integrali e persino morali
quanto il laccio disciolto dell’abbraccio notturno
col Pinocchio delle sue calve fantasie si sarebbe anche
forse affidata disarmata all’assistenza socio-pediatrica
di scorfane e finocchi cosicchè quei lenoni quei banchieri
in accorata epistemologica riflessione in spigoli di muri
si facessero meno grassi degli assi di picche con sorte
insicura cosicchè anche le innocenti battone diventassero
un tantino più ricche delle lavande di cloro per prima
cosa abortendo le insane fontane di lacrime su povera
mamma e figlioletto negletto frutto d’amore sudore ora
sola speranza di soldi d’onore di là dall’infame letame.
L’assenza è richiamo di nude colombe e muggito di toro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Quest’oggi l’appartamento di Bella presenta cardini rotti
porte aperte sconnesse senza chiavi o bianche inferriate
siccome aveva a ragione predicato che l’opzione maggiore
della giusta avanguardia è il ripetere il salto già fatto
competere imitando innovando la bile il sudore il candore
dei nonni dei padri su di un altare di franca mediazione
ma nessuno a quel tempo aveva molto capito delle blande
e inibite imitazioni furtive di Lord Lowell di chi arriva
o non arriva in compagnia di Barthes-Darrida cosicchè sana
ma stanca nient’affatto umiliata anzi reclamando dal boia
d’essere decapitata Bella Carnap da sola andò via insalutata
dietro lasciandosi appena un minisaggio di delfico tono:
“Ex nihilo tu a volte soccombi alle frane gitane e conscio
nel magico velo di un esangue sandwich di brame di foia
nascondi quel tuo guazzo d’incastri che ricreano il cielo
ed altre volte d’un tratto ti ritrovi nel torbido pieno
della piena di marzo o nell’alogico giallo del Malevich”
Nessuno seppe mai perché Bella Carnap nemica della noia
fosse curva dalla parte della pena trascurando la gioia.

Più tardi da voci cannibali sentii storie di un suo rapido
arrivo a Parigi con solo ninnoli misti a cartilagini
tristi ai margini del naso ed al lobo clorotico agnostico
delle sue orecchie già vecchie già del tutto risecche
di madidi odori ed uno squallido fallico bongo del Congo
preso a nolo nei pressi di Porta Portese passando per Roma
non vista adesso da lei inzeppato di calze pomate mutande
in miste misure con schizzi sfumati fatti con labile lapis
di scale portali arsenali ditali di fili intrigati coniati
più altre strutture di sfondi di gore intercapedini fonde
pizzi mostruosi sontuosi di puppole e ponti per poi finire
forse solo a scopo di morirci di fronte in un plurimista
mistica cornice d’intellettuali tra Salamanca/Barcellona
& environs trovando infine occasione di farsi cultrice
di folaghe sparse nelle riarse fitte tenebre di Malaga
El Pais riportò una sua foto con barba assai nera raccolta
sulla nuca a raggiera che definirono rabbinico-lirica
ed era invece di quell’onirico mais che sfocia nel croco.
Sola sola Bella Carnap non era fatta di molto e di poco.

L’ho cercata per mari e per monti senza mai ritrovarla
scansando gli incontri e gli scontri con la gente del mondo
fermandomi affranto anzi stanco e forse stravolto ma mai
di niente esitante anche in fosche contrade più d’una volta
chiedendo bussando sia alla porta del destino incrociato
chiamato Circle City dove Charles Olson il sublime scrisse
un saggio sul mito figurandosi un Maya che nell’acrilica
Greenwich Village di nonno Dominik dove insonne insicuro
pur soffrendo di collettiva amnesia scambiai qualche parola
di conforto di addio col malato Mister Sax che a quel tempo
recitava nel suo imbuto un kyrie per Bird l’uomo perduto.
E un po’ tutti ricordavano Bella divulgatrice di frottole
nel muoversi agile su fragili trampoli o quando indossando
parrucche di trucchi parastorici sedeva su alti sgabelli
o sul coperchio del piano del comico insano Steve Allen
cantando in russo o italiano storie di guerre e dolore
che facevano ridere. Anche in uno stato di bruto abbandono
lei riusciva a giocare nel guano col rude vecchio pallore
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Aveva estasi labili ed epilettiche stasi specie quando
giungeva al suo canto la voce esultante che ogni sua cosa
nell’Est e nell’Ovest era stata irrimediabilmente perduta
alla camorra del tempo; e queste-quasi sempre contenta-
lei le temprava con uno o due sorsi del suo onesto Elijah
del Kentucky in quanto (con grazia cantava) più non aiuta
se in piedi o seduta di faccia o di culo tu sei poi caduta.
Ma ecco di nuovo inventando una storia andava
poi via di quartieri e paesi solo rinchiusa forse protetta
dalla nera barbaccia e quelle flaccide brache color kaki
a malapena sorrette da strisce di carta incollate col muco.
Camminava nel fango dei viottoli con una canna di verde
sambuco dalla quale estraeva suoni d’insetti e ballate
d’estate, sul vergine corpo odori profondi di menta e alloro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Ora questa pare una storia d’altri tempi perché ovunque
io vada e comunque m’inquadri amici di amici mi squadrano
con occhi pensosi e dicono poi con un certo mistero
perplessi nei bruti ricci peli d’immodeste narici
che c’è sempre un Qualcuno nel giro (un sadico falbo
un medico astuto un atleta incompiuto una mesta fanciulla)
che chiede o riporta notizie di Bella la quale per nulla
o qualcosa come appunto si dice ha cambiato il suo nome
in quello del signore di Rimini, Sigismondo Malatesta.
E’ stata una festa o così pare: per questa è certamente
altre ed altre gravi ragioni lei non penso che più pensi
di rivedere la soglia di casa spingere aperti i cancelli
e pulire la ruggine nei cardini delle antiche inferriate
per ricominciare tutto da capo con modestia ed amore.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e di zoccoli d’oro.

Carlo Felice Colucci

(16) Quello di Carlo Felice Colucci, molisano di nascita, Riccia (1927), è un viaggio poetico di duplice significato, esistenziale e linguistico, che si compie nel corso del tempo a cominciare da: Una vita fedele,(1963), La pagaia, (1977), Preghiera occidentale, (1981), Check-up, (1983), La bella afasia, (1983), Memoria e fuga, (1987), A fuochi spenti, (1992), Il viaggio inutile, (2003), La materia dei sogni, (2004), Io per le strade, (2004) e Il tempo del seme, (2005);, opere nelle quali si combinano,elementi morfologici diversi e figure metriche nella realtà dell’endecasillabo e del novenario, tanto da creare un diverso livello musicale, come indirizzo operativo nella scansione del verso e delle sequenze ritmiche. tra realtà urbana e metropolitana, e sintesi negativa della vita. Quarant’anni dedicati alla letteratura non sono pochi per chi, come Colucci ha fatto della poesia un’autentica ragione della propria esistenza, con un codice individuale e psicolinguistico inalterato nel tempo, che lo ha visto uscire indenne dalle prove creative degli sperimentalisti, proponendo un universo poetico, che si riflette sul male di vivere, accentuando l’illimitato senso del Nulla, in tante short stories in cui la riflessione avviene per scansioni temporali nelle quali fibrilla e si perde un Io pluriautobiografico. Non è difficile scorgere in questa ideologia, il credo laicista, fluido ed ellittico, tradizionalmente alleato con il pensiero negativo di certa letteratura mitteleuropea, o del tempo della Krisis. L’effimero della vita costituisce per Carlo Felice Colucci, un insieme di correlativi oggettivi, attestanti il dramma e la tragedia. Da qui, tutta una serie di richiami allegorizzati da un linguaggio che ricorre a più referenti letterari, con la citazione “fate questo in memoria di me”, o a certe gestualità da Ultima Cena, senza che s’intraveda da lontano, il segno della Divinità, o qualche conciliazione con il Mondo, nonostante i molteplici messaggi cifrati, laterali ad un discorso tecnico-scientifico, patologico?, anamnèstico?, holderliniano?, presente ogni volta che si viene a determinare l’inquieto reportage sulla realtà, e sul tessuto narrativo di tipo teatrale?, beckettiano? drammaturgico?, rendendolo, il più delle volte, privato e collettivo, mitigato dall’ironia, che costituisce un’altra delle figure retoriche, rispetto ad un nichilismo irreversibile.
Trattasi, più in specifico, di una poesia che converge su un mondo vuoto di prospettive e illusioni, configurato attraverso l’uso di allarmi esistenziali, nella mescidanza di scatti umorali, riportati in chiave enunciativa, dove la parola si chiude in sé stessa, oscurandosi in un’opaca tristezza, che avvolge ogni elemento di denuncia, nel dichiarare il collasso finale dell’uomo, visto come ostaggio degli eventi e della Storia, genuflesso in una preghiera occidentale, dopo la perdita della Favola o del Sogno e di un mitico mondo rappresentato dall’Atlantide che non c’è.
Da codeste “centralità concettuali” nasce e si forma il grande tomo della poesia di Colucci sul tema monocentrico dell’horror vacui, che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi percussivi, al di fuori di ogni considerazione metafisica. E’ la strada percorsa e amata dal poeta in cui la coscienza si annichilisce di fronte all’immagine della Morte, che assume di volta in volta, metafore diverse .
E’ il Trionfo del nostro inutile viaggio, quale risultato della condizione sotterranea e psicologica del poeta che transenna la propria vita, con immagini urticanti e di estremo pessimismo, per denunciare la precarietà delle cose, fino a formulare ineccepibili — cantos — , dove la condizione di provvisorietà si allinea col più alto grado di sofferenza che, come scrive Giorgio Barberi Squarotti, diventa messaggio di — bellezza e di verità -.di — tragicità e ironia —.
Dopo la neoavanguardia i poeti hanno estremizzato i caratteri della Forma, con messaggi inesistenti, attraverso i quali “ si può stare in ascolto, si può sprofondare nei suoni, si può, se si desidera, comprendere, attraverso le note, come sono strutturati, ma non si farà molta strada cercando di verificarne il messaggio generale e i nessi logico-causali” (Hans M. Enzensberger).
Per fortuna, non sempre è così, e lo dimostra l’ultimo volume di Carlo Felice Colucci Il Tempo del seme, edizioni Gazebo 2005, assemblato da una scrittura mimetica e pluriculturale, che sottintende un andirivieni labirintico di connessioni psicologiche di distacco dalle illusioni, facendoci perfino intravedere una qualche labile speranza, subito dopo infranta dall’elemento ideologico e poetico proveniente dalle molteplici associazioni di negazione soggettiva, attestanti i flussi di coscienza, bene evidenziati nella prefazione di Marco Forti, il quale risale alle origini psicoemotive del poeta, e al datum esistenziale, per meglio pianificare la poetica del Nostro, rapportandola ad una sfericità materica, che ingloba pensiero e sentimento, storia e neofigure metateatrali.
Colucci in tutti questi anni ha sempre prefigurato l’immagine della Morte e la sua presenza–assenza, rispecchiando la condizione dell’uomo contemporaneo, con sulle spalle un passato che crolla e di cui si fa fatica a puntellare, come ha scritto di sé Giorgio Caproni; condizione che troviamo anche in questo tempo del seme, dove riappaiono le tracce di un viaggiatore cerimonioso, che ha visto passare la vita in uno scatto di rem, tralasciando l’orrido e l’orrifico, per una ragione più alta: quella dell’umanizzazione del Nulla di cui Colucci sembra essere un cantore malinconico, smarrito in un mondo sepolcrale alla Friedrich, il più delle volte, tragico e romantico, ma di un romanticismo che si sbrina davanti agli stilemi e ai neologismi, mantenendo inalterato il proprio linguaggio testamentario e noir ” Lui, che dopo aver sfiorato e affrontato anche lenticolarmente gli esperimenti e le avanguardie letterarie del secolo, i loro parasintattismi e i loro iposintattismi, pur volando basso, ha preso proprio ineluttabilmente a volare alto. E certo, non da ora” (Marco Forti)
E qui come non citare qualche breve testo: Dovevamo imparare a vivere, noi, / e a morire per essere uomini / a non sentirci Dio, Universo / Luce / quando scrutavi il mare, isole perse / e sapere che l’Atlantide non c’è, / padre come l’ombra che a notte viene / e che non sa, o come il mio doppio per vie / remote e sempre più anguste le porte / ove per traverso bussava il vento, e / capire dovevo chi sono e dove / entrare nel gioco di suoni e foglie /, imparare tutte le voglie strane / il taglio del cordone, una festa, complimenti, ossequi di vetro, gli addii / quei rochi ebbri ritorni di gabbiani /, l’isola di Arturo qui dovevamo / imparare il pudore violetto, occhi /, pescare nelle sfondate borse, ime /, sigarette e Upanisad quelle sere / invernali /il nastro più non scrive ormai) /, udire in silenzio di nuovo il cigno / l’ultima sinfonia della partenza / (tango, vivir y morir abrazados ) /, imparare ad essere il dottor Niente….
Da “questo luogo tutto interno e invisibile della sua scrittura in cui dopo aver a sua volta superato un lungo percorso sobbalzando, caracollando, irridendo, inseguendo contorcendosi e citando, sacrificando al giuoco sempre mutante della modernità un tenace sentimento poetico: al momento di cantare, di coglierne i simboli in verticale, lo sfida, lo suscita, lo risuscita e lo fa agire sì con forza e furore”(Marco Forti), ma anche gridando con un urlo smorzato in gola tutta la rabbia del vivere, prima di andarsene via nottetempo, in silenzio, non più per le strade del Mondo, solo come Malone, col poster d’una vita in due, in tanti / i fiori secchi della ricorrenza / e poco altro, poco.
Dopo il 1992, Carlo Felice Colucci non pubblica più libri di poesia, per quasi un decennio, perché afflitto da malanni di vario genere, avendo a che fare con luoghi di cura non più da medico ma pure da paziente. Il ritorno all’esercizio poetico avverrà gradualmente, a margine di una convalescenza che non mancherà di portare primizie poetiche con il volume “Il viaggio inutile”, (2003), dove la Storia si lega alla vita e questa alla poesia, in un fitto schedario di memories: ”Madre, / così iniziò la nostra guerra / un andare e venire, noi, / dalle caverne della preistoria ai / ricoveri di roccia, alle foreste” (pag.11). Ma sono tanti gli episodi narrati nei quali mancano i giorni per seminare, e la partita è tutta da giocare, dove solo riscatto è il distacco paziente e sofferto, solo rifugio la pietas, la memoria dei cari, sola difesa l’ironia; solo scudo il riso beffardo e scanzonato da clown; e senza rimedio che il placebo (Nota dell’autore, pag.5). E il cammino poetico, ancora una volta, è già tracciato: chiamiamolo, prologo, teatro dei fantasmi, o dei pagliacci, dissoluzione del futuro e trappola dell’esistenza “la conta delle irradiazioni tengo / ma ancora la vertebra che duole, / duole, metastasi anch’io, Mater / e niente prole /” (pag.13):” un viaggio che trova la sua ragione d’essere in quella categoria dello spirito la cui matrice introspettiva conserva le tracce mnestiche e il silenzio dell’interiorizzazione”. (Carlo Di Lieto).
Per questa via si collega più La materia dei sogni (2004), dove il pensiero si restringe in immagini chiaroscurali, d’illuminante percezione simbolica.”Il cuore della terra perde colpi / come quello dei versi che non leggi / mentre lontano chiama l’arrotino, / metti un lume a petrolio una buia notte, / Pierrot lunare: quell’ombra che passa / lieve lieve e non t’accorgi, è la vita” (pag.22). Né mancano elementi linguistici portati ad un livello di massima tensione concettuale, fino a riscoprire il connubio interattivo tra parola e immagine.
In” Io per le strade” (2004), permane intatto il codice esistenziale, come canone bioumorale dove i giri della vita rallentano di fronte a certe memorie irte / dell’età matura, dentro confini vuoti e senza sole: Se ho dolori, uso artiglio del diavolo / e su un letto di Procuste mi stiro / da tempo i mandarini preferisco / e non divoro più il prozac o il viagra / l’amore senza età sognammo in tanti / e anche Felice ( il mio secondo nome) /, neppure oggi verrà l’alto postino / a informarmi che nessuno mi ha scritto / che ormai non sapremo più niente, niente / (pag.44).
Qui possiamo anche andare oltre, spingerci nei dintorni di una misantropia indotta da una società che non ama i poeti, e che disperde, giorno dopo giorno, il suo patrimonio di storia e di identità, (Cesare Segre), pensiero espresso anche dal Colucci sebbene con sfumature diverse (si veda, ad esempio la sezione -Colloquio con l’autore-) in questo saggio.
L’utilizzazione della poesia, come veicolo di rappresentazione e di conoscenza del mondo, apre scenari imprevedibili, quando si raggiungono contenuti di mistero e di enigmaticità, per questo non crediamo che essa sia inutile, specie quando la sua presenza, finisce con l’essere una malattia assolutamente endemica e incurabile (Montale). Alcune poesie contenute ne “Il tempo del seme” (2005), (Pesci rossi al policlinico, Finale di radioterapia, Prostatiche allegorie, ecc) sono legate alle vicende della malattia- e come tali vanno lette, se è vero, come è vero, che se l’arte e il linguaggio fondano la vita, né l’una, né l’altro potrebbero mai esistere fuor dall’esperienza esistenziale a cui ogni artista sempre si abbevera, anche a propria insaputa. (Nota dell’Autore, pag.101). Questo volume, inviato alle case editrici maggiori, rimase a lungo in ombra, né vide la strada della pubblicazione, non potendo l’autore vantare alcun rapporto di cuginanza con gli editori, sebbene di — padrini — Colucci non ne abbia mai avuti o conosciuti in letteratura e in politica, dove si annidano i nomi dei poeti più ricorrenti nelle antologie e nei corsivi: luoghi di autentica mistificazione culturale. Una cosa va detta: se il volume “Preghiera occidentale” fosse stato pubblicato, a suo tempo, da Mondadori o da Einaudi, non ci saremmo occupati ora, dell’invisibilità poetica dell’autore, e di un delitto letterario in più. Quello che colpisce nella (sua poesia) è la tenacia, la persistenza della sua parola poetica… dell’unicità, della solitudine, dello scavo esistenziale secondo la propria natura” (Marco Forti, pref. a “Il tempo del seme” pag.109), condensata in un mix di collettive pulsioni nelle quali si percepisce un diario poetico, capace di trovare correlativi oggettivi, tra figure bibliche, e nuove rovine, nell’ora che passa e che segna la fine,” me ne andrò via da solo, nottetempo,/ coi ragazzi di via Panisperna” (pag. 26), fuori da ogni approdo metafisico,” il mio Gesù non abita la storia” (pag.28).
A volte, ci s’imbatte in fissurazioni lessicali, come ad annunciare un’altra bufera di sentimenti, e di vita combusta, rilevabili nel testo L’urlo, col sottotitolo (a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare), (pag. 30), dove si acuiscono le implosioni psicologiche, attraverso un grido soffocato, simile a quello riportato nel dipinto di Munch, forse l’opera più famosa del maestro norvegese, attestante l’angoscia dell’esistenza, che si riverbera come un angelo nero nella poesia di Colucci, legata alla poetica delle cifre del vissuto, in cui anche l’Urlo di Allen Ginsberg, pare prestarsi molto bene all’opera del Nostro, per via del linguaggio fatto di realtà fisica, fisiologica, biologica, di furore creativo e di allargamento dell’area della coscienza: un volume, secondo alcuni, che cambiò l’America e anche il mondo. Per questa via si possono leggere e interpretare le quattro opere- Il viaggio inutile-, La materia dei sogni-, Io per le strade – Il tempo del seme-,, così allineate nell’arco di appena un triennio, secondo un racconto con più capitoli, tra similitudini e paratassi: quattro opere, quattro pedine da giocare sotto la luce di una temporalità spettrale, bordeggiante il campo della sconfitta, prima del gorgo.
Nell’inevitabile corsa verso l’ultima sfida, adottando sempre più frequentemente “distesi” — solo in apparenza — endecasillabi (si vedano, qui, gli Inediti), Colucci riporta i silenzi e i rumori della vita, attualizzando il tema degli assenti, che non hanno più voce, né storia o avvenire, collocati al centro di una realtà metateatrale e nel poco spazio che resta, consapevole che nella partita che si accinge a portare a termine, non sono ammessi trucchi, ma solo la parola nuda e cruda, in cui ancora credere. Ed è in questa metafora scacchistica, che si espone allo scoperto il destino di un uomo e il suo universo poetico, riflettendo, ancora per certi aspetti, il “paradigma apodittico della Weltanschaung beckettiana”, in cui la transizione linguistica è “consapevolezza abbagliante della natura della poesia, e più in specifico, grammatica dell’ineffabile”.

da: Una vita fedele (1963)

Il pianto d’un uomo

Un giorno, su certe sedie di paglia
s’udiva ancora il pianto d’un uomo,
il canto, un paese, una vita fedele.
E se ne andarono tutti sui carri,
coi lumi spenti, come una fuga.
Qui non sanno le voci,
l’erba e fumo intatti sul muro,
le ghirlande dei giorni
intrecciate con i fiori d’uomo.
Un posto di gente senza infanzia
e cuore uno screzio, gridano forte
i motori, non s’ode
la ruota lenta dei morti.
I pierrot si giocano
pezzi di luna
dietro le case fredde di mattoni
dove rompono silenzio i gufi
e occhi di buio.

Due novembre al tuo paese

Quella sera nessuno ti chiamò
e l’ombre furono sui muri a calce
e noi con loro. Pigiavamo
chicchi d’uva, buccia e semi,
tu dicevi dei nonni
alti negli anni, di ragazzi,
io d’una pianta che non cresceva
al tuo ritorno.
Le città gridavano lontano.
E un sonno stanco ti cadde sul petto
e la neve di tua madre, furtiva.
Novembre sulla porta
inutile tentava di chiamarci.
I morti piangevano da soli
un’altra volta e il vento rotolava
latte vuote nelle selci.

Per una donna

Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel fuoco,
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento,
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli da le rupi,
spezzavano corde alle chitarre.

Notturno

Anche le città diventano di sonno,
la folla, lasciano pochi neon,
e uno crede che non dovrebbero
se viene da un paese e cammina,
un paese di piccole cantine.
Anche i manichini sono stanchi.
E gli uomini, le cose che tocchi,
il silenzio diventano
tristezza in vetrina.
E due fanali in corsa
dentro la gola alta de le case
non sono i carri senza lume
che improvvisi ti si parano avanti,
lungo i fossi stellati,
a cigolare di gioia.
Tu neppure, Martino,
il tuo peccato è sulla vigna,
fra i mattoni rossi,
il mondo in un’arancia.
da: La Pagaia (1967)
Ritratto d’uomo

Ora nessuno ricorda
agli angoli di strada
sui tetti rossi di stupore
dove abbiamo sepolto
le mie lune d’agosto i lager.
Dov’è quel silenzio di notte
per coprirci,
il vento matto negli ulivi?
Portava un segno nero sulla giacca
il ragazzo che ero
il mare in mezzo ai libri,
e chi può ricordare,
compagno d’alba,
chi rubava orme al tuo roseto
la nostra donna sopr’al molo.
Sapessi almeno dove gioca
mia madre bianca sulle grucce,
dove raccoglie arance per la cena.
Sembrano bare d’infanzia
le case mute qui d’intorno,
bisognerà avere presto
un ritratto d’uomo,
prima che l’incrocio torni rosso,
portare qualcuno sulle braccia.
Nel tuo giardino ho visto ancora
quel cane imbalsamato.

da: Placebo (1975)
Da tempo

Da tempo non ridiamo
non viene primavera
non abbiamo capelli ormai
e nemmeno pensieri parole per
L’isola misteriosa e l’uomo nero
di fronte leggono destini
bruciano vivo il prossimo per gioco
ti ho serbato i giornali
ma niente di noi del viaggio
sordo e cieco all’ora d’Emmaus
e ci danno la buona Pasqua
la buona tavola addosso
ignorando se restar desti oppure
fanno l’anestesia non temere
e che freddo nel cuore degli altri,
da tempo non sogno a colori
non passa il dubbio
non chiedo grazia e nemmeno
mi toccano con un dito un filo
di speranza e sarebbe tumore
il Nicchio gridava la Tartuca
e così di contrada in contrada
l’infanzia collettiva
prova d’artista viola d’amore
nessuno ci lecca le ferite
nessuno ci suona la fanfara
nelle città dell’avvenire e tu
le ombre nella madia il sangue a pezzi,
da tempo non vediamo
non s’avverte dolore placebo
la tosse dei miei fra le navate
e non usciamo dal ghetto
non lasciamo graffiti storie
quei pochi cromosomi a farci
adesso potrei dirti che Melissa
è nome di pianta paese
ninfa tramutata in ape,
da tempo non cerchiamo
non vola il tuo demente e poi
non abbiamo più sonno denti
non abbiamo resto mongoloide
contiamo le rughe agli amici,
che strano silenzio da tempo
sul mio giorno a mondare
lupini e sogni nel metrò,
perché da tempo non crediamo
pecore a destra montoni a sinistra
non vengono i nostri,
non viene il mistral
non abbiamo sedie pazienza
e nemmeno colpe da offrire
inchieste da aprire
domani affiggo i manifesti
del mio sciopero a oltranza,
da lungo tempo attendiamo
che passi qualcuno
sui larghi balconi floreali
e non abbiamo più requiem
partigiano Johnny, in pace

da: Preghiera occidentale (1981)

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette,
ho finito i gettoni,
altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva sì
l’uniforme da Lotta continua
ed uno vorrebbe alle spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza giochi di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie

Intervista

Non era prevista l’eterna luna
sulle nuche strette e lunghe delle ombre
ai tavoli spogli di amici
un poco d’ansia e passa la voglia,
nato maturato caduto qui e ora
passa la vita a un filo di parole
impossibile inguaribile
in conflitto col potere istituito
terra a tutti e il mio simile
non sono io né alcuno che mi somigli,
dire abbiamo la stessa donna
stessa energia divisa in quanti?
O un’agonia frugale in manicomio
dove in fondo optare per fede,
i signori giurati son pregati
allacciare cinture e non fumare
sette volte settanta è sempre poco,
e quando bambino innaffiavo beato
passanti e un geranio risecchito
quando il vicino di letto muore e tu,
amava tutto l’inesistente
il vuoto boccale dell’amico
la cerca dei miti porcini,
tanto odorava di niente il bosco
di belle addormentate qui e là tuia,
ma nessuno a stringerlo in tempo
in cerchio coi compagni di lager,
nessuno, ecco
adoro ipotesi assurde soia
latte rappreso i turni di notte
e dopo ci buttano sulla strada
piena d’occasioni perse e vagabondi
sulle rotaie sconnesse ci buttano
solo oroscopi ed offerte speciali,
questo è certo: mi voglio molto bene
scelgo attenuanti con cura
chiamo ancora l’appello in terza C
e sempre stento a levarmi di buon’ora,
zeppa memoria di ragazze e marinai
di cose e paesi provvisori, fame
stirpe dell’uomo da un lato e gli altri,
tossicomani dementi cancerosi,
nelle piazze del mondo a festeggiarmi
per poche aspirine e qualche mito
longevo ereditario sto tranquillo
sotto il segno dell’acquario naso in su,
ma in pigiama nessuno mi ricorda
nessuno crede che sia dottore
che abbia una paura più grande,
pro e contro dentro e fuori fa buio
e so di non rispondere a tutto,
solo rifarei il cammino a ritroso
lentamente, con estremi passi
dicendo a ognuno: per sempre

Amate grondaie

“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada,
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio, noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio ai Santi
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri,
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’inutile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi

In viaggio

Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dai lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
mai vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria
non è dove si nasce, la terra
partenze departs qui e là
quasi “rosa la rosa” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte sempre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici passengers
are kindly requested io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con le parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone
e basta
da: La bella afasia (1983)

Per un ammalato inguaribile, a L.O.

E’ come salire buie scale
d’una torre medioevale
stremata smania di guarire e di,
anche tu l’hai issata
come lacera bandiera
come noi nato a, sotto il segno di,
o Chi beato salì al cielo il terzo giorno,
secca rosa dei venti brucia
apre l’attesa nuovi sodalizi
ma nell’alcova del dolore
in punta di piedi e sensi di colpa
sulle arsure adesso già t’abbandoniamo
e quei lunghi invalicabili
silenzi di Tartaria
il breve ponte in bilico achtung
fra l’essere e il non essere,
sui binari del tempo ferroviere
la fioca lanterna
che a terra ci fondeva l’ombre,
scoppiano metastasi
avverte zelante l’infermiere
spaccano i vetri tersi della sera
e un minimo progetto di futuro
citostatici più radiazioni più,
una goccia di sonno finalmente
nel tuo deserto letto
ti promettono stanotte
madame la morfina
puttana di riguardo,
oppure e così sia
la bella cachessia
ammen

da: Memoria e fuga (1987)

Circostanza

Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai, complici, ammiccare,
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere
dita a intrecciarsi per niente
affusolate, un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater, ma a che misteri
nel morir tuo lieve
mi iniziavi,
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza

da: A fuochi spenti (1992)

In memoria di Mary e Francis
(Da un ritratto del 1845)

Ricordatevi di me
di me e di noi tutte
le altre come noi in ombra,
siamo le sorelle Mary
e Francis Wilcox di Stafford
eravamo del Maryland
sulle albe correvamo
fra le alte gambe dei boschi
e siamo volate via, anemiche,
molto presto troppo presto,
abbiate cura dei nostri giochi
delle care nostre bambole,
abbiate cura di voi
e delle vostre persone in luce
che tanto poco conoscete,
noi siamo ancora sole qui
ci dicono di aspettare
dove non faranno nidi
uccelli di passo
e non canteremo come una volta
né del male l’agonia,
non rifaremo il verso del lattaio
d’un mondo immacolato,
remember me, in segreto

da: Il viaggio inutile (2003)
Il viaggio inutile
(A qualche viaggiatore)

Come uno sciame di treni, a notte
nave che salpi (è bianca)
su nuvole vincente forse l’ala,
e la paura, così,
meglio la mongolfiera, dici,
l’astronave del futuro,
ma parlami del vicino che ride, ora,
dell’esilio dei compagni,
degli inutili vecchi,
o il bianco vaporetto ed un castello
di sabbia, Madre,
così iniziò la nostra guerra
un andare e venire, noi,
dalle caverne di preistoria ai
ricoveri di roccia, alle foreste,
e l’uomo alla finestra tace,
la nevrosi dei giorni tace,
se fosse una chimera, penso,
ma non fu questo, il viaggio,
non fu di quando solo due mani
e la pagaia (breve),
una pala nell’aria
una pala nel mare,
la stessa fine a sera
un occhio alla fede, così,
lo stesso Papa, e non so
le parole, i segni, le nebulose
non so più i facili anni di latta,
ragazzo che arrossivi per niente
occhi tondi e naso a pagliaccio,
di quando solo due sogni
e un incubo
a murarci vivo il cuore,
ferrovia di cartone,
ma non fu questo il viaggio,
quel popolo scomparso
l’averti per sempre perduta
compagna morta e una cometa, no
allegri naufragi,
il vento inutile, e
chi tradì Anna Frank?

da: La materia dei sogni (2004)
Vestimi di sogni

Ma quando sarà l’ora vestimi tu
di sogni, piano per non lacerarli, e in
bianco e nero sarà meglio sognare,
non ridere troppo di quei fantasmi né
delle bambole in vetrina, i lustrini e
quanti pupi, quanti in sogno doppiati
d’amore, vestimi d’aria e d’inganni
la piccola vita spenta nel sonno,
vestimi tu d’ombre e di sogni d’oro
oggi che spesso devo mendicare
un po’ d’affetto, i giorni della merla
vana risposta di parole e realtà,
vestimi solo di attimi e di sogni
quando sarà l’ora, fa piano tu, qui
col sogno e l’aria cantami una nenia
e dì che avevamo le ossa di vetro
un rosario di silenzi, la vita

da: Io per le strade (2004)
Come sarà

Come sarà questa morte, mi dico
nei momenti bui, di grige paturnie,
ma tarda la risposta, è latitante,
non è cosa da figurarsi, questa,
se poi la ragazza accanto che ride
o qualcuno ti aspetta per la cena
domani mi cambieranno il pace, e tu,
ma non chiedere anzitempo altre nuove
fra mortiammazzati e madricoraggio
le nuove cellule staminali,
ricordiamoci i lumini per papà
l’oscuro passato da trafugare e,
se bevi, pensa alla sete dei negri, oh
loro sanno, come sarà la fine,
la bimba è straniera, non so di dove
e ancora nelle coltri mi rigiro e
penso a una che indossi fumetti e sogni
stanotte, vestimi d’argento, all’alba

da: Il tempo del seme (2005)

L’urlo
(a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare)

Urla, mi dicevo,
bleso, lento, roco
ma che urlo è mai questo
se non esce non tocca non fora
i vetri non rompe del giorno
Viaggio al termine della notte,
e che dura spina è questa
mia fiera impotenza, Mater,
urla, mormoravo
la tua incerta storia
un fatuo blasone
malsani quartieri di periferia
la fame degli Avi, urla,
il viaggio inutile,
dove, uccello, di guano pietoso
ci coprivi ai socchiusi abitacoli
smog a tutti un po’ di smog,
futili miti alla battigia
come insepolti ossi di seppia
o vanesie parole, urla
il misero tempo che resta
il grido canuto, ormai
le stragi annunziate
e fanfare di Nada sovrasta
sovrasta quasi potente
l’eroe in panchina e bretelle,
né ignorare sul magro ballatoio
del condominio il sacco dei rifiuti
le staminali cellule domani,
ma urla, mi dicevo, per Dio!
la carne incombusta
l’antica rosa nel bicchiere
l’Olio di Lorenzo per guarire,
quante viltà soprusi osceni
a me ululate, solivaghi lupi
alle poche Foreste,
in memoria,
le ossa dei vinti urlate quando
cenere dai forni soffiammo con cura
e ancora ci ricopre,
noi malfermi viandanti
sul breve ponte
fra due Nulla eterni
transito interrotto
il mondo in una notte
la parola negata
e non servono i profeti,
urla come la ragazza di Munch,
bambola orante
che dal coma ci risveglia
ove non seppi urlare,
si dispensa dai fiori
e dall’Ultima cena

 

Terza parte
 
LE CONTRAPPOSIZIONI LINGUISTICHE
( I poeti della trasgressione )
 
(17) Vicini a un nuovo codice linguistico inteso come proposta alternativa alla comune prassi verbale si fanno strada alcuni poeti molisani che hanno aderito alle formule operative trasmesse dallo sperimentalismo degli anni sessanta e volte a de(significare) e a de(strutturare) il testo poetico dal linguaggio della Tradizione.
Il nuovo innesto semantico, oltre a trovare pochi estimatori sul territorio, si viene a formalizzare con lentissima decantazione solo dopo 21 anni di distanza dalla pubblicazione dei primi testi sperimentali del Gruppo 63, apparsi sulla Rivista “IL Verri “ di Luciano Anceschi e, successivamente, nel significativo raggruppamento antologico de :“I Novissimi” di Alfredo Giuliani.
Se si tiene conto che le prime forme trasgressive o sperimentali sono apparse nel Molise nel 1982 con Angelo Ferrante con “Segni ”, seguite nel 1991 da Antonio Carano con “La quieta follia del bosco ”, da Giuseppe Pittà, nel 1993 con ” Giocare di vento ” , e da Giose Rimanelli nel 1995, col volume , “ Alien Cantica An American Journey” che comprende testi scritti dal 1964 fino al 1993, allora il divario temporale assume un significato importante come silenzio operativo di un lavoro in fieri rivolto contro il sistema linguistico monopolizzato dalla Tradizione.
Tuttavia le reti di corrispondenza con il – centro – non mancano affatto, se si fa riferimento all’aggancio strutturale di contenuti e forme, come nuovo concetto di fare poesia, che partendo dal – basso – , ovvero dalle radici etimologiche della parola, sovverte tutto il tranquillo clima della – normalità -, celebrando il – significante in una autonomia linguistica aperta a tutto campo.ANGELO FERRANTE(18) Se si eccettua qualche isolata e significativa esperienza nel campo della narrativa col romanzo “Marirene”, pubblicato nel 1985 nella collana il “ Gazebo ”, diretta da Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, si può senz’altro affermare che l’impegno letterario di Angelo Ferrante è da molti anni rivolto sul versante della poesia, quella cioè che dalle ceneri della Neoavanguardia è venuta via via a definirsi e a realizzarsi come operazione espansiva sul territorio della lingua.
Già con “Segni “ -Seledizioni Bologna – 1983 -, finalista al Premio Viareggio, per l’Opera Prima, Ferrante dà una prova del suo personale sperimentalismo poetico con un sotterraneo e silenzioso lavoro di ri(fondazione) del testo, attraverso molteplici strumenti operativi e grafico-semantici, come opposizione alla comune prassi linguistica.
Questa operazione non passò inosservata tant’è che essa trovò ospitalità nella Antologia “Il segno e la metamorfosi”- Forum – Forlì – 1987-, nella quale Ferrante dà un chiaro esempio di poesia trasgressiva fitta di plurilinguismo e di introspezioni psicosomatiche all’interno di un lirismo elegiaco che recupera gli affetti familiari interamente trasferiti sul piano dei ricordi, come in: “Frammento”, che è solo uno dei tanti testi dedicati al padre, brevi nella misura del verso e nella conversazione con la morte:

Questa pausa nella vecchia casa paterna il rubinetto
non funziona come al solito non credo che gli si
possa
attribuire tutto l’umido che impregna le mura.
E’ non odo presenze di lui se non del suo odore
di tabacco quando mi guardava correre
nella strada gli si inumidivano gli occhi.

O ancora da “ Album “, che è un monologo lungamente discorsivo col caro estinto, sotto forma di – epigrafi -:

I riflessi del sole nel bicchiere di vino
un incendio di pampini contro l’arco romano
le statue decapitate ancora un soffio nelle
labbra di pietra
tu incantato gli occhi rossi la voce accesa dai ricordi
il racconto al vecchio contadino erede di Tiberio e Druso
la mano tagliuzzata le dita gonfie e l’unghie nere di terra
nella pace del tardo pomeriggio d’ottobre
io ti ascolto la tua poesia le favole di un tempo
sorridendo in volo sui latrati dei cani giro sereno
il volto e gli occhi alle colonne.

Qui riportiamo altri due brevi testi non “recuperati” dall’Autore nella seconda edizione del volume:

non abbiamo più tempo per parlarci
io ho i miei impegni di lavoro sempre più pressanti
mai un’evasione, mai un momento di abbandono
nella nostra casa e nell’orto gonfio di ortiche
tu del resto da quel 4 di agosto
non ti sei fatto più vivo

dopo la curva appena dopo quella che tu vedevi
come un palco affacciato sul paese
mi giunge il brivido del viale senza ghiaia
l’ultimo che hai percorso e ogni volta mi manca
come un ritmo o un fiato e un coccio di questa
mia vita abbandonato

e che rivelano suggestioni riconducibili alla poetica neocrepuscolare, inevitabile quando il discorso poetico esalta al massimo l’atmosfera emotiva di tipo larico-familiare, con tutte le varie sensazioni e percezioni come “Segni ” del passato, ricomposti e assemblati all’interno di un mondo di solitudine e di abbandono, come in” “Mutazioni”:
*
vieni dolore vieni
nel sangue e nel midollo vieni amore
una storia che langue di sussulti
ha bisogno come il brivido freddo
non cancella i tumulti del mio sogno
*
la strada all’infinito dritta
e lontana sfuma i pampini
nei cui contorni bui non cerco
chi sono né so se sono o fui
*
bambino mio i saraceni si sono dissolti
nella notte dei tempi e i muschi avvolti
ai seni delle statue e alle basole
della città morta quando ti conduco
per mano sul decumano sconnesso verso l’arco
della porta e nei tuoi occhi vedo
le ruote dei cocchi scalpitano
*
condurti sui sentieri nel vento
darti il sole proteggerti dall’acqua
e dalla neve come lieve scorre il tempo
mentre La tua piccola mano nel palmo
della mia cresce e l’accolma
*
è un battito l’uva che gronda
d’acqua alle viti e l’autunno
premonitore come l’ombra che inghiotte
i dirupi ove aspettano affamati
i lupi della notte.

“Segni ”, pur offrendo una spaccatura stilistica, tra il documento lirico e la proposta sperimentale, rimane, comunque, il primo esempio di poesia alternativa apparso nel 1982 nel Molise, e che veramente compie una svolta nel panorama poetico nella regione, che registra nuovi poeti, in linea con le istanze sostitutive della lingua provenienti dalla nazione. La potenzialità del linguaggio e il rifiuto di ogni forma archetipa della lingua, fanno di “Segni” un’opera aperta a vastissime architetture verbali, con forti sequenze onomatopeiche e fonoetimologiche, in una fitta geografia di simboli e di metafore, di legamenti ironici e tragici, tutti elementi precursori di una storia o evento, come specchio atto a riflettere le cifre del quotidiano e le trame del vissuto.
Protagonista assoluto è sempre la parola, agglomerato di invenzione e di svuotamento del senso logico della archeologia semantica come in “Legge matematica”:

*
attonca papino la mogga la giocca
i megalenti lègami legumienti
lègami milèga miagola è un forza
orriprimente del fuggioloso
momento

*
ecco, nel suono, ti avrei telefonofonato
io se tu mi avessi asteppato se tu
non fossi stato inzapiente come al tòsilo
l’è stata una forma di nuerosi con
crisi predessive un perpuerpetuo
sibogno di pianger pingere mingere
( purchè tu non cannaliassi)
*
consopizione sperchirolata spericolocolata
nata una tana da impremissioni introibenti
introibernate in un pomeriggio di pioggiucolucola
quando bibitando una zattina di cocciolato
fumigolante sentii sulle papillole una
stoccatura che mi pelipelò la lingua
ti dissi perché non hai stutoliato il
gas quand’era l’aro l’ora il memonto
prozipio ora non serve sifoliare la
stoccatura me la sono beccolombata digià

così pure nel testo “Segni” che dà il titolo al volume stesso

*
non è per sfiducia fuga eclissi parzialmente visibile che
un ambiguo egoismo fa passare in second’ordine agonie di 3
mesi: pare che il carcinoma colpisca con crescente frequenza
le parti basse colon e retto nei pressi del giardino delle
delizie e NESSUNO ci va a riflettere preferisce coltivare
narcisi nel giardino ubriacarsi di profumi esotici andare
(anda anda) fino in fondo verso la parabola ellittica/corsa
afrore di cellulose giallocra CLIMAX domani vedremo di
che si tratta/SEMIOTICA SEMIOLOGIA SEMANTICA
in fondo radica unica univoca unisona radicula quel-eme
ch’altro non è se non spruzzo sprizzo dall’erectio del/ene.
DO NOT DISTURB la notte punge segnali mescola germoglia
anche in periferia PERIFRASTICAMENTE parlando
sto per andare a letto forse non suderò tanto sul
labbro superior forse queste fitte intercostali dolori precordiali
dimenticami stanotte non russare

COUP DE SOLEIL

non riesco in assoluto a contare tutti i bruchetti
che ruminano travi di memorie sono verdi rossi blu
alcuni antibes (insule antille sicut faville scintille
papille
a mille a mille)
al mattino cadono peli
canuti
sulle scucchie prominenti pelle vizza muscoli flosci
non puoi mica spalmarti di cerone (vade retro
ottusangolo-
il y a du FARD) rosa marrone
(tintarella fittizia) rosantico ambra carne color carne
(da non confondere con il filetto o i tre quarti di
dietro)
dico che chi spezza in più pezzi un pezzo solo
non tollera confronti anche perché il colpo netto
dell’affilato triangolo acutangolo nel punto più
vulnerabile
è (INEQUIVOCABILMENTE) un colpo da maestro

Per questa via e per strutture unitarie più compatte e armoniose, Ferrante ci conduce, dopo un lungo silenzio, in una ampia sala per “ Concerto per flauto dolce “ – Edizioni del Leone – 1992 – fuori da ogni nevrosi di linguaggio o di bipolarità stilistiche, attraverso “Ouverture” e “Suite”.
Qui il discorso poetico è veramente unitario, anche per una maggiore disponibilità ideologica a istituzionalizzare lo sperimentalismo nelle forme più dinamiche, contro gli archetipi strutturali della tradizione.
E’ già un punto di arrivo, una scelta inequivocabile dell’adozione di una nuova civiltà letteraria, come spinta in avanti nel variegato panorama della poesia molisana.
Un esempio di questa nuova evoluzione linguistica è dato dalla sezione “Ouverture”:

*
dolceonda la mia caraonda bara l’onda
o casino scendono le vecchie al fiume
mentre non rompere ma la speranza è
l’ultima se avanza su carro della luna
infilava mia madre la cruna del suo ago
il sugo il pesce le morte pinne le
flaccide zinne (non un’oscura fine ma
una scomparsa tenera come un’alba sul
mare) o i campanacci delle mucche al
pascolo su lo matese messo lì per caso
quando gemeva un vento sderrupava e
il confuso risveglio di camomilla o
l’attache di una tachicardia improvvisa
come il petto scuoteva l’assenza del
respiro che almeno finisse presto

(oh le conchiglie le concave chiglie
delle barche d’aria carche sul mare)
turba la pace d’erba la macchina che
cuce le foglie della ruta il vento
stuta la fiammella oblunga era non so
di maggio il congresso delle rondini
nell’orto vieni è finita disse il
tocco d’onda di suono lungamente si
appendeva al cielo che anneriva le
labbra ed io le primole sbattuto
l’erba il sambuco il suco m’avea
bucato il palmo e germina ora il già
colmo dolore né potrà lasciarmi
*
nemmeno sancta sanctorum omnium
decembrina novena ardea l’incienso
alba nei vicoli buissimi dal sonno
scardinato e la maglia di lana
corrono in fila i pidocchi e il prurito
nel sogno sfrigola la punta del fioretto
sotto un archetto emerso dalla fucina
con mani nere da lame di coltelli
scorrea il lapis al folio prendevano corpo
il volto di rossano e le labbra di alida
addio kira su opachi lustri il paese
calvo d’alberi al vento non avea
divorato il silenzio delle chiese
*
vacue scintille a vuoto vagolammo
librata l’aria di un uccello mostro
era di vento l’alba luce del chiostro
su di noi che nel fuoco liquido ardemmo
niuna pace a quella assimilabile
serena contemplazione dei gesti
lo stacco impartecipe che i mesti
rondoni strinse con un cappio labile
era una memoria una lieve cadenza
della mente non ancora al cospetto
delle tenebre bianche sciolte in un’ardenza
di fuochi fatui di lapilli nel petto
e si spingeva oltre le azzurre cornici
dei monti ottobrini sfogliati nei fumi
di nebbie precarie attente ai malefici
delle streghe e dei pallidi gnomi
*
perché questo silenzio di lenzuola e di vento?
La poesia non esiste è cavo il cuore
crocevia di letizia e patimento
mai che finisca questo grido
chissà che non compaia all’improvviso
un uccello dalle ali di neve
ma da spirali di luce il nostro passaggio
il contadino aveva le mani di terra
lo guardai come un corvo e dal taglio
tra le foglie il vento aveva mosso un raggio
si schiantava nel cielo dei suoi occhi
e moriva
*
Le superficie sono state lucidate. Ho un piede nell’alba e
l’altro nella notte. Fammi male ma fallo di nascosto
dolce-
mente. Odori fumano nel triangolo di terra
sull’uscio.
Il nero immacolato si allontana come una palla: Se,
comunque,
l’erba non si dissecca nelle tue estati, puoi adombrarmi
accarezzarmi più piano che sai.
Una traccia: la campana al break
nell’hotel frullato dai piccioni. Dalle vetrate si mostra
un oceano di cielo. Un autunno molisano nero di
commorienza
ha lamentazioni acute spingole nel ventre. Dio se
potesse
urlare! Sebbene agonizzi al freddo lumicino del
martedì-
alla prima silloge sei un angelo incompreso.
Mai- intanto – si chiude il vecchio oggetto. E al
riparo,
ricurvo, nel perfido richiamo delle cose, mi distraggo
nel
toccare i risvolti, nel lucidare il cielo, nel mandarlo via,
e forse nell’obliarmi appena – destinato a non essere
colore,
fiato, disuguaglianza netta, ma dissolto per sempre.

*
Ecco la beltà trasgressiva di Ferrante, misurata nel racconto, sobria nella coesistenza pacifica della parola, per farsi, alla fine, trasfigurazione di un mondo – fisico e spirituale – legato al tempo e sigillato nella memoria.
A riconfermare in pieno l’esperienza poetica coagulatasi attorno a “ Segni “ e a “ Concerto per flauto dolce “ è l’ultima raccolta di poesie : “ Làcero quotidiano “- Campanotto Editore – 1995 -, nella quale Ferrante esplora e sa esplorarsi all’interno delle cose che concorrono a formare delle – storie – prive di arricchimenti virtuali, e nelle quali il disfacimento dell’esistente, ovvero il “ làcero “ è il vero filo conduttore dell’indagine nei dintorni dell’io, sempre più legato ai temi del ricordo-amore e della vita-morte, soggetti ugualmente dominanti ed egemoni della nostra letteratura, che escludono qualsiasi ipotesi metafisica di salvezza e che tendono a rafforzare la visione laica del mondo e della crisi morale dell’uomo di fronte al negativo.
Il sapiente controllo dell’automatismo verbale mette in comunicazione un processo di identificazione tra – l’io – (soggetto esterno della fabulazione) e il – tu – (personaggio ombra o presenza amorosa), quale rapporto di natura affettivo-sentimentale, tanto che i personaggi stessi rappresentati dall’io e dal tu, risultano, alla fine, impotenti di fronte al “ làcero quotidiano”, nella scansione del verso ipermetro e alessandrino reso più prezioso da un linguaggio di derivazione trecentesca, con vari inserimenti dialettali, che amplificano il ritmo del discorso, con il trionfo dei neologismi (multifilter, tempation, matador, ecc.), del linguaggio siculo e molisano ( u tunnu a la tunnara o règna) e del latino antico (crudelitas mundi, ecc.), condensati anche in altri testi come – Collage -, Gli stupori del vento e della neve -,Variazioni sul tema -, Ipotensione-, e – Free love -, ma ve ne sono diversi, ugualmente degni di citazione, come – Tautologia – o come la seconda parte di – Segmenti – che attraverso la riscrittura temporale su alcuni episodi di guerra, carica su di sé sequenze cinematografiche, vivissime e indimenticabili nel dato fenomenico. Il ritorno cadenzato della memoria alla propria terra, anche dopo lo sradicamento dalle sue radici, attraverso una poesia chiaramente – urbana – mette in evidenza il problema della – molisanità – ed – extra-regionalità – delle opere di Ferrante, che da qualsiasi prospettiva le si mettano, pongono diatribe al lettore e alla stessa critica.
In questo contesto è d’obbligo ricondurre la problematica al saggio critico:” La memoria, il ritorno e la fuga” apparso su – Misure Critiche – Conte Editore -nn.37/39 – X – XI – ottobre – dicembre 1980 – gennaio – giugno 1981, a firma di Pasquale A. De Lisio che precisa il termine stesso della -molisanità – che va ricercato non solo nel dato anagrafico del poeta o dello scrittore ma anche “nella stratificazione di una cultura locale che ingloba la storia della propria terra e della propria gente”, mentre le connotazioni poetiche extraregionali vanno individuate soprattutto nelle “ reti di collegamento e di possibile dialogo con le altre aree nazionali” – caratteristiche queste che sembrano proprie di Ferrante, per cui dire che l’una esclude l’altra, significherebbe annullarle con la loro enunciazione testuale, essendo quest’ultima una connotazione peculiare di questo poeta che non dimentica mai il – paesaggio molisano – , né le istanze riformistiche della lingua provenienti dalla nazione In questo senso anche il viaggio misterioso e labirintico del linguaggio finisce con l’essere tutt’uno con la memoria e la presenza del proprio paese in un processo interiore di ricerca e di identificazione.
Quanto al – paesaggio molisano – esso non emerge mai come sentimento periferico nella struttura del testo, ma è quasi sempre connaturale alle esigenze biomemoriali del poeta legato alle radici della propria terra che è spesso rivisitata in ogni suo spazio planimetrico.
Tutta l’opera poetica di Ferrante offre squarci sinceri al – paesaggio molisano -, reso vivo dai luoghi, dalla natura, dal perenne incedere delle stagioni che si identificano nella dimensione effimera dell’uomo e del suo “habita”.
La riscoperta del – borgo antico – e la riappropriazione dei miti e degli usi della civiltà contadina trovano spazio e vitalità in un onirismo delicato che sfocia in un indissolubile legame tra il poeta-figlio e la terra-madre, dando luogo a tutta una fitta sequenza di rapporti vari, come ad esempio:” le stoppie e la macina”, “ il silenzio delle chiese e il decumano”, “ il pioppeto e l’autunno molisano”, “ il contadino erede di Tiberio e Druso” con la “ superstizione e i “ malefici delle streghe e dei pallidi gnomi”, il tutto senza sfociare nell’enfasi e nella rivisitazione neonaturalistica dell’ambiente, mentre il linguaggio opera su se stesso una fuga in avanti, con materiali iperattivi di vero e proprio – engagement – con le altre proposte del – centro-, che si sono venute a realizzare durante e dopo la Neoavanguardia.
Dopo Lacero quotidiano (1995) e Reperti Fonici (2000) si assiste ad un ripensamento delle espressioni e delle comunicazioni soprattutto con Racconto d’inverno, (2002), Senso del tempo, (2003), e Lessico privato, (2004), che introducono una varietà di temi, non ultimi quelli civili, presenti nel volume Dentro la vita (2007), nel quale predominano gli endecasillabi e le terzine, che fanno da ponte al negativo, con la vita illuminata dai ricordi e dalle immagini, anche se, a conti fatti, sembrano poi più forti i debiti con le meditate estrensicazioni linguistiche di Zanzotto, (Plinio Perilli) nonchè di tutta l’ area del Secondo Novecento.

MARIO M. GABRIELE

(19) Il diagramma editoriale dei poeti che si sono mossi nell’ambito delle – scritture variabili – registra nel 1982 l’uscita del volume .” Carte della città segreta “, Sen – Napoli – di Mario M Gabriele, con prefazione di Domenico Rea. Il titolo è già significativo di un percorso simbolico che si effettua in una città o paese d’anima dove le carte costituiscono la -mappa- per un avventuroso ” viaggio ” che deve iniziare e intanto si svolge, che è trepida attesa ed insieme è memoria, progetto di itinerario e nello stesso tempo relazione del percorso esistenziale” (Pasquale A. De Lisio), che si infittisce di appunti e note – di reportage e di historie -, di giardini di supplizi e di punto di fuga.
In questo transito si pongono domande, si forniscono notizie, si raccolgono e si dettano testimonianze : “ chi lasciava il perduto estuario / non riportava che pochi segni / e poi anfore, amuleti, carte della città segreta / di rari cacciatori, oltre i tumuli disfatti “ (Vallechiusa) (pag.14) .La ” Città segreta” balugina sempre al di là di un – muro d’ombra -, è sempre in un “altro paesaggio” , in una primavera da “ spiare in mezzo ai rovi “. E’ una ricognizione della vita che scava” umili certezze” nel “ chiuso nocciolo del tempo / con dolzore e plazimento “ è una continua macerazione per squadrare l’ostacolo, per sciogliere il dubbio in agguato quando “ le penombre antelucane “ non accendono ancora il chiaro folgorante del giorno, o la primavera tarda a sbucare dal fiorame: “ capita alle volte, / che la bufera annulli i confini, / offuschi i cari nomi nella mente, / metta alle strette il bucaneve / che tanto vuol fiorire” (Il bucaneve), (pag.43).
La registrazione di questo percorso avviene per mezzo di una scrittura metaforica che si adegua al variare delle situazioni correlate al mondo interno e a quello esterno o “altro “, quest’ultimo meno visibile eppure ipotetico e ipotizzabile nel fluire di un discorso che diventa – racconto – o – storia – in un processo “ teso a raggiungere una dimensione sovrastorica nella quale vengono fissati con notevole spessore metaforico e ( metafisico ) simboli archetipi e universali “ (Luigi Fontanella, su Misure Critiche nn.68-69, anno 1998, pag, 13 di Poeti d’oggi: appunti per una campionatura), volti ad una ricerca etico-morale per la quale sono riposte le ragioni di questa poesia che “ reclama la morte prima della morte, il sogno prima della realtà, il fantastico prima del chiaro e del distinto, in un alone di mistero, parapsicologia e magia” (Gaetano Salveti, su Nuova letteratura, anno 1985)

Ne “ Il giro del lazzaretto “ Forum Q/G 1984 – gli scatti psicanalitici e psicoespressivi prolungano, ancora una volta l’atmosfera di attesa verso “nuovi passi-passaggi, prima ancora che” appaia “ l’alba /, che si faccia “cerchio attorno ai gelsomini” (Circo “Magnum”) , (pag.46). Il percorso si effettua sempre tra “degradate piste e dune” (pag.16) , su “irti greppi , dentro anfratti o tane” (pag.20) ,“ al largo dei carriaggi e di qualche piccola lumière“ (pag.31), ora lasciando alle spalle “ ruderi e radici / , dopo un anno davvero effimero e crudele “ (pag.45) ora facendo trasparire “ un segno o un varco/ tra sparvieri di roccia e di voliera” (pag.50) .
Con “Moviola d’inverno”- Ripostes-1992-, prosegue “la storia perenne e provvisoria di un’idea di vita e di morte, che tende a farsi immagine di sopravvivenza e di suspense. Come in una sequenza cinematografica, le parole snodano i loro intrecci segreti , confrontandosi, opponendosi, risolvendosi in un flusso continuo di coscienza….sino a sfociare nell’eterno estuario di una recherche à rebours e in progress, “ (Sintesi della prefazione di Francesco D’Episcopo al volume Moviola d’inverno.)
Anche in quest’ultimo volume la denuncia dell’esilio e il desiderio di ricerca rimangono elementi determinanti come messaggio -cifrato-, “in un allucinato speculum esistenziale, nell’intimo scambio di idea e di immagine, di memoria e di profezia, di dialogo e di monologhi ossessivi” (Francesco D’Episcopo) , con un sommesso periodare intorno alla dialettica dei vivi e dei morti visti nella loro particolare condizione di -trasmigranti e trasmigrati- in un mondo in cui ognuno è portato “ a fare domande, a chiedere notizie dell’angelo nocchiero/ che da secoli passa indisturbato in mezzo ai vivi,/ mentre si fa gelo tutt’intorno, cade la pioggia/ ed è tormenta per le anime all’aperto” (pag.37) ; e altrove “nessuno crede / che vi sia più speranza/ là dove Dio coltiva fiori nei bui giorni di disfide o rese” (pag.28) .

La visione del negativo apre ampi spazi mentali alla problematica del – naufragio – dove “tutto è bruciato, defoliato,/ raso a pista come un valico dello Spluga o di passo Rolle”/, (pag.27) mentre ” fuori il fossato genera paura/, ingigantisce pensieri e ombre”/ in chi uscito nella notte/ va in cerca di case e di tiepidi motel”/ (pag.26) , o ci si ferma, per un attimo, al – fuoco dei bivacchi- o nei – piccoli vivai – a ipotizzare che “il mondo” non è questo bosco brullo per la troppa neve di dicembre”/ (pag.35) e l’immaginario va oltre la stessa – fiction – del “viaggio” alla ricerca di possibili “varchi” fuori da una realtà in cui ”si risulta storicamente assenti e si è portati a misurarsi con la minimalità di una cronaca avida e assurda”. (Francesco D’Episcopo)

Per questa via si centralizza la visione della morte e la precarietà del tempo. già presenti in “Astuccio da cherubino”” Q/G 1978, che precede l’uscita di “Carte della città segreta” e de “Il giro del lazzaretto “ , con quella particolare atmosfera circoscritta nelle – Epigrafi – , “ dove al di là del commosso partecipare ( che è un fatto del tutto ovvio), quel che colpisce è il modo di insicurezza con cui la partecipazione si risolve; l’inquieta incertezza, il “ dubbio”, la “titubanza” ( sono motivi lessicali egemoni) sulla reale consistenza di un rapporto sia pure dialettico col nostro caro estinto, da qui la vicenda del “fingersi”, dell”attendere un segnale”, perfino dell’ostinato “attendere nel vetro che si incrina/ il tuo graffio dall’al di là, e del disagio, dell’interrogare, del rinunciare, dello stesso convincersi, sentire come l’immagine cara vada sempre più appartandosi “ in penombra .“ (Giuseppe Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia 1983, pag.585)
Da questa tensione espressiva dell’assenza, vista come frattura della vita e dei rapporti familiari, nasce il progetto dell’avventura dentro e fuori il fitto erbario botanico nel quale si consumano le espansioni mentali, tra continui smarrimenti e ritrovamenti nel momento stesso in cui pare attuarsi la percezione di qualcosa che vive e sta oltre la difficilissima – trance de vie -, come un Oriente smarrito.
Su altri versanti strutturali e linguistici si pongono invece le opere successive a Moviola d’inverno, in particolare: Le finestre di Magritte, Bouquet, Conversazione Galante, e Un burberry azzurro,” che costituiscono una tetralogia nella quale viene introdotto” nella letteratura italiana lo stile poetico anglosassone e, in modo particolare nordamericano, in cui la tradizione si pone come elemento illuminante di un discorso che dell’esperienza interpreta i lati arazionali e fantastici, in uno stile di rapidi accostamenti ed impressionanti “illuminazioni”(Giuliano Ladolfi, Atelier, anno VIII, marzo 2003).

NUIT

Neppure così, mia nuit che un poco mi stringi
nei tuoi giri di lana,
quando l’albero è già menzogna di frutti
e si recede un po’ tutti dai pozzi artesiani,
si può resistere a lungo
a queste gote a stento illuminate
attorno a stipiti abbandonati
come leggende d’Atlantide e muri di Bikini,
in questi luoghi segnati da alti casamenti
dove mi perdo nel freddo e nel fumo di sere protratte,
neppure così è facile dimenticare
caligini e astri,
ogni giorno a metà strada a metà vicoli ciechi,
soli come domenicani,
le memorie accanto al gruppo di famiglia,
un interno di piccoli elisir e di tristezze,
la rosa sui dipinti
ogni volta come una ferita o una preghiera,
e ovunque – segnali, appunti,
s e r m o n e s per tutti –
o mia nuit che un poco ci recludi
oltre i muri invasi dalle ortensie
come dentro a una città che si chiuda all’alba
con tutte le sue diaspore accese
e come sento, come attendo
i contorni dell’altro paesaggio
dove chiamano i passeri,
troppo pochi perché si parli di essi,
mentre nel verde già accolto s’accorcia il blunotte di maggio
dì, puoi tu con questo affermare che è già primavera?
(da: Carte della città segreta, 1982)

VALLECHIUSA

Il giro delle lucciole sopra le rovine
non offuscava la fragile specchiera
del fiorito maggio di nespoli e di salici
nei paesi ancora chiusi dalle nevi
dove chi lasciava il perduto estuario
non riportava che pochi segni
e poi anfore, amuleti, carte della città segreta
di rari cacciatori, oltre i tumuli disfatti,
come se il vento li avesse sospinti altrove
o dispersi su qualche cima del Lavaredo
dove è vano chiedere notizie del Dio dormiente.
Molti si dispersero prima del viaggio
o chiesero dell’anno che fa più maturi i tuberi nei vasi
se mai vi fossero globi accesi nelle case
o bandiere da portare al vento
chiusi tutt’intorno dal piccolo fogliame
fino alle porte dei freddi lari
dove il giorno si spezza e muta il tempo
in labili vigilie.
Riappari
ma non sei tu il tumulto che preme nelle vene
e fa sicuro il trapezista dell’Holiday on ice
nell’abbaglio che apriva l’intimo paese
dentro un chiaro schermo.
Così morivano le stagioni a Vallechiusa
e ogni pozza era fonte per la volpe
braccata dalla muta.
Stupiva il ritmo delle ceneri,
la costanza delle ore,
la fiamma serbata a lungo
se il fumo che saliva
tutto cedeva nell’incontaminato mese
prossimo a salpare lungo l’angiporto.
(da: Carte della città segreta, 1982)

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI

Sebbene l’inverno dilagasse a Sud
col suo crogiuolo di vendette
su un mondo affumicato di gusci e di pagaie
( qualcuno interpretando instabili barometri
pronosticò neve oltre i rilievi di mille metri
e c’era chi desiderava i soli di Cipro e di Cafarnao ) ,
ci si accorse che né i fiumi né il legno delle staccionate
avrebbero annullato i rilievi d’un inverno molisano,
prima che la ragazza, dal cuore un poco crepuscolare,
una Cocotte forse, ne dicesse tutto il bene e il male;
poi accumulando le ortiche
in un gesto che non era né segno né ira o altro,
le chiedemmo il giardino dei supplizi,
qualche rametto d’ulivo e di boldo, le corde tirate a nodi,
la punta del fioretto a taglio sulla carne
benchè sembrasse strano capire il gioco delle pause,
i ritorni delle due ghiandaie,
mentre le carbonaie bruciavano nel piano
un friabile anno d’astri spenti
e la colomba delusa nella sera
ricorreva alle tue mani come ad una provvida stagione,
dopo i soli di Cipro e di Cafarnao
ove si narra che la neve, quando appare,
non sia poi un disguido dell’equinozio
o il colmo del crogiuolo appena rovesciato.
(da: Carte della città segreta,1982)

CIRCO “MAGNUM”

Le ricercate trame della sera,
dopo il grido del lodolàio solo sul marrubio,
lasciavano filtrare una sottile luce dalla lunetta
mentre l’inverno muoveva funivie,
imbiancava la sparuta orchestrina di magiari
al centro della piazza dove esuli banditori
annunciavano viaggi lungo il grande fiume
e cespi rotolanti per le vie
s’offrivano alla folla come messaggi di un mondo ignoto

(quell’assurdo origliare dietro le porte
quando la bufera premeva sopra i vetri ,
era per noi come andare per memoria),

dopo le fabulazioni, le dispersioni di nevi,
lievi su tuguri e fosse, vigilate per multas horas,
attese come i lupi e i cani discesi nelle valli,
e turisti usciti da baite e da cottages,
avvolti nelle lane, gustando caldo vino demi-sec,
vicini a un mite fuoco, soli, dopo il sogno e l’otium,

barattando l’anima, vendendola per sempre
a qualche mercante di vecchi pegni,
chiedevano al nume cresciuto nella povertà dell’ore,
nuovi passi-passaggi, prima ancora che apparisse l’alba,
che si facesse cerchio attorno ai gelsomini.
(da: Il giro del lazzaretto, 1984)

NEL TUGURIO

La luce che vedemmo come bagliore o fiamma,
non era incendio né apocalisse
e neppure fuoco di pira e di pietre sacrificali
dove chi vi giungeva portava viluppi di vita o biche
(non dimenticare in bocca e nel taschino
marenghi e ori. Oh le meste canoe
e i fumi, i gironi ardenti, notte e giorno, alba e sera
e anni lunghi e brevi !),
qualcuno riuscì a riveder le stelle e pasque nevose
nei cimiteri del mondo, il giorno che risale la china
delle ombre
tra orologi caricati a tempo o a quarzo (io non sorrido più
a chi dice che la tristezza è un organetto di Barberia),
né giungemmo mai in vista dell’anno nuovo su ponti e
dune,
né si seppe notizia
di gente passata oltre le mura (ci fu chi mandò
qualche messaggio
cifrato male,
tu ne sai il senso, la logica della metafora?),
poi vedemmo lunghe carovane, mulattiere tracciate da
zoccoli
e da passi, Magi venuti a notte alta da qualche terra
d’Africa
e d’Oriente, comete finite in fumo,
sempre verde, sempre dolce è la nostra terra
quando i giardini mettono prodigi di campo e di azalee,
la domenica la dedicheremo ai lucernari
e sarà davvero un bel mattino d’estate
se passando per le strade, una venuta in sogno o col
favonio
dirà: – Posso amarvi tutti, entrate uno a uno in
silenzio nel tugurio-.
(da: Il giro del lazzaretto, 1984)

IL TALENTO DEL MESE

Con disordine avanza il mese
tra progetti di spoliazione,
Quello che è stato ritorna:
passato spaccato in due
scandito col tocco di pendoli e sfere
quando il verde sconfina dall’orto invernale,
folto di fabule e storie, ariette discrete,
memorie del cupo fumè del giorno
( i boscaiuoli affidavano ai cani l’ira dei lupi,
temevano l’anno delle improbabili fortune),
passato – trapassato nell’ora ultima o secunda
d’altri afrori e visi
come orologi (gatti mogi) su di noi,
su tutte le foglie (doglie) del giorno
(chi partiva non lasciava che labili tracce,
così fu detto e ripetuto, trascritto,
deposto come codice nella fragile voliera),
poi ognuno si disperse come agnello nelle forre,
chi all’aperto, chi dentro tuguri e torri,
gridando, chiedendo lucerne e torce
ai pochi legnaiuoli rimasti nelle vigne
o nell’arida campagna al colmo di funghi e di pietrame.
Allora fu gradito a molti
l’improvviso talento del mese
messi a tacere i passeri dopo l’ultima kermesse.
(da: Il giro del lazzaretto, 1984)

PICCOLI VIVAI

Da questo bosco (un poco brullo per la troppa neve di dicembre) ,
un tempo senza viottoli o passaggi,
con le fiere che si partono “dinanzi al volto”,
come un’ombra nella mente
o un muro di là dal giardino delle ortensie ) ,
si forma la vita, si dilata in un tenue verde
di quadri e piccoli vivai
tra tiepide tisane e amare pozioni ai pasti o a ore
e le oneste figurine di mestiere
quando dicono che il mondo è “altro”
non questo bosco brullo per la troppa neve di dicembre
dove ogni tanto qualcuno passa,
portatore di notizie e di sventure,
e molto si discute della lunga barba di Dio
come una cometa nella notte più silente dell’anno,
quando qualcosa s’attende che sopraggiunga per incanto,
nella casa di fumo e lumicini
come se molta gente fosse venuta a cercare una verità
che da tempo non esiste,
perché fuori fa freddo,
mancano le luci
e qualche insegna per andare oltre.

Il luogo è quello della volpe
che ansima a metà gola nella neve.
D’altro non c’è traccia
e niente è riportato dagli scribi e amanuensi.
(da: Moviola d’inverno,1992)

UNA STANZA

Una stanza troppa angusta , piena di cose inutili,
di libri passati nell’oblio,
piccoli progetti di scrittura
tra rametti di felicità che non danno più fiori
o foglie da mesi e anni ormai,
li ha bruciati il tempo, non hanno età
rosi come sono da qualche tarlo venuto chissà come
dopo un lungo scorrere di eventi,
di messaggi mai cifrati e abbandonati tra scaffali
e umidi ripiani:
è vuoto mondo dentro e fuori
quando nel cielo qualche lampo brilla come un segno
sulla terra dalle mille nascite e morti,
prima che faccia troppo freddo e buio
e per le strade tornino le fitte schiere degli infelici
a fare domande, a chiedere notizie dell’angelo nocchiero
che da secoli passa indisturbato in mezzo ai vivi,
mentre si fa gelo tutt’intorno, cade la pioggia
ed è tormenta per le anime all’aperto’
(da: Moviola d’inverno, 1992)

1
Hai attesi tutto l’anno la primavera
e ora che è venuta hai rinnovato le arie chiuse,
tolto il blazer di Krizia,
dimenticato il vecchio umore
che incrostava l’anima,
lasciando solo la panoramica di Bristol.

Così se ne vanno gli anni
con la casa verniciata a nuovo
per cancellare la polvere e il grigiore,
l’ombra dei quadri ai muri,
un repertorio di monografie:
oh Mary Bloom
ai crocevia non troverai i minibus per Stonehenge,
ma solo cabine rosse
e un esile decibèl della tua voce
per dirci come sempre, ad ogni primavera:
verremo a settembre, nonostante il lungo viaggio
e i colpi al cuore di Alexander.
(da: Conversazione Galante, 2004)

2
Non so che senso abbia
cercare nei cassetti le foto del passato!

Sempre manca qualcuno o qualcosa:
un libro, un quadro,
il portalume di Burano,
o il dizionario della Garzanti
e quel sorriso difficile da replicare,
con Bobby che non crede più a Santa Claus
e la Tracy che sfioriva contando i leucociti,
sai, a guardarla bene,
è come se non fosse mai esistita!

E non abbiamo segreti per restare:
noi viaggiatori di strade oscure:
stelle di San Lorenzo!
(da: Conversazione Galante, 2004)

ANTONIO CARANO

Tra le tante strade che ha percorso e che percorre la poesia quella di Antonio Carano è senza dubbio un piccolo sentiero che si immette ne “La quieta follia del bosco” Edizioni del Leone – 1991 – dove convergono tutti gli elementi fono-etimo-linguistici della poesia giocosa e satirica, soprattutto di quella proveniente dalla tradizione del Dolce stil novo recuperata attraverso madrigali sempre al limite della sintesi strutturale e del verso-illuminato- tra grazia e ingenuità, tra sottili arguzie e leziosità, all’interno di un breve canzoniere – ludico e ironico – che sconfina nel ritmo di polifonie anche un po’ forzate, ma efficacissime nella corrispondenza con le rime e con il linguaggio nella minimalità delle cose e delle storie che debordano verso una – saggezza della vita – espressa in forma di – ballata e di canzone – sul modello trecentesco.
Renato Minore nella sua breve Introduzione al volume “La quieta follia del bosco” rileva che:” Se la poesia è parsimonia, Antonio Carano è il più parsimonioso dei poeti.
Carano stringe al collo la parola e ne ricava un gioco di rima baciata, una situazione volutamente strozzata, due versi che ammiccano alla fonte e precipitano nella battuta finale”.

BALLATA PER NIENTE

Io son di voi regnanti
giullare e menestrello
ho fole nel cappello
e sogni nel mantello.
Non posso dir la verità
perché spiace alle lor maestà.
Il mio mestiere è far lo sciocco
per sottrar la testa al ciocco.
Ma a mezza voce vi dico:
ogni potente ha la testa
nascosta in una foglia di fico
come ognun ch’è pudico.
E’ come un uccello
che migrando s’abbatte sul più bello.

PAESAGGIO CON ALCE

I’ mi trovai fanciulle un bel mattino
a chiedermi con l’occhio assassino
se è meglio gianna oppure il vino.
“ Cavaliere come siete cretino!”.
Era già l’estate di San Martino
e il marito partì per Torino.
Dal divano urlò: “ siete divino “.
A salvarmi poi pensò il destino.

LA RIVOLUZIONE

Madonna intelligenza
perdendo ogni pazienza
prese la decisione
di far rivoluzione
e sovvertendo la scienza
si vestì da demenza.
Ma dimmi fiorenza:
a te il tè piace più
con lo zucchero o senza?
*
Altri testi hanno ritmi e suggestioni pari agli epigrammi dei “Libri dell’Amore “ della “Antologia Palatina” , con i temi della donna infedele e dell’amante furbastro e occasionale, assai vicini al clima di certe atmosfere boccaccesche quando il – relatore – o più semplicemente il -cantore – di storie un po’ piccanti, aveva la malizia luciferina del peccato e dell’erotismo verbale.

AMAMI ALFREDO

Mi strinse forte tra le braccia
affondando tra i peli la sua faccia.
Disse non sei
l’uomo della mia vita credo
ma amami lo stesso Alfredo.

MELO…DRAMMA

Sei proprio una villana
forse anche un po’ puttana.
Però ti amo.
Chiamami pure Adamo.

PIOGGE ACIDE

Tranquillo porto avea mostrato amore.
Solo che piovve dopo poche ore.

EVASIONI

Amor è uno desio che ven da core
e fugge poi dagli alberghi a ore.

SENZA …..TITOLO

Di giugno dovvi una montagnetta
di luglio un jeans e una maglietta

L’OLIO E L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA

Frate ranaldo do’ si’ andato?
A prender l’olio al supermercato.

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ALBERTO

Mi mandava
strane cartoline
come piccole grida.
Oh armida!
Se veramente mi fossi
chiamato Alberto
probabilmente non ne avrei sofferto.

E qui Carano dà veramente il segno di una personalissima trasgressione che trova il suo aggancio nella tradizione epigrammatica , arguta e sottile , di un Callimaco e di un Asclepiade , con versi ruffiani e maliziosi . .Il fatto è che il – divertissement – non va oltre la stesura degli stessi episodi raccontati, anzi si ferma davanti al ”confine” e al “dubbio “ delle sezioni intermedie della plaquette, e il discorso da giocoso e trovadorico si fa meditativo e crepuscolare . ma di un crepuscolarismo appena accennato di fronte al suono cupo emesso dall’òboe dell’esistenza.
*
Abbaia a lontani abbaini il cane
dell’incerto cavo del caso mentre
la voce còlta nel rapido volo
si spezza nel colpo che improvviso
spazza gli amari amori del chiasmo
del bosco. Botri attraversa l’auriga
dell’aurora che l’erta del monte
attende in un chiasso d’erba chiara
attorta all’atroce atrofia dell’atropa.
Nel salone salomè tra astratte
danze e diatonie astrali si perde
nel liquido lucore di lucide
diatonee.Un solo sogno le resta:
un testardo bisogno di trovare
un pretesto per avere una testa.
*
Un canto s’ode oltre
lo schianto del tuono: un vago suono
un’eco d’ade lungo redole d’aghi
nell’ora antelucana che rotola
lontana verso un silenzio d’alghe.

Fra gli ultimi tremiti
d’ombra si disperdono inquieti
lèmuri nell’oscura trasparenza
della lastra che la strada divide
dagli inganni del bosco.
Neri profeti restano nel grigio
morso del vento
a inventar menzogne guizzi stanchi:
a saccheggiare il tormento che scava
i nostri giorni bianchi.
*
Un attorto groviglio di fiati
attraversa la bruma rappresa
oltre i vetri di questa stazione
come un rauco brusio
un gorgoglio profondo che c’insidia
dal fondo d’una remota stanza.
Un lungo sonno assedia
la nostra dimenticanza.

NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE

ANTONIO CARANO è nato a Campobasso dove vive e lavora. Sue poesie sono comparse, tra le altre, su: “Nuovi Argomenti”, “Tracce”, “Arenaria”, “Tam Tam”, “Salvo Imprevisti “,Juliet art magazine”, “Offerta speciale”, “Dismisura”, “Ghibli”, “L’Ortica”, “I Quaderni del Battello Ebbro”, ”Quinta Generazione”, sulla rivista giapponese “O e Risvolti. Ha pubblicato presso le Edizioni del Leone nel 1991,“La quieta follia del bosco”, e “Afonie- vecchie e nuove”, Gabrieli, 2003.

GIOCONDO COLANGELO è nato a Campobasso nel 1954 . E’ vissuto a Roma dove si è laureato. Ha viaggiato negli Stati Uniti, in Olanda, in Francia e in Germania. Ha curato nel 1980 una “Raccolta di poeti dialettali molisani”. Suoi inediti sono apparsi sulla Rivista ”Nuova Letteratura”. Ha collaborato alla R:A.I., sede regionale per il Molise. E’ ’incluso nella Antologia: “Poeti del Molise”, Rorum Quinta Generazione, Forlì, 1981 e ne: “Il Segno e la metamorfosi” Forum Quinta Generazioni, 1987, a cura di Mario M. Gabriele. Ha pubblicato “Senza recita”, Casa Molisana del Libro Editrice, 1982. Si sono occupati di lui, Mario M. Gabriele, “Tra versi e calembours ” in ”Molise Oggi”, 25 aprile 1982, Pasquale A. De Lisio, in “La memoria, il ritorno e la fuga (appunti sulla poesia molisana contemporanea) in “Misure Critiche” nn.37/39, anno 1980/1981 e in “Proposte Molisane” n. 1, agosto 1982; “Il Tempo”, pagina regionale molisana, del 17.8.1982. Nel 1989 ha pubblicato in edizione privata, ”Il taccuino del sognatore” che raccoglie massime, aforismi ed epigrammi Per la narrativa ha attualmente un lavoro inedito dal titolo: “Ragazzi di canapa”.

CARLO FELICE COLUCCI è nato a Riccia nel 1927 ed è sempre vissuto a Napoli dove svolge attività di medico e di ricercatore. Ha collaborato a quotidiani e riviste letterarie tra cui: “Il Mattino”, “Il Corriere di Napoli”, “Nuovi Argomenti”, “Repubblica”, “La Fiera Letteraria”, “Nostro Tempo”, “Prospetti”, “Uomini e Libri”, “Lunarionuovo”, “Quinta Generazione”, “Tam Tam”, “Poesia”, ecc.
Ha pubblicato le raccolte di versi: ”Feneste’ int’ o scuro”, Roma 1960, “Una vita fedele”, Guanda, Parma 1963;”La Pagaia”, De Luca, Roma 1967; “Poèsies”, Millas-Martin, Parigi 1969, “Placebo”, Lacaita , Manduria 1975; “Preghiera occidentale”, Guida , Napoli 1981; “Chek up” Almanacco dello Specchio, Mondadori, Milano 1983; “La bella afasia”, Lacaita, Manduria 1983; “Memoria e fuga” Edizioni del Leone, Venezia 1987; “A fuochi spenti”, Edizioni del Leone, Venezia 1992, Il viaggio inutile, Ed. del Leone, 2003, La materia dei sogni, Lo Spazio, Ed. D’arte, 2004, Io per le strade, Sabatia Editore, 2004, Il tempo del seme, Gazebo, 2004. Sue poesie sono state tradotte in varie lingue, fra cui francese, serbo-croato, tedesco, spagnolo, greco-moderno. Ha pubblicato inoltre tre romanzi: “La corsia”, Rebellato, Padova 1972; “I figli dell’arca”, Cooperativa Scrittori, Roma 1972- Premio Selezione Napoli 1979-; “I fuochi di Sant’Elmo”, Cappelli, Bologna 1985 , “Il gatto e il Rembrant”” Rusconi 1993

ANGELO FERRANTE è nato a Sepino nel 1938. Laureato in giurisprudenza, risiede attualmente a Perugia. Nel 1983 ha pubblicato “Segni”, Seledizioni-Bologna, raccolta di versi con la quale è stato finalista al Premio Viareggio per l’Opera prima ed ha vinto il Premio Cima, con altri riconoscimenti al Senigallia, a Poesia Nuova, al Cosentino,al Montale e al Premio Nosside.
Ha pubblicato, inoltre, presso le Edizioni del Leone, Venezia 1992 “Concerto per flauto dolce” e per i tipi Campanotto Editore, Udine , 1995- “Làcero quotidiano”, “Reperti Fonici”, Anterem Edizioni, 2000,” Racconto d’inverno”, Manni 2002, “Senso del Tempo,” Book Editore, 2003, “Dentro la vita”, Moretti & Vitali, 2007.
Nel 1985 ha esordito nella narrativa col romanzo “Marirene” nella collana “Gazebo” diretta da Mariella Bettarini e Gabriella Maleti.
Suoi versi sono stati pubblicati in Tam-Tam, Salvo imprevisti, Poesia, ecc.

MARIO M. GABRIELE è nato a Campobasso nel 1940 .Già Presidente del Centro Studi di Poesia e di Storia delle Poetiche ha fondato nel 1980 la Rivista “Nuova Letteratura”. Ha pubblicato “Arsura” Casa Molisana del Libro, Campobasso 1972, “La Liana” Edizioni Ipotesi di Cultura, Canelli, 1976 “Il cerchio di fuoco” Edizioni Ipotesi di Cultura, Canelli 1976; ”Astuccio da cherubino” Forum Quinta Generazione, Forlì, 1978; “Carte della città segreta” S.E.N., Napoli, 1982; “Il giro del lazzaretto”, Forum Q. G., Forlì 1984; “Moviola d’inverno” Ripostes, 1992, Le finestre di Magritte, Bastogi, 2000, Bouquet, Nuova Letteratura 2002, Conversazione Galante, Nuova Letteratura 2004, Un Burnerry azzurro, Nuova Letteratura 2008.
Sulle poetiche degli anni 60/80 ha pubblicato saggi e antologie tra cui: “Poeti del Molise” Forum Q.G., Forlì 1981, “La poesia nel Molise”, Forum Q, G.Forlì 1981, anno IX nn. 79/80- gennaio-febbraio 1981, “Il segno e la metamorfosi” Forum Q.G., Forlì 1987, “.La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea” 2000, “Carlo Felice Colucci, Poesie,” 1960-2001, ” La poesia di gennaro Morra”, 2002, ” La parola negata”, Rapporto sulla poesia a Napoli, 2004,” Colucci, un’antologia di interventi critici e alcuni inediti,” (1963- 2006) 2006. E’ presente in: “Poeti Nuovi” – I Quaderni di Cultura” n. 1 – Canelli 1974, con presentazione di Giorgio Barberi Squarotti, in “Febbre, furore e fiele” – Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980 di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, in “Progetto di curva e di volo” a cura di Domenico Cara- Laboratorio delle Arti – Milano 1994, e in altre antologie tra le quali:” Le città dei poeti” Guida, Napoli, 2005, a cura di Carli Felice Colucci e in “Poeti della Campania” 1944-2000, Marcus Edizioni, 2006, di G:B: Nazzaro. Sue poesie sono state tradotte in iugoslavo e apparse sulla rivista ”Gradiva.” Nel 1982 la vinto il Premio Chiaravalle con il volume ”Carte della città segreta”, con prefazione di Domenico Rea.

PIER PAOLO GIANNUBILO è nato a San Severo nel 1971 e vive a Campobasso. Ha compiuto gli studi universitari a Perugia laureandosi in Letteratura italiana moderna e contemporanea.. Ha pubblicato un volume di poesie dal titolo ”Ariascensione e oltraggi”, Ondeserene – Campobasso 1996. Sta inoltre curando la preparazione di una raccolta di racconti a sfondo fantastico. Fa parte del comitato di Redazione della Rivista letteraria Altro verso.

ARTURO GIOVANNITTI è nato a Ripabottoni nel 1884 ed è morto a Nuova York nel 1959. Fu uomo politico, drammaturgo, scrittore e fondatore di varie riviste letterarie.
Ha scritto opere di poesie tra cui: ”Parole e sangue”, Labor Press, N.Y.1938, “Quando canta il gallo” Edizioni Clemente e Figli, Chicago 1957; “The collected poem” Edizioni Clemente e Figli, Chicago 1961. Per il teatro si ricorda l’opera ” Come era nel principio”” Libreria Lavoratori Industriali del Mondo Brooklin, N.Y. 1918.

NICOLA IACOBACCI è nato a Toro il 18 novembre 1935: Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Napoli, vive a Campobasso. Autore di saggi critici e letterari, di antologie scolastiche Iperione; Urania; La Prora, Milano .Ha pubblicato i libri di versi; “L’orma sull’asfalto” Casa Molisana del Libro, 1965; “Rocce di tufo”, ibid. 1969; “Coste San Rocco” La Prora, Milano 1974; “Sotto il barbacane” ibid. 1976; “La pietra turchina” ibid. 1978; “Il passo dello scorpione” ibid. 1980; “Il diavolo senza corna” ibid. 1982; “DI/spero (Parole al muro) L’Airone, 1985; “Il lucchetto cifrato” ibid. 1987: “La volontà d’essere/Volontè d’ètre – edizione bilingue; traduzione francese di Patrice Dyerval Angelini dell’Università di Nizza, ibid. 1990. In Venezuela sono usciti due volumi tradotti da Michele Castelli dell’Università di Caracas, “Poesìas”, Editorial Vis, 1977 e “La piedra azul turqui””, Eeditorial Orinoco, 1980.
Iacobacci è Autore del dramma “Il lupo tra le lamiere”, R.A.I., Radiodue nazionale, 1983, del romanzo “La tela dei giorni” Liguori, Napoli, 1987, dell’opera teatrale “La giacca a doppio petto”, edizione televisiva nazionale, RAITRE, 1987, del volume di monologhi “Le radici del silenzio”, Liguori, Napoli, 1989, del romanzo “L’unghia incarnita”, Fratelli Conte Editori, Napoli, 1992.
Nel 1992 ha pubblicato “La parabola del volo”, L’Airone Editrice, una raccolta di poesie di 260 componimenti.

GIUSEPPE JOVINE è nato a Castelmauro nel 1922. Vive a Roma ove è Preside nelle Scuole Medie. Svolge anche attività pubblicistica: suoi scritti sono comparsi su: “Paese Sera”, “La Fiera Letteraria”, “Nuovo Mezzogiorno” e si trovano anche in antologie scolastiche per le Scuole Medie e per i Licei. Con Tommaso Fiore ha diretto la rivista “Il Risveglio del Mezzogiorno”. Giuliano Manacorda, Umberto Bosco, Tullio De Mauro, Pietro Cimatti, Tommaso Fiore, Luigi Volpicelli, Piero Bargellini, Massimo Grillandi, Walter Mauro, Gennaro Savanese, Franco Simongini, Ugo Reale, Giose Rimanelli, Raffaele Biondi, Gianni Barrella, Mario Lunetta, Sabino D’Acunto e altri si sono interessati alle sue opere. Ha pubblicato per la saggistica: “La poesia di Albino Pierro” Ed Il Nuovo Cracas- Roma 1965; un saggio citato nella bibliografia essenziale della Storia della Letteratura Italiana di Giuseppe Petronio e in quella di Cecchi e Sapegno; “Benedetti Molisani” Ed. Enne- Campobasso 1979 “ Marcello Scarano e la sua pittura”- Scarano, Campobasso, 1986; per la poesia: “Lu Pavone” Adriatica Editrice- Bari 1970, una raccolta di versi in dialetto molisano incluso nella rosa delle opere finaliste al “Premio Lanciano, 1970”, “La Sdrenga” Ed. Enne, Campobasso 1979; “ Cento proverbi di Castelluccio Acquaborrana” Ed. Enne 1991;“Chi sa se passa u ’Patraterne” Ed. Ventaglio, Roma 1992. Per la poesia in lingua ha scritto il volume ” Tra il Biferno e la Moscòva” Cartia Editore 1975, Roma; per la narrativa: “La luna e la montagna” Adriatica Ed. Bari,1972.

GENNARO MORRA è nato il 22 novembre 1922 a Venafro . Laureato in giurisprudenza ha collaborato a riviste e periodici letterari. Saggista e scrittore , vive attualmente a Roma. Ha pubblicato per la poesia:” Solstizio d’estate” Gastaldi Editore, Milano 1951; “Parole udite domani” Scharz, Milano 1953; “Un grido tra le mani”, Rebellato, Padova, 1959 “Memorie di lei”, in edizione privata e con lo pseudonimo di Andrea Morghen, Roma 1972; “Viaggio nel deserto”, Firenze Libri 1988; sue poesie sono apparse in La fiera letteraria, Momenti, Situazione, Poesia Nuova, Quartiere, Quinta generazione, Prospetti. E’ stato segnalato al San Babila ed ha vinto a Firenze il Premio La soffitta 1956.

GIUSEPPE PITTA’ è nato a Oratino nel Natale del 1949. Giovanissimo pubblica un volume di poesie e inizia una fattiva collaborazione con alcune riviste letterarie e politiche. Intensa la sua formazione poetico-culturale sugli scrittori latino-americani. Si dedica anche alla grafica ed alla poesia visiva. E’ presente con suoi testi in numerose antologie di poeti contemporanei. Per alcuni anni,, impegnato nel lavoro sindacale come dirigente della cgil del Molise, ha prodotto poche ma apprezzabili occasioni culturali: gli intermezzi poetici di un libro di antiche fotografie dedicate ad Oratino ed alla sua gente: alcune apparizioni, con la lettura degli ultimi lavori, in incontri organizzati in vari centri molisani; interventi poetici e critici nei cataloghi di presentazione di mostre di vari artisti. Già presente in “Il segno e la metamorfosi” Forum Q.G. 1987, ha pubblicato il volume di versi: “Giocare di vento” Edizione D’Arte A x A , Roma, 1993.

FILIPPO POLEGGI è nato a Castropignano il 21.10.1944. Giornalista, pubblicista Redattore di “Proposte Molisane” e Direttore di “Molise Oggi “, corrispondente dell’Avanti. Ha fondato il Premio letterario nazionale “Poesia Nuova” ed è Presidente del “Circolo dei poeti”. Svolge intensa attività sociale e politica . Ha pubblicato “Poesie di un giovane “.- Il naif-poesie racconto – Poesie per il Molise” Edizioni Studi e Ricerche 1971 .La critica più qualificata si è occupata della sua poesia con saggi e recensioni.

GIOSE RIMANELLI è nato a Casacalenda il 28 novembre 1926. Vive a Pompano Beach Florida. E’ Professore Emerito dell’Università di Stato di New York, Albany. Scrive in italiano e in inglese. Ha pubblicato :“Tiro al piccione” (romanzo) Mondadori, Milano 1953 , con ristampa nel 1992 presso Einaudi; “Peccato originale”, (romanzo) Mondadori, 1954; “Biglietto di terza”- (narrativa) Mondadori, 1958; “Una posizione sociale”, (romanzo) Vallecchi, Firenze, 1959: “Il mestiere del furbo”(cronaca letteraria) Sugar, Milano 1959; “Tè in casa Picasso”, (commedia) Il Dramma, Torino 1961; “The French Hom” (commedia) 1962 ”Lares” (commedia) Il Dramma, Torino; ”Modern Canadian Stories”(antologia critica del racconto canadese) 1966; “Carmina Bla-Bla” (poesie) Rebellato, Padova 1967; “Monaci d’amore medievali” (poesia tradotta e adattata) 1967; “Tragica America”(saggi narrativi su U.S.A. sessanta) 1968; “Poems Make Pictures Pictures Make Poems”(poesia visiva (concreta) per bimbi, 1971; “Graffiti” (romanzo); “Italian Literature: Roots & Branches” (saggi di letteratura comparata dall’A alla Z italiana anni settanta) 1978; “Molise Molise”(memorie: autobiografia/romanzata) narrata, 1979; “Il tempo nascosto tra le righe”(racconti),1986; “Arcano” (poesia) 1990; “Moliseide” (poesie in dialetto molisano) 1990/1992; “Benedetta in Guysterland” (romanzo in inglese) che ha ricevuto :”l’American Book Award nel 1994 “Alien Cantica An American Journey” (poesia/diario) Peter Lang 1995; “Dirige me Domine, Deus Meus”(saggio) 1966; “I Rascenije” (poesia in dialetto) MobyDick, 1966.
Altri titoli sono in preparazione per il 1966: “Detroit Blues” (romanzo stampato in America, in italiano) ; “La stanza grande” (ristampa presso Avagliano Editore di: “Una posizione sociale”; “ Da G. a G.: 101 sonnetti (sonetti a 4 mani) di imminente uscita a New York con traduzione in inglese di vari noti italianisti; “ Accademia ” (romanzo) in inglese, in corso di stampa. Notevoli i contributi critici su Rimanelli, in particolare quelli di Accrocca, Manacorda, Tedeschi, G. Jovine, Faralli, Martelli, Reina, Spagnoletti ,Fontanella, Granese Serrao ecc..

VINCENZO ROSSI è nato a Cerro al Volturno il 7 luglio 1924. Laureato in lettere ha svolto attività di insegnante nelle scuole molisane. Collaboratore di periodici e riviste letterarie., ha pubblicato le sillogi “In cantiere” Gastaldi Editore, Milano, 1960; “Dove i monti ascoltano” Gugnali Editore, Modica , 1973; “Verdi terre” Forum Quinta Geneerazione, Forlì 1979; “Il grido della terra” Forum Quinta Generazione, Forlì, 1987. Ha scritto diversi racconti: “La memoria del vecchio” Editrice Italia Letteraria, Milano 1975; “Il tarlo” Forum Q/G. Forlì 1977; “La terra e l’erba” ”E.Di.Ci. Editrice, Isernia, 1984; “Il Cimerone” Editrice Il Salice”, Potenza, 1990 e alcuni romanzi : “Conto alla rovescia” Gugnali, Modica, 1973 ;”Il Ritorno” Forum Q/G. Forlì 1983; “Fonterossa” Cosmo Iannone Editore, Isernia, 1987; “Lola” Edizioni Il Ponte Italo/Americano, N.Y. 1991. Notevoli i saggi sulle sue opere.

LAURA VITONE è nata a Sepino l’11 luglio 1911. Ha pubblicato due volumi di poesia: “La notte della luna” Pellegrini Editore, Cosenza, 1973 e “Lettera immaginaria” Forum Quinta Generazione Forlì 1982. Diego Valeri e Marino Moretti sono stati i primi estimatori delle sue poesie pubblicate su “La fiera letteraria”.