L’ERBA DI STONEHENGE (2016)

 

(1)                        Poéme en Prose

Giuditta Aldobrandi, governante dei Conti Mineo,

prese posto sul treno Berlino-Milano,

e vi sostò irrequieta.

Una donna, senza trucco Perlier,

si specchiava ai finestrini bagnati dal nevischio.

– Anni davvero imprevedibili- disse il cartomante.

Inverno sotto zero.

Era un miracolo se non si occludevano le vene.

Cartilagine assottigliata all’osso.

Come un morso stringeva il gelo.

Non si capiva se c’era nebbia oppure neve.

Bauli aprivano al passato.

Good Morning Mister President!

Good Morning Bagdad!  

I crani della Storia luccicano sotto i campi di baseball,

come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.

Bombs! Bombs! Bombs!

In viaggio con Jack

si avvertiva una ferita ancora aperta:

un senso di colpa, mai risolto.

Veneziani merletti di schiuma e di glassa,

ci pensi oh Al Qasim sembravano luminarie

ed erano cannule di cancri e inganni:

Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio

come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:

arabesque di fosforo bianco

sulla città senza skateboard pick-up,

come a Phuket, quando in un mattino dorato

portava il terrore lo tsunami,

venuto per bocca di mare e splendido sole.

L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Terra di vento. Terra desolata!

Gli alberi del Sud danno uno strano frutto,

sangue sulle foglie, sangue alla radice,

corpi neri che ciondolano nella brezza del Sud,

strano frutto che pende dai pioppi.

Le due ragazze venute da Princeton,

non amavano le piante rosso-Mirò.

Se ne stavano tranquille

leggendo Berryman e Bishop.

Alla settima stazione Johannes

prese dodici pietre  pari ai mesi dell’anno

e le portò  al tribuno di turno dicendo:

ecco  I dolori del giovane Werther,

poi  bevemmo dodici tazze d’acqua di mare.

Tornarono gli uomini della Landespolizei

a chiedere biglietti ai viaggiatori della Guyana.

Prima di partire portammo rametti di boldo,

e per sette volte, e soltanto in quest’ultimo giorno,

pregammo per noi  e per tutti i giorni nell’ombra.

(2)

                       

Finiva la sera tra diaspore accese.

Nel terzo frammento di anonimo fiorentino

i peccatori non entrano in cielo

finché dura la terra,

e giorno e notte non cesseranno

come il ricordo di Barbara Winter

che tanto amò,

e di Timothy il pescatore,

e di Jorge, il custode del cimitero,

e di Padre Alberico

quando parlava ai dispersi nell’ombra:

– Il Signore avrà cura di voi,

così com’è scritto nel Libro d’oro

e Allume di Rocca-.

Loris, avanti negli anni,

scelse il vestito più bello

per un giro di valzer al Garden Hotel

dove due mistici

discutevano con le Signore di Betz

di Luca e Giovanni;

– Se ci seguirai – dissero,

– ti daremo pane e verbena

e l’amore di Ketty nelle notti più fredde dell’anno-,

e non so più in quale Trittico

è riportato il frutto proibito

con un Giardino di candidi gigli,

e la luce del sole come un faro sul mondo.

A sera  beviamo Jagermeister

dai calici d’argento lavorati a scalpello

sui tavoli di mirra e incenso

per un dolce Nirvana,

né topici unguenti ci guariranno domani.

Quest’anno  il viburno non ha dato più fiori

e il viaggio è appena cominciato

senza trolley e bussola di marinaio,

diviso il bene e il male, la bufera e altro.

(3)

La notte  celò i morsi delle murene.

Tornarono le metafore e gli epistemi

e una folla “che mai avremmo creduto

che morte tanta ne avesse disfatta”:

Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,

Erich, falegname in Hamburg,

Ruth, vedova e madre di Ehud  e di Sael,

Lothar e Hans, liutai.

Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,

Guten Morgen-, disse Albert.

Qui curiamo le piante e le orchidee,

offriamo sandali e narghilè ai pellegrini

in cammino verso Santiago di Compostela.

Sui gradini dell’Iperfamila,

tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,

Moko Kainda  sognava  l’Africa di Mandela.

-“Doveva essere migliore degli altri

il nostro XX secolo”

scriveva  Szymborska,

tanto che neppure Mss. Dorothy,

chiromante e astrologa,

riuscì  a svelare le carte del futuro,

né Daisy si dolse del sole africano,

ma dei muri che chiudevano

le terre di Samuele e di Giuseppe.

E non era passato molto tempo

da quando Margaret e Jennifer

(che pure in vita dovevano essere

due anime perfette e pie),

volarono in cielo.

L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.

Era ottobre di canti e heineken

con  la foto della Dietrich sul Der Spiegel.

Riapparve la luce,

ed era tuo il lampo sulle colline

bruciate dall’autunno.

Ma è malinconia, mammy,

quella che ha preso posto nella casa

dove neanche le preghiere ci danno più speranza.

Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,

l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,

la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.

Fra poco la neve coprirà il poggetto.

Ci sarà poco da raccontare

a chi rimane nella veglia,

dove  c’è sempre qualcuno 

che parla della lunga barba di Dio

come una cometa

nella notte più silente dell’anno,

quando il gufo da sopra il ramo

sbircia il futuro e vola via.

(4)

La luce apriva varchi alla città

fino al colle delle beatitudini.

Bennett riordinò i pensieri.

Le cose più strane vennero

quando attraversammo il confine.

La strada era asfaltata.

-Che fai Dorothy,

leggi ancora Gottfried  Benn?-

Klabund  è morto da un pezzo.

– Vuole un drink, Mister Cooke?-

I figli di Jane sono rimasti a Stratford

con  Re Lear Macbeth.-

Il fiume, già al limite di guardia,

seguiva  il Big Ben dissolto nella nebbia.

Un entroterra senza verde

attendeva  la primavera.

C’era ancora una solida luce nella casa

a illuminare gli angoli bui.

L’uomo, con le cicatrici alle spalle,

ha lasciato versi double face.

E’ stato Priston a dirci di lui

con tutte le storie su Evelyn e Hooper

e della casa venduta a Willowbrook.

Aspetteremo che passi l’inverno.

A marzo, dovrà pure fermarsi Violetta!

(5)

Niente di vero

che tu possa restare in questo villaggio.

Ci sono ricambi di stagione

che non puoi prevedere.

Quando stavamo in città,

 e non c’erano furti nella casa,

ogni pensiero era allodola nel mattino.

A Elisabetta piaceva  Il ritratto di Dorian Gray

e  un PC con webcam sul Mondo.

C’è  un turno che ha un volto di pietra

e  tutto quello che vedi è casa, nido,

ripostiglio di figure la sera.

La curva delle costole

era il punto più alto del dolore.

Alberto venne in anticipo

a prendere sciarpa e cappotto per l’open day

mentre leggevamo i suoi versi blu night.

La notte era un cobra selvaggio.

Un verso-bolero scivolò sul parquet.

-Meine Damen Und Herren-,

disse  l’anchormann  in TV.

Domani riapre il teatro

con trentasette  ballate di Enzensberger

senza Schulz e il Mein Kampf.

(6)

Dove  le volpi allarmavano la brughiera

ora c’è l’autunno flagellato sui cipressi.

Il nostro addio non fu mai una morte

se anche il caso ci portò al caffè Balestra,

patria di scrittori dandy e un po’ neorealisti.

Madame Ligussì, interpellata,

non confermò la presenza di amorini antichi,

nonostante le carte

sembrassero quelle di un mercatino

che di una astrologa.

Tra me e te era rimasto un ponte

e nel tempo una tèrmite.

Baldus scese le scale citando il Decalogo:

– Saranno vostri i delfini del mare

e gli uccelli del cielo,

ma non avrete un penny per i vostri  peccati.-

Corvi e ippogrifi

restarono in un mondo senza albe e tramonti,

e il mattino era un deserto,

e il deserto era senza il mattino,

fu un freddo avvento per noi,

proprio il tempo peggiore dell’anno,

per un viaggio, per un lungo viaggio come questo,

e chi giunse al fuoco del bivacco

trovò anfore e amuleti,

senza lasciare traccia o indizi

all’ultimo venuto e a chicchessia.

(7)

Questa tela di anni così diversi fra loro

poteva  avere  bordi  più belli,

ma Ketty non volle.

Una Street Art in via Merulana

fissava sui muri colori inadatti

per un inverno alle porte.

Zia Molly contava  i  boys del West Coast

caduti ad Al -Anbar:

ragazzi del melting pot,

che amavano raps e  rhythm & blues,

senza  le mitragliette Uzi,

mentre saltavano pick-up,

e boati scuotevano i fiordalisi

massacrati nei giardini.

Lungo la Deutsche –Limes Strass,

tra striduli violini e suonatori d’orchestra,

tornarono in mente le cialde

dei forni di Auschwitz

anche se il meglio con il tempo

non è mai venuto,

dopo il canto di Simeone

e le campane di Pasqua.

(8)

Un tessuto di velluto rosso

bruciava  tra le ceneri del mese.

Vicina al convento dei frati minori

si sdoppiava  la strada  barocca

con l’epigrafe sul vecchio maniero:

-Resterete qui in un breve battito d’ali,

tra polvere d’astri e di comete-.

Il turista venuto da Brera

gustava crème brùlée

durante il concerto brandeburghese

su una storia di vecchie signore

nel discreto parlare di foglie nel bosco.

Rachele non disse nulla:

signora  del sesto sigillo

portava  con sé le parole di Cohen:*

-“Dance  me to the end of love”-.

Uscita dal giro di un breve underground,

Marisa riordinava  le stanze e gli arredi,

lasciava  al gatto  residui di Gourmet,

e un’aria fredda  muoveva  le cime dei cipressi

che da anni non mutano tristezza.

*Leonard Cohen: poeta e cantautore canadese tra i più noti della storia della musica. La traduzione del verso è :“Conducimi fin dove finisce l’amore”.

(9)

La casa era piena di arredi

come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava  le piaghe

con l’erba mèdica e il miele d’acacia,

e ogni volta che tornava al Majestic,

gli amici del club le donavano fiori di pesco

e cioccolato allo sherry.

Angela  Adònica

è un dolce poema,

ma al n. 5 di rue de Pigalle

bouquinistes regalano coupon

per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia

o un ostello a Smolenskoe-,

disse Karima, stanca di inutili attese

e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.

Ma era tutto un tacito andare

per vicoli e strade

senza  sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire

che ci sia stato un disastro tra noi,

se la vita è sempre stata la stessa

mentre cresceva l’erba

nel cerchio di Stonehenge.

(10) 

 A Villa Real  c’era una stanza

con self service e l’abbaino ristrutturato.

Qui medicammo le ferite,

regalammo a Consuelo

un poster di Guernica

dopo un lungo silenzio

che lasciò alla quercia

tutto il tempo per rifiorire.

Pei sedili sale Ignazio,

tutta la sua morte a spalla.

Andava in cerca dell’alba,

e l’alba non esisteva.

Oh Almedena,

mira  le foto de la fiesta!

La vita diventa racconto,

si naviga  a vista.

L’ha detto Piqueras: è tutto un naufragio,

un male di mare! E’ successo anche stamane

a Gonzales con le luci spente nel porto

e i cartelli by night.

(11)

Finita l’aspra contesa

tornammo a Thomas Kinsella

in Un altro settembre,

senza deliri e pause discrete.

il Signore, da tempo,

non  butta  più acqua nei pozzi,

lascia stare le cose così come sono.

Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,

come la preghiera di Suor Evelina

che è un mistico dire.

La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare

lasciando le ombre attaccate alle mani.

Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!

Ludmilla  porterà  di sicuro una nuova stagione.

La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.

Principessa, è tempo di fermare l’autunno,

restituire agli alberi le foglie cadute.

(12)

Una carovana di nuvole grigie

sostava  sulla certosa  ambrosiana.

Via Alpignana 16:

hotel di Madame De Sirè;

ci si arrivava in ogni ora

del giorno e della notte

dopo una corsa dietro il tranvai

senza aver letto don Lisander.

Davanti alle slot machine

c’era chi bruciava il tempo delle mele

e il ricordo di Potsdamer platz.

Mimì, millefiori,

aveva una casa in collina

con cavalli di razza e beatitudine  solare,

ma quando ascoltava Ciaikovskij

se ne stava sola rincorrendo fantasie urbane

e un amore per Pollock.

Un uomo ingabbiato amava I fiori del male.

Monet prese alloggio a Saint Remi de Press

su un mondo senza colori.

Ma era ancora terra santa, Maurice,

con il Natale di prunus alle porte

e di muschio in via Toti.

(13)

Miss. Olbruck andava al mercato

per le “offerte speciali”.

Al Jolly Club si trovava di tutto

anche una copia di Kaddish

da  leggere ai tavolini del caffè Bonnard.

Sulle favole antiche

c’era chi scriveva romanzi.

Dopo gli scarti della giornata,

Willy cercava il varco nel castello di Kafka.

Monsieur Dolmetich,

ignaro delle leggende cristiane,

portava  ricette nel Giardino d’Infanzia.

Davvero conclusivo, Madame Schobert,

il pensiero sulle sette fontane  malate,

ma  il Libellus comprato in Spagna,

riportava  cattedrali  e  il Museo del Prado,

prima di passare  check point,

leggere haiku e il libro di Klein,

cercare i giardini pensili

ora che Olivia non c’è più.

(14)

                      

Brillava una subway di luci e megastore,

con copertine da pretty woman

e il volto di un amico malato di rosòlio.

Meg stava meglio

bevendo infusi di tiglio e guaranà.

A vedere il giardino dei Frost

sembrava che il tempo si fosse fermato.

-E’ stato un anno di innesti e fioriture-

disse  il guardiano del Parco.

Il gatto Dubrosckij, fuori dalla lettiera,

seguiva le note del sestetto misto.

Erano spariti gnomi ed elfi.

Due attori di primo teatro

leggevano Il pomeriggio di un fauno.

Il sole si fece da parte.

Nancy aprì  le imposte

lasciando barrette di sogno.

Un armonium accarezzò il silenzio

di Hieronymus Bosch e di Hàndel,

di Giselle e la bella Odette,

e del cantante di colore

dopo la replica di Porgy and Bass.

Era arrivata la stagione

con  gli attrezzi da scasso e di mestiere.

(15)

Jodie vive a Norwich.

A volte ritorna con preludi d’amore

nella stanza che ha riflessi d’aurora.

Lungo le strade passano uomini e donne

con vestiti a doppio petto e chiffon.

-Garrett, ci sono notizie da Norwich?-.

Farfalle di neve si posano sui vetri.

Picasso è allo sbando

in Autoritratto con cappotto

e sfondo blu notte.

Le sorelle di Suor Angelina non dicono nulla.

La casa ha vermi e muffette.

Ora scrivo pamplet.

Ti amo Jodie come Vladimir amò Lilja Brik.

Nel vecchio palazzo vicino al Babyroom

l’infanzia non sa dove andare.

Il postino Ermete ricarica lo smartphone,

lascia  avvisi di crociera,

si tiene per sé il rasoio di Occam.

Per l’interpretazione di questo testo si precisa che Jodie simboleggia la Poesia, mentre Norwich è il luogo della sua emarginazione. Le sorelle di Suor Angelina sono la Metafisica e la Religione. I Vermi e le Muffette rappresentano il pensiero negativo. Il Postino Ermete è il poeta che indaga sulla vita. Il Ritratto con cappotto di Picasso ha un riferimento psicologico più complesso e interattivo.

(16)

La speranza  giaceva nel cassetto.

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,

lo beviamo al meriggio, al mattino,

lo beviamo la notte,

ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà Modan, papà Modan-,gridava Joelle

al primo allarme nel querceto,

quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente

venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,

un altro soffrire,

e so di fumi che offuscano il cielo

e di gente alla riva che aspetta  Godot.

(17)

Torna aprile sui monti innevati.

Nietzsche, perdute le scarpine,

se ne sta solo nell’aldilà

senza Cristo ed Ezechiele.

Mary  nel Getsemani

cerca il pane dell’Ultima Cena.

Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,

quando si parlerà di Cynthia e di Karen,

passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold

nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,

se non fosse per Matisse entrato nella stanza

con il Nasturtiuns With The Dance del 1912:

un secolo di croci contorte

e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,

dal tuo lettino a Farmerhouse.

(18)

Tardiva la tua risposta portò

il ricordo di Srebrenica e Zepa,

riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo

per aprire reperti fonici,

fare da ponte ad ogni intruso della realtà,

coordinare le latitudini dei ghiacciai,

senza bussole e fischietti di richiamo,

anche se poi di tutto si può parlare

rifacendo i passi nel deserto,

fino al silenzio di Majakovskij 

e “niente pettegolezzi”*

per un passaggio discreto a Novodevicij,

senza avvisi di uccellacci e uccellini.

* Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

(19)

Una nuvola bianca che mai s’era vista

più  bianca di un bianco di neve in inverno,

poca acqua dentro, poca,

sostava  su un vecchio faubourg

di tùmuli e croci,

sostava  più a lungo delle nuvole grigie,

sicura di celare l’azzurro,

velo bianco,

più bianco del viso di chi trascolora,

sostava, oscurando l’occhio del cielo,

più cieco dell’occhio di Dio,

come un bianco lenzuolo

copriva Marina tra le rughe del fiume,

sostava celando l’azzurro,

le tombe e le croci di un vecchio faubourg.

(20)

Questa strada di industrie in disuso

non ha più profumi di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo,un angelo azzurro

prese alloggio nella casa di Piera.

Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:

carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.

Biorin , uscito da un triste calvario,

si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte  ci fece uguali.

Tornò  Gardel  con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.

-E’ una cosa molto rara,- disse il concertista in prima fila.

-ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,

tornarono di nuovo le violette di marzo.

(21)

Sei andata oltre il giro dei pianeti

a cercare  cherubini, il giardino dell’Eden,

fuori dai sogni smarriti per il mondo

come il tuo Dio, emigrante altrove;

il gesto di Florian davanti alle ceneri dei morti:

un inutile divagare fino alle rive del Po

in questo Maggio da unde malum

come se fossimo rimasti soli

in mezzo ai clivi erbosi di lupi ed orsi neri:

è dunque questa la nostra storia:

un verderame nelle vene

dove ristagnano le memorie

come  crisalidi del passato,

oh Helda!

(22)

Dimmi Gaudiè

a quale altezza si perde il tuo occhio

e quanta solitudine dovrà ancora rimanere

in questo transito breve?

Mamma  Rose ama i poeti

negli happening di agosto.

Prossimo all’embarquement,

Mister K, ha reciso i fiori

per non vederli soffrire

inebriandosi di reviews,

ma sempre fiato di Whitman sono,

sempre voci di Beckett e di Eliot

di Lee Masters, e Waldo Frank,

e di tutti i poeti passati

senza luce nel fondo,

come nella casa di Lory

quando chiama a raccolta

le ginestre nel mondo

per dire cosa Gaudiè? Cosa?


Commento di Letizia Leone

Come collocare nello scenario poetico attuale la poesia lavata da ogni emozione di Mario Gabriele? Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco esulano da categorie di appartenenza, canoni o mini-canoni poetici e confinano con esperienze artistiche di matrice neo-concettuale come certi esperimenti di Anish Kapoor, si pensi alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture per esempio.
In un certo senso questa è una poesia concettuale, dal forte impianto estetico-filosofico, “metapoesia” come è stata definita e scrittura superficiaria dove “la parola non esplode, non fruga, non le è data la funzione di levarsi in armi di fronte all’oggetto per cercare nel vivo della sua sostanza un nome ambiguo che la riassuma: il linguaggio non è qui violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie”: così riferisce Barthes in merito all’opera di Robbe-Grillet, con il quale Gabriele ha sicuramente almeno un punto di contatto fondamentale, la “promozione del visivo”, l’oggettività, la “resistenza ottica” del rappresentato svuotato completamente dal “focolaio di corrispondenze”:

Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I,come Ipèrbato, O,come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

Versi che funzionano come grandi specchi deformanti. Rifrazioni, pulsioni, allucinazioni, Gabriele scherza, si diverte in modo sapiente accumulando sulla superficie specchiante del suo verso i frammenti della Storia, le schegge di un immenso patrimonio letterario e poetico. Ma i “frammenti-citazioni” isolati, strappati alla dialettica del racconto, diventano cassa di risonanza di una Storia che ha perso la sua funzione di magistra vitae, di messaggera dell’antichità dato che, nel momento stesso in cui ne viene negata la funzione pedagogica, smarrisce oltre all’autorevolezza della testimonianza perfino la sua aurea.
Il mondo insensato e indifferenziato della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista.
Il frammento è come l’oggetto da collezione di una società “estetizzata” che ha spezzato ogni linea di trasmissibilità con la tradizione e procede per accumulazione seriale.
La collezione infatti privando l’oggetto del suo valore d’uso, lo archivia ed espone dietro una vetrina quale numero di serie in una carrellata ottica di modelli, codici, segni.
Non a caso lo sviluppo del museo è fenomeno della modernità. I grandi poli museali contemporanei sono le nuove cattedrali per la celebrazione di un culto laico in grado di pilotare le “grandi transumanze” del turismo culturale: “Il museo guadagna terreno un po’ allo stesso modo che cresce il deserto: avanza laddove la vita si ritrae e, pirata animato da buone intenzioni, saccheggia i relitti da essa lasciati”. (Jean Clair)
Accumulazione ed enciclopedia si rivelano i termini di un estetismo atemporale ed extraterritoriale: il flusso della versificazione nei testi di Gabriele sembra, in un certo qual modo, ricalcare lo stesso sogno enciclopedico giocato sull’orlo del non-senso di Bouvard et Pécuchet (1881). In una sorta di astrazione le citazioni, quali apparizioni spettrali, assumono la valenza di segni efficaci:

…Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President! Good Morning Bagdad!
I crani della storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
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Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
Come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
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L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Già Benjamin aveva capito il potere della citazione di “far piazza pulita, di espellere dal contesto e distruggere”, attimo di straniamento, epifania che si avvale di un meccanismo di riciclaggio degli elementi dormienti del passato come nel caso di Gabriele dove entrano in gioco tutti gli ingredienti dell’attualità in totale promiscuità.
E se ormai ci si può parlare solo per citazioni, questo ininterrotto dèjà-vu attiva una significazione secondaria, carica la scrittura di stimoli e irradiazioni atte a sollecitare un continuo feedback, una multistimolazione che richiede la partecipazione attiva del fruitore. I frammenti lanciando appelli al lettore rendono il testo un sistema aperto.
Il frammento-citazione assume il ruolo di simulacro di un nuovo feticismo culturale e promuove una vertigine di superficie dove non ci sono pieghe in cui infilare lo sguardo perché ormai l’azzeramento di ogni metafisica ha liberato l’oggetto da ogni prospettiva illusionistica, da ogni profondità legata alla percezione promuovendo l’immanenza “poliziesca dello sguardo”, il disincantamento radicale, o come direbbe Baudrillard uno “stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica”.
“Effetto di superficie” è stato definito questo stile che si avvicina molto alla tecnica dell’iperrealismo, alla “reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte… Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività”.
L’iperrealismo, afferma Lyotard, è al di là della rappresentazione soltanto perché è completamente nella simulazione.
E se l’arte si assume il compito di liberare o straniare lo sguardo sul mondo, è pur vero che da tempo ha prefigurato questa completa “estetizzazione” della vita, una sovraesposizione dove “tutto si duplica in se stesso, anche la realtà quotidiana e banale” e tutto si confonde con l’immaginario, si spettacolarizza.
La seduzione estetica permea ogni aspetto della realtà, la “carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell’atmosfera cieca e brillante dei simulacri”. Iperrealismo come allucinazione estetica della realtà.

Dunque una poesia che modula la crisi della modernità, questa di Mario Gabriele. E che la poesia inoltre non potesse eludere la rivoluzione della fisica Einsteniana non era sfuggito ad Oscar Milosz: “la poesia di domani nascerà dalla trasmutazione scientifica e sociale che si sta compiendo sotto i nostri occhi”. Infatti da quando il pensiero scientifico, forte del principio di Indeterminazione di Heisenberg, ha aperto la via alle “relazioni di incertezza” un profondo cambiamento è intervenuto nell’approccio gnoseologico alla realtà. Se l’io che giudica o contempla costituisce una modificazione dell’oggetto in sé, l’intervento dell’osservatore non è più rilevante nella definizione o rappresentazione dell’oggetto, lo è invece la consapevolezza delle molteplici relazioni, dei molteplici condizionamenti che ad esso ci legano.
Ecco, la poesia di Gabriele parte proprio da questa ridefinizione dei rapporti tra soggetto ed oggetto… Heisenberg è stato molto chiaro in proposito, quando afferma che “per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso”.