La parola negata (2004)

Prima parte

PREMESSA

L’autore di questo volume, consapevole delle enormi difficoltà relative alla compilazione di un’antologia, non ha voluto sottrarsi al desiderio espresso da alcuni intellettuali napoletani, che gli hanno chiesto di approfondire il problema dei poeti meridionali “dimenticati” dai repertori della poesia italiana contemporanea, che in nome dell’autonomia e dell’arbitrarietà stanno attuando vere e proprie estromissioni, con ingiustificati sbilanciamenti a favore di una sola area geografica -quella del Nord-, contro il resto del territorio italiano, più in specifico napoletano, che qui prendiamo come exemplum per l’indubbia rilevanza qualitativa e quantitativa delle opere poetiche pubblicate. Si sta, insomma, consolidando uno status poetico da parte dei maggiori centri editoriali che non hanno più bisogno della critica ”considerata inutile, poiché l’elogio è sostituito dalla vendita riuscita e il rimprovero eventuale dalla mancata vendita. Queste sono le critiche. Ciò che non si vende, non c’è bisogno di criticarlo oltre. Se esistessero dei giudizi pubblici linguistici (la cui mancanza è naturalmente una mancanza di libertà), questi violerebbero agli occhi degli imprenditori la libertà loro concessa: appunto la libertà di offrire le loro merci sul libero mercato. Naturalmente esistono anche critiche “positive”.
Ma queste, a differenza delle critiche culturali o letterarie, non vengono scritte da colleghi, ma appunto dalle imprese stesse. In breve: consistono nella pubblicità” (1).
Il Meridione, isolato nei suoi fallimenti economici, con “i casi più vistosi, del Banco di Napoli e della Cirio, della Società Risanamento e dell’Alenia” (2), soffre da anni della totale assenza di una classe imprenditoriale fatta di autentici businessman, mentre si consolidano le piccole case editrici, tipo print on demand, con collane di poesia che non raggiungeranno mai il top delle vendite, per difetto di distribuzione e di pubblicità, al contrario dei vari Mondadori o Einaudi, che restano le sigle più ambite e mitizzate dagli scrittori, anche se pochi vedranno pubblicate le proprie opere, e molti si autoescluderanno da un mercato rigorosamente selettivo, lontano da una letteratura capace di uscire dalle maglie di una dilagante koinè poetica e superare così“la staticità dei canoni letterari nazionali e le metodologie previste per la letteratura già canonizzata”(3), nonostante le vie del web e i siti internet comincino ad essere i canali preferiti dai poeti, oltre ai festival e agli slums dove si trova un po’ di tutto: dai versi pop a cose più serie, che parlano di “periferie urbane, immigrazione, nuove forme di povertà” (4).

Questa Antologia non si occupa dei poeti deceduti, ma si limita ai poeti di Napoli e del suo hinterland, nati nel 1920, (con il decano Alberto Mario Moriconi), fino al 1960: un periodo circoscritto alla cosiddetta quarta, quinta e sesta generazione, passando dalla Tradizione, al Rinnovamento, allo Sperimentalismo (trasgressivo), senza escludere gli esiti della poesia femminile e le tante proposte innovative dalle diverse sigle editoriali, riservando per ciascun poeta una breve scheda che non riveste il significato di “critica” ma di “opinione”, fino a riportare in superficie un tratto “sommerso” della poesia del secondo Novecento a Napoli, come patrimonio culturale di complesse pluralità operative, inscindibili dalle tante Antologie critiche di ieri e di oggi, nonostante le defezioni di alcuni poeti come Gabriele Frasca, Felice Piemontese, Wanda Marasco, e Michele Sovente, che pur essendo stati invitati, si sono autoesclusi mimetizzandosi nel silenzio e nella cosiddetta — divisività -, (5) che non è nata oggi, ma che ci portiamo dietro dall’inizio della nostra storia di paese apparentemente unito.(Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia- di Giuliano Gallo- Corriere della sera, 2 luglio, 2004, pag. 31, come recensione al volume – Due Nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea -, a cura di Loreto Di Nucci e Galli della Loggia).
L’Autore ringrazia tutti coloro che hanno autorizzato la pubblicazione dei testi poetici in particolare: Alberto Mario Moriconi, Franco Riccio, Aristide La Rocca, Carlo Felice Colucci, Franco Cavallo, Antonio Spagnuolo, G. B. Nazzaro, Stelio Maria Martini, Ugo Piscopo, Franco Capasso, Ciro Vitiello, Alessandro Carandente, Tommaso Ottonieri, Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli; nonostante abbiano avuto ampi e importanti riconoscimenti perfino al Nord, (ad onta di certe ingiustificate omissioni che rappresentano appunto uno dei temi se non il principale di codesta trattazione), tuttavia non tanti, quanti ne avrebbero certamente meritato, avvertendo che la presente “antologia” (se così la si vuol definire per comodità espositiva) non vuol essere l’ennesimo repertorio dei poeti napoletani o censimento, di cui certo non si avverte la necessità. Ma come già si è accennato, e come meglio si capirà più avanti, la ragione ed il senso di questa parola negata, a partire-ovviamente-dal titolo, risiedono in ben altro.
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(1) Linguaggio e tempo finale di Günther Anders, MicroMega, 5-2002, pag. 103.
(2) Sud contro Sud, gli inediti nemici di Paolo Macry, Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2003.
(3) I nipoti di Chamisso di Daniela Roversi, Chichibìo nn. 21-22, anno V, gennaio-aprile 2003, pag. 12.
(4) Tommaso Ottonieri, Lo Specchio, 14 giugno 2003, n. 377 pag.58.
(5) Il neologismo è dello storico Luciano Cafagna.

CORRELAZIONI ALLA GIUSTIFICAZIONE

All’editore compete di scegliere secondo il suo giudizio di convenienza tra le offerte sottopostegli; e potrà anche arrogarsi il diritto di manipolare i testi, nel processo di mercificazione cui dà avvio per farli giungere al lettore. L’imprenditore editoriale, anche il più forte non fa altro che scoprire, potenziare, prolungare linee di tendenza obbiettivamente esistenti. Il suo potere contrattuale è rilevante, rispetto sia a chi scrive sia a chi legge nell’ambito però di un rapporto di mediazione che non tollera di esser forzato troppo oltremisura.
(Carlo Salinari, Cesare Ricci)

Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno), così come si fanno i codici di giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque della loro utilità. Sempre che non diventino operazioni politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio.
(Giuseppe Zagarrio)

Ogni letteratura, come ogni storia, è un quadro di forze vincenti, che dovrebbe però esser visto in trasparenza in modo da consentire la sovrimpressione fra diritto e rovescio.
(Luigi Baldacci)

I curatori di antologie si rifiutano di ammettere di aver curato un’antologia. In fin dei conti nessuno vuole riconoscere di aver fatto quello che ha fatto e così si genera il paradosso di qualcosa che esiste e non esiste allo stesso tempo.
(Rolf Grimminger)

Un’antologia è pur sempre un arbitrio, e non c’è criterio di presunta oggettività che possa giustificarlo.
(Enzo Siciliano)

Le antologie sono state inventate per far litigare la gente. Se sono legate al presente i viventi esclusi (o inclusi in modo secondo loro non congruo) vorrebbero fulminare il curatore (o i curatori). Se sono legate al passato ci pensano i filologi (una categoria litigiosissima, capace di trasmettere l’odio per un collega nemico fino alla terza generazione degli allievi) a rivedere, come si dice, le pulci al malcapitato di turno.
(Paolo Mauri)

La critica letteraria si chiude in se stessa, si isterilisce nell’ambito accademico e nel microspecialismo, smarrisce il nesso fra filologia e interpretazione (e, anche, all’opposto, aggiungerei, la coscienza della distinzione fra questi due momenti) oppure si subordina alle esigenze del mercato e dei mass-media, diventando chiacchiera impressionistica, mero intrattenimento.
(Romano Luperini)

La creazione letteraria del XX secolo ha saputo penetrare nello strato più profondo del Dasein e dominare il presente, non accontentandosi soltanto di descriverlo. Essa è riuscita anzitutto a sciogliere e a coniare di nuovo, secondo un nuovo stile, le forme e i generi letterari ereditati dalla tradizione, associandoli e mescolandoli in tutte le combinazioni possibili.
(Hans Freyer)

Le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assalto del potere sono veramente pochissime.
(Hannah Arendt)

L’esperto di poesia è l’esperto di sé. Perciò l’esperienza della poesia è una continua messa in crisi dei luoghi comuni e delle impalcature di opinioni che acriticamente si accetta.
(Franco.Loi, Davide Rondoni)

La poesia ha saputo affrontare ardui problemi del pensiero e della vita: tutto questo va documentato senza fare questioni di genere letterario.
(Cesare Segre, Carlo Ossola)

GIUSTIFICAZIONE

Il fenomeno delle omissioni nelle antologie sta assumendo proporzioni tali da modificare completamente il quadro della poesia italiana, con gravi ripercussioni sulla visibilità di molti poeti, in particolare della Campania, numericamente più rappresentativi di quelli delle altre regioni del Centro-Sud, e per di più condannati anche dalla “storia”, che “procede per repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica, e quindi per falsificazioni”, specie quando“il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci Novecento passato remoto- pagine di critica militante, Rizzoli, gennaio 2000, pp. 18-19).
L’invisibilità, che circonda gran parte di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti Repertori, da più di venti anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, non si ha il coraggio di farle venire a galla, né si può sperare in un intervento della critica poichè essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del poststrutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste e neonichiliste che annientano la testualità letteraria nella sua specificità. (Romano Luperini, Breviario di critica, Guida, pag. 59), mentre avanzano, a tutto campo, piccole e grandi storie della letteratura italiana con proprie gerarchizzazioni e scale di valori, e per di più con il grave difetto delle omissioni. Di questo siamo più che convinti, abituati a leggere Repertori poetici che inducono, il più delle volte, a ipotizzare che dal Lazio in giù, si sia operata una vera e propria discriminazione se non addirittura “selezione” che ha messo in un angolo poeti dai registri innovativi di sicuro interesse, secondi a nessuno.
Il luogo geografico da noi scelto riguarda una Regione ad alta densità poetica, vale a dire la Campania con epicentro culturale Napoli, definita a suo tempo da Malaparte non una città ma un mondo, culla di Benedetto Croce, di Francesco De Sanctis, di Giovanni Gentile, di narratori come Luigi Compagnone, Luigi Incoronato, Raffaele La Capria, Lanfranco Orsini, Anna Maria Ortese, Mario Pomilio, Michele Prisco, Domenico Rea, Enzo Striano; locus naturale del teatro dialettale di Eduardo De Filippo, della poesia popolare di Salvatore Di Giacomo e dell’Umanesimo meridionale che hanno fatto da lume alla cultura italiana. Per tutti i motivi sopra esposti, giustifichiamo questa antologia in nome di una poesia da troppo tempo esclusa dalle collane dei grandi Editori e da un management sempre più attento al diritto di scelta e al raggiungimento del budget, non importa se poi a rimanere ai margini del mercato sia il prodotto innovativo e di qualità. Le dimenticanze, purtroppo, non si limitano alla sola poesia e risalgono, probabilmente, al dibattito storico-politico intorno alla questione meridionale che spesso ha cancellato l’altro parallelo filone della componente letteraria, che parimenti contribuisce ad analizzare il problema e a rifletterne i caratteri peculiari. Facilmente si dimentica che nel Mezzogiorno fiorirono un romanzo popolare attento a coglierne la dolente realtà sociale con Mastriani, una narrativa veristica che scopre efficacemente i malanni del Sud con Verga e De Roberto, una saggistica che denuncia coraggiosamente la miseria e le deformazioni ambientali con Villari, Serao, Fucini e White Mario.
Anche alle opere di questi autori, dunque, bisogna far capo se si vuole veramente conoscere il meridionalismo in tutta la sua estensione culturale, letteraria e rappresentativa oltre che politica, storica, sociale ed economica.”(Pompeo Giannantonio, Rocco Scotellaro, Mursia, Milano, 1986, pag.7).

Molti sono stati i poeti napoletani che hanno percorso vie diametralmente opposte a quelle della tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico in una prospettiva poetica di work in progress e di febbrile spinta avanguardista. Cosicché la scrittura comprensiva d’ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un adeguamento al processo d’analisi della forma letteraria, compreso lo sperimentalismo tout court, e il rifiuto del riflusso riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, alla ricerca di “casi” letterari, veri o presunti tali, con tanti curatori che continuano ad essere sempre sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori di un razzismo etnico-culturale simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche, le famigerate scritte:“Non si affitta a meridionale!”Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe, anche confermare, in qualche modo, la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti:“I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non-avere degli altri. Ciò che non sopportano e che gli altri godano di un vantaggio”.(Günther Anders, Linguaggio e tempo finale, MicroMega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio meneghino o lombardo-veneto, che vuole a tutti i costi, “creare una brutale scissione degli “italiani” al di sopra ed al di sotto del 40° parallelo “. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001, Non due ma cinquanta anni di poesia, pag.12); e si dà il caso che a segnare un’altra ingiustizia sia un poeta non più giovane, ma dal passì di tutto rispetto, vale a dire Giancarlo Majorino! Questa tesi si può dimostrare andando a ritroso nel tempo, intorno agli anni 45-75 quando Egli pubblicò i primi Repertori da Savelli nel 1977, aggiornati in Poesie e realtà del 2000. Da allora ad oggi, nulla è cambiato e tanti sono quelli che hanno bussato alla sua porta, con libri e libretti non richiesti, è vero, ma sempre degni d’essere letti.

Non sfuggono alla “regola” delle “omissioni” e alla chiamata di “correo”, le antologie di Porta, di Berardinelli e Cordelli, di Mengaldo, di Cucchi e Giovanardi, e i tanti rapporti sulla poesia, sempre più elitàri e riduttivi, che solo per ristabilire la verità si dovrebbe permettere anche agli altri il diritto di rivelare la parola negata. L’etichetta prestige non si addice alle antologie monche e settimine se si toglie visibilità agli altri poeti la cui sfortuna è vivere al Sud.
I guastatori di antologie continueranno a disinformarci in ogni caso, attraverso operazioni che nulla hanno a che fare con il concetto di stato poetico generale.
Molto si è mistificato in questi anni di poesia amorfa e atonale, e molti poeti sono stati ridotti al silenzio da assurde pubblicazioni antologiche, che se da una parte hanno spaziato sull’intero Novecento, dall’altra hanno proposto autori già editi dai maggiori editori, accentuando ancora di più i confini della separazione territoriale, che permangono, costantemente, fino alla prossima antologia o ingiustizia.
Questo “dossier” vuole ristabilire un percorso di verità e di quanto si è venuto a produrre a Napoli con i poeti della quarta, quinta e sesta generazione che hanno dato maggiore impulso e creatività negli anni in cui Zagarrio li includeva in Febbre furore e fiele, Mursia, 1983, che è l’antologia più chiara, la più pertinente e la meno omissiva scritta fino ad oggi.
La ricerca si è indirizzata agli aspetti esteriori del testo, fino a spingerci nelle autonomie verbali e nelle formulazioni linguistiche e metasperimentali, come continuità di un rapporto dialettico tra chi vive la vita di tutti i giorni e chi la traduce emotivamente nei versi.
I poeti antologizzati pur non essendo dei Montale, dei Quasimodo, degli Ungaretti o dei Sinisgalli, esprimono e testimoniano valori umani e letterari difficilmente collocabili negli umidi e ombrosi scantinati della periferia, o in quella zona che si estende più in là del sottobosco.

Il nuovo corso della poesia napoletana nasce con il rifiuto dei moduli ermetici e neocrepuscolari, tramite l’acquisizione di un linguaggio che, pur integrandosi con lo sperimentalismo neoavanguardista, si distacca dalle forme anarchico-marxiste, attraverso la proposizione di un “messaggio ribaltato”, dando vita ad un “rinascimento poetico”, che non esclude l’acquisizione delle figure grammaticali percepite for its own sake and interest, al di là e al di fuori del significato delle parole (Hopkins).
Da qui la fusione di stili diversi e di temi sociali, politici, meditativi ed estetico-religiosi; che hanno dato giustificazione anche alle proposte verbo-visive realizzate con personale intuizione da Stelio M. Martini e da Luciano Caruso e alle tante opere di poeti che hanno inaugurato decorose pubblicazioni nei Quaderni della Fenice di Giovanni Raboni, passando addirittura nell’Almanacco dello Specchio, su Nuovi Argomenti, nella Rivista Quinta Generazione fino al complesso lavoro critico, antologico e bibliografico dal titolo La poesia a Napoli (1940-1987), a cura di Matteo D’Ambrosio, Nuove Edizioni Tempi Moderni 1992, con le relazioni di Luigi Fontanella, Mario Lunetta, Armando Maglione, Giuliano Manacorda, Filiberto Menna, Lamberto Pignotti, Vittorio Russo e Gianni Scalia, intorno agli anni Quaranta – Ottanta, con una vasta campionatura di voci consolidate e di poeti emergenti, e un dettagliato percorso storico della rivista Altri Termini, fondata nel 1972 da Franco Cavallo, che ha rappresentato un punto di riferimento per capire il periodo che va dal 68 e la neoavanguardia agli anni del boom della poesia, rivelando alcune personalità da G.Bisinger a F.Capasso, da G. Conte a C. Viviani, da J.P.Faye a J. Rothenberg ecc. in una prospettiva di aggancio con le avanguardie storiche e con il surrealismo…raccogliendo pagine critiche di indubbio significato fino ai vari esercizi di lettura dei più importanti autori.
Sul discorso delle “omissioni” neppure la narrativa ne esce indenne: infatti, nella pagina Cultura del Corriere della Sera di mercoledì 12 marzo 2003, Giovanni Raboni, con un titolo a sette colonne: “Testori, la voce di un cristiano condannato al silenzio”, fa notare un altro caso di ricusazione pregiudiziale nei confronti di un “autore che aveva fatto dell’anticonformismo e dell’integrità la sua regola”, come risulta dalla biografia di Fulvio Panzeri su Testori.”Come mai, scrive Raboni, uno scrittore che dalla fine degli anni Cinquanta, ai tempi dei suoi primi grandi libri di narrativa, aveva suscitato molto interesse e non pochi consensi, adesso, che aveva fatto tanta altra strada, che aveva alle spalle dei capolavori come la Trilogia degli Scarrozzanti e Passio Letitiae et Felicitatis, adesso che era nel pieno della sua maturità e genialità espressiva e ci stava consegnando alcuni dei suoi testi più imprevedibili e sconvolgenti — si vedeva circondato dalla sordità, dalla distrazione, dall’indifferenza?”.

La risposta è nell’intervista data dallo stesso Testori a Fulvio Panzeri:“Davo e do fastidio perché c’è uno scrittore che è cristiano”.Questo è un caso particolare, seppure non isolato, che, comunque, non riguarda i poeti napoletani più di tanto.
Ma se poi andiamo a verificare ne la Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Il Novecento, Garzanti, 1987, Volume II°, Poeti del secondo Novecento, pag. 213, è lo stesso Raboni a praticare le omissioni. Infatti, tra i poeti nati fra il 1920 e il 1928, ne cita ben 31. Nessun accenno per i poeti “napoletani”.
Il Sud si salva solo con Rocco Scotellaro. Basta seguire le pubblicazioni antologiche, che si susseguono a ritmo crescente, per rendersi conto delle arbitrarietà cui spesso si soggiace anche “per l’assenza di poeti graffianti, capaci cioè di esprimere compiutamente e in modi originali il nostro tempo; mentre tornano i modelli del passato, la restaurazione di contenuti idilliaci, sentimentali, solipsistici, liberty, intimistici e guidogozzaniani, in forma chiara, che non è la — claritas — dei leibniziani o del Baummgarten, ma è oggi un mezzo per impedire l’oscurità (come se la chiarezza dei nostri giorni non potesse essere — o non è — anche strumento di oscurità e — dio non volendo — di oscurantismo”.
Quando Gaetano Salveti scrisse la suddetta nota sulla rivista Quinta Generazione, nn. 63-64, era il 1979, e tuttora non sembra che la poesia sia cambiata sul piano estetico-formale, a meno che non si voglia tornare alla lezione critica di Roman Jakobson che, in merito al testo poetico, recupera “l’uso introvertito dei segni verbali, e l’individuazione dei vari modi di strutturazione dei versi, retti da precise leggi opposizionali, operanti a tutti i livelli del linguaggio —secondo quella grammatica della poesia a proposito della quale Jakobson invoca, a sostegno, le geniali intuizioni pre-strutturaliste di Baudelaire e di Hopkins-. (Nota introduttiva di Giovanni Cacciavillani sul saggio Postscriptum di Roman Jakobson, Almanacco dello Specchio, n. 4, 1975, pag. 179). Non sempre queste indicazioni hanno fatto da guida ai poeti impegnati in una esasperante ricerca del linguaggio, collocato tra esperimenti intersemiotici e sinestesie varie.
In un’Intervista a cura di Marisa Papa Ruggiero, apparsa su Risvolti, Avernum Poetry, n. 1 ottobre 1998, Franco Cavallo rispondendo alla domanda postagli sul tema del nonsense, così chiarisce i termini del quesito: “Il nonsense se praticato da persone dotate, vedi Palazzeschi, vedi Toti Scialoja, o vedi Giulia Niccolai, non invecchia: è uno degli elementi costitutivi della poesia, sia esso inteso in senso spaziale, che temporale, aggiungendo subito dopo: quanti poeti “seri” si vedono oggi in giro? Nella gran parte dei casi si tratta di gente che, pur di stare in pace con se stessa, ma soprattutto con il successo, recupera i linguaggi obsoleti tipici delle epoche di restaurazione: linguaggi che nascono già morti (ed è per questo che riescono a riscuotere successo nella necropoli). L’unico progetto che si può fare oggi in poesia è la salvaguardia del fondamento etico della poesia stessa”.
Cosa molto difficile da realizzare con le case editrici più importanti, impegnate a consolidare la separazione territoriale nei confronti dei poeti meridionali, ovviamente assenti nelle antologie di Porta e di Majorino, ma presenti in altre Storie della letteratura Italiana, come in Poesia italiana oggi di Mario Lunetta, Newton Compton Editori, 1976; in Otto-Novecento di Lanfranco Orsini, S.E.N. 1980; in Storia della Letteratura Italiana del Novecento di Giacinto Spagnoletti Newton, 1994; in La Letteratura italiana contemporanea di Giorgio Bàrberi Squarotti, Lucarini, 1982; e ne la Letteratura Italiana d’oggi di Giuliano Manacorda, Editori Riuniti, 1987; solo per citarne alcune, anche se i Repertori del Nord prolificano come nidiate di volpi che marcano il proprio territorio, riducendo gli altri poeti”ai margini del giro”, dimenticando che sono “persone che lottano per non soccombere” di fronte a “persone che opprimono e sfruttano”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001, pag.13).

Di materiale consultivo ce n’è abbastanza per chi veramente voglia fare un’antologia, che non sia soltanto la copia di quella precedente.
Se è vero che “all’editore compete di scegliere secondo il suo giudizio di convenienza tra le offerte sottopostegli”, in una politica di mercato, sempre più attenta al bilancio aziendale, è altrettanto vero che su questa linea di basso emporio commerciale non c’è speranza alcuna di vedersi pubblicati al Nord.
E’, insomma, ciò che riscontriamo anche in altri osservatori come ne Il Paradosso dell’evidenza -Saggi e interventi- (1985-2001), Marcus Edizioni, Napoli, 2002, con il titolo: La poesia si è fermata a Milano, di Alessandro Carandente il quale si chiede, con estrema sorpresa e ironia: “Possibile che essere poeti in Italia significa pubblicare esclusivamente con Mondadori? Come dire di editori ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno: tutti gli altri poeti sono condannati alla inesistenza”.
La logica della tolleranza e del rispetto comune, fra chi cura un’antologia, e chi ne è escluso, dovrebbe far riflettere sul -raggiungimento del superlativo inteso come morte-.L’abolizione del superlativo è indispensabile nel nostro mondo. Infatti, se esistessero degli “optima” definitivi, sarebbe bloccata la possibilità di migliorare, e dunque il motore e il garante della continuazione della storia (e non solo agli occhi dei produttori, il cui mestiere è di produrre “sempre meglio”, ma probabilmente anche agli occhi di milioni di clienti. (Günther Anders, Il raggiungimento del superlativo come morte, MicroMega, n. 5, 2002, pag. 109). Ciò vale anche per i poeti e per chi proclama la propria opera come essenza del superlativo.
Ma qui si intende presentare Autori di varia sensibilità e cultura, che con le loro opere si sono indirizzati verso più significanti, non escluso quello sperimentale, venutosi a determinare nel corso del tempo attraversorci, Velso Muc le mostre di poesia visiva, le riviste, i raggruppamenti antologici, le performances tra gli scenari liberty di villa Pignatelli, alle serate di lettura poetica sulle terrazze di Castel dell’Ovo, (Giorgio Moio, da Documento- Sud a Oltranza —Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli, 1958-1995 su Risvolti n. 9, 2002), fino alle proposte innovative di tipo strutturale: pensiamo, per esempio, alle frammentazioni e forme chiuse di Franco Cavallo, tra surrealismo e simbolo-mito; al tecnicismo neoavanguardista di Ciro Vitiello e alle sue mortali visioni del mondo; alle composizioni verbo-visive e agli esicasmi di Stelio Maria Martini; o ancora alle fratture citazionali e linguistico-intermediali di Tommaso Ottonieri; alla versificazione epico-ironico-satirica di Alberto Mario Moriconi: un citarèdo alla corte della poesia; alle anamnesi metaforiche nei confronti della vita, di Carlo Felice Colucci; al linguaggio perlustrativo e psicoattivo, per interrogare e interrogarsi sugli aspetti dell’inferno-quotidiano di Franco Capasso; alle composizioni ipertematiche intorno alla civiltà contadina e a quella industriale, tra mito e linguaggio pubblicitario di Ugo Piscopo; ai doppi codici strutturali, tra sperimentalismo e linguaggio novecentesco nelle illusioni dell’Eros, come sopravvivenza al vivere quotidiano di Antonio Spagnuolo; ai sussulti poetici di tramatura flegrea con il recupero di figure mitiche di G.B.Nazzaro; all’incalzante surrealismo metaforico di Alessandro Carandente; ai porti sepolti della memoria, di Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli; al puntismo cromatico e figurativo di Franco Riccio; fino al teatro di poesia di Aristide La Rocca: tutto un panorama poetico-culturale, che resiste ancora oggi di fronte al linguaggio novecentesco, tramite le edizioni di libri-oggetti e libri-opera, tra manipolazioni verbali e romanzi verbografici; e qui i nomi sono veramente tanti: da Bilotta, a Perrotta, da Moio a Cepollaro, da Bàino a Ioni, da Voce a Lubrano ecc. Ora ammettiamo pure che il tempo sia passato inesorabilmente e che molte cose siano cambiate nella critica e nel gusto letterario, ciò non toglie che leggendo i testi antologizzati, si vada incontro ad un tono di canto con propri ritmi e suoni; non soltanto fatti di significanti, ma anche di messaggi sotterranei riaffioranti dalla biografia dell’anima. E’ questo il segno che cercheremo di far emergere dai testi che si pongono nella loro valenza umana e culturale, che è poi ciò che la poesia tende a trasmettere e a far sopravvivere, anche se questi poeti sono diventati col tempo, vecchi lupi di mare e di lungo corso.“Il linguaggio originario è il linguaggio della creazione poetica. Il poeta, però, non è colui che compone versi su ciò che di volta in volta è l’odierno….. La vera creazione poetica corrisponde al linguaggio di quell’essere che già da lungo tempo ci ha in anticipo, rivolto la parola, senza che noi ancora lo abbiamo recuperato. Per tale ragione il linguaggio del poeta non è mai attuale, bensì sempre già- stato e futuro”; (Martin Heidegger in Logica, MicroMega n. 5-2002, pag.203); nonostante i pregiudizi e i separatismi territoriali dei gruppi editoriali del Nord, la cui unica preoccupazione è quella di ignorare tendenze e sperimentalismo,”sempre mal tollerati da chi è nemico d’ogni innovazione”, come rileva Gio Ferri in Annuario di poesia, quando fa notare che” l’editoria… di ricerca non ne fa e non ne promuove certamente. Anzi la ostacola, per gettarsi a corpo morto (“morto” non è qui un modo di dire) giù per la china, là dove ci porta il cuore!”.Intanto, il tradimento è stato consumato, messo in sedicesimi nei cataloghi e nei Repertori assieme al giudizio di valore, impossibile da formulare in tempi in cui la massa poetica è così enorme da annullare qualsiasi esposizione critica, come a suo tempo ebbe modo di affermare Luciano Anceschi. Per questo motivo siamo convinti che la verità si collochi in mezzo alle controversie culturali, che coesistono da sempre per la ricerca di un possibile equilibrio, fuori dal concetto di egemonia e di individualismo. In questo senso i poeti qui antologizzati aspirano ad aprire un dialogo a distanza con chi crede che anche il peccato d’orgoglio possa essere superato, nel nome di un imputato, innocuo e innocente, qual è appunto la poesia. Una volta accettata questa linea di principio si può anche giungere ad una visione non belligerante tra il Nord e il Sud d’Italia in tema di Repertori, senza alcun —annullamento della contemporaneità- e del prodotto poetico. Sarebbe, in ogni caso, un discorso di reintegrazione e di riparazione critica ricondotto nell’alveo legittimo della realtà poetica e non della mistificazione che produce solo malumore e disagio. E se si torna a confermare che la poesia è un prodotto inutile, allora ci si permetta di definire la nostra operazione, come un’anamnesi su un corpo autoptico, per il quale le doglianze non servono a molto, né aiutano a far rivivere chi è già morto o condannato ad essere tale. Ma la poesia esiste e fa parte dell’umanità e qui la trascriviamo nei diversi esiti strutturali. Osserva Giacinto Spagnoletti nella sua Introduzione alla Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton, 1994, pag.10, che “se di un sentimento — e non di un metodo ha bisogno fortemente il critico d’oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori”. Il che ci porta a recuperare le voci dei poeti assenti nei Repertori del Nord, come testimonianza di un lavoro poetico in fieri realizzato da alcuni riservisti letterari chiamati ad una difficile operazione di “rianimazione” del testo poetico, specialmente a Napoli, popolata di sperimentalisti, ultimi disubbidienti di una poesia lasciata al libero arbitrio del linguaggio, precedentemente coniato e utilizzato con finalità diverse, dai protagonisti del Gruppo 63, i quali, in un memorandum apparso su L’Espresso del 30 aprile 2003, dal titolo: Formidabili quei 63, a firma di Enzo Golino, si sono trovati compatti nel sostenere le ragioni delle loro scelte ideologico-linguistiche che, secondo Nanni Balestrini, uno degli esponenti intervistati, vanno inquadrate in un “passaggio generazionale teso a ricostruire la cultura italiana dopo il fascismo, senza pentimento alcuno di aver cambiato le regole del gioco. Non riesco a immaginare, precisa Balestrini, “perché e di che cosa ci si potrebbe pentire. Pentirsi dovrebbero piuttosto quanti, per odio e paura di ciò che è nuovo e vitale, da quarant’anni si sono accaniti contro quell’esperienza”, e che in un certo senso riguarda il problema che qui trattiamo — i poeti emarginati del Sud -, in particolare di Napoli, uno dei pochi luoghi culturali, dove si fa ancora poesia, quando l’impegno è veramente tale e fondativo, forse il più rappresentativo, almeno nell’ambito poetico, per la qualità e per la quantità delle opere prodotte.Tuttavia la professionalità applicata all’arte poetica non sempre è stata sufficiente a rimuovere le cause che hanno determinato l’invisibilità dei poeti napoletani, che proprio per il loro individualismo hanno concorso a determinare, anche se in misura minore, il fenomeno della emarginazione. Nascere a Napoli non è come nascere a Milano dove le fortune poetiche sono migliori rispetto a quelle partenopèe. La necessità di una revisione storica della poesia appare oggi necessaria e urgente, cominciando proprio dal Sud, a recuperare voci e opere, rimaste per lungo tempo fuori dal sistema editoriale. Resta, purtroppo, ancora insoluto il problema di un linguaggio, che seppure propositivo non ha prodotto una nuova stagione poetica, per l’assenza di una spinta culturale portata verso il rinnovamento. Troppo tempo si è perso dietro il significante, erroneamente scambiato per poesia.“Per fare importante un poeta ha scritto Marina Cvetaeva, nell’Almanacco dello Specchio n. 4, Mondadori, 1975, pag. 39, basta un’importante dote poetica. Ma per fare un grande poeta anche un’importante dote poetica è poco, occorre un’equivalente dote di personalità, della mente, dell’anima, della volontà: e l’indirizzamento di tutto questo insieme verso un obiettivo definito, ossia un’organizzazione di tutto l’insieme”.Oggi che non è più tempo di avanguardia, si avverte la necessità di un recupero “totale” della poesia, dopo la kermesse linguistica, cerebrale ed accademica, che ha finito con l’impaludarsi in una strettoia dalla quale è sempre più difficile uscirne fuori per respirare arie nuove o tentare altre vie che non siano quelle del caos della parola e dello sperimentalismo tout court.

Mario M. Gabriele

Nota

Per un più dettagliato elenco dei poeti campani presenti nelle antologie di ampia diffusione, si vedano in particolare: Poesia italiana d’oggi, a cura di Mario Lunetta, Newton Compton 1981, e Poesia italiana della contraddizione, a cura di Franco Cavallo, in collaborazione con Mario Lunetta, Newton Compton 1989 e quelle organicamente più complete, tra le quali Coscienza & Evanescenza, a cura di Franco Cavallo, S.E.N. Napoli, 1986; La poesia in Campania, Forun Quinta Generazione, Forlì, 1985-1990 a cura di Michele Sovente e Biagio Cepollaro, La poesia a Napoli, 1940-1987, – Atti del Convegno di studi Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 26-28 novembre 1987 -, a cura di Matteo d’Ambrosio, N.E.T.M. 1992; In my end is my beginning, a cura di Alessandro Tesauro, Ripostes, 1992, nonché il saggio Dibattito col poeta — Poesia a Napoli — di G. Battista Nazzaro, Ilitia Edizioni, 1997. Sulla scrittura verbo-visiva segnaliamo alcuni titoli: Inchiesta sulla cultura a Napoli, su Mercatrè n. 14-15 Milano, Lerici Editori, maggio-giugno 1965, pag. 25, di Gillo Dorfles; Cinque mappe del 1965, Salerno, Edizioni Laboratorio, 1971 di A. Bonito Oliva; Il messaggio ribaltato di G.B.Nazzaro, Mostra di poesia visiva, Casoria, Circolo studentesco, 1969; Ancora delle poesie visive, di F. Piemontese, Napoli, Continuum, 1972; Senso e non senso, Napoli 1980 di A. Russo. La poesia visiva si arricchisce di numerosi contributi critici da parte di Luciano Caruso, che sviluppa un sodalizio artistico negli anni Sessanta, con i pittori del Gruppo 58 e con il poeta Stelio Maria Martini a Napoli, e con Emilio Villa a Roma. Redattore di riviste letterarie d’avanguardia, fra cui Linea Sud, Uomini e Idee e Silence’s Wake, Caruso ha diretto alcune collane: Futuristi- Fonti delle avanguardie del 900, e Le brache di Gutenberg: cronaca e storia. La sua produzione critico-letteraria è presente in numerosi saggi riuniti ne Il gesto poetico, antologia della nuova poesia d’Avanguardia, Napoli 1968, in Lettera alla terza figlia, 1993 e in Dossier futurista, 1995. Curatore e animatore della rivista Continuum si è interessato alla poesia latina medievale, pubblicando con Giovanni Polara, presso l’Editore Lerici nel 69, Iuvenilia Loeti e con Stelio Maria Martini, presso l’Editore Liguori nel 74 e 77, due volumi dedicati alle Tavole parolibere futuriste. Degni di rilievo i suoi Manifesti e documenti teorici del Futurismo 1909-1944, Firenze, Spes, Salimbeni, 1980. Sempre sulla poesia visiva e sperimentale, segnaliamo altri titoli: Spessore e interferenza, Ricerca poetico-visuale a Napoli, 1979-1982 di M. D’Ambrosio, catalogo della Mostra Campania Felix, Napoli, Castel dell’Ovo, 1983 e Bibliografia della poesia italiana d’avanguardia, Roma, Bulzoni 1977, del medesimo Autore, oltre ad un altro suo lavoro dal titolo: Arte come Scrittura, nel Catalogo della IX Quadriennale d’arte di Roma, Milano, Fabbri Editori, 1986; L’impassibile naufrago, (le riviste sperimentali a Napoli negli anni 60 e 70) a cura di Stelio M. Martini, Guida, Napoli 1986), nonché i volumi Sperimentazione linguistica e poesia a Napoli, a cura di Luciano Caruso, Galleria “Ellisse”, Napoli, 1979; Poesia della voce e del corpo a cura di M. D’Ambrosio e Felice Piemontese, Pironti, Napoli, 1980. Tra le riviste letterarie più importanti ricordiamo: Altri Termini, fondata e diretta da Franco Cavallo nel 1972, e rivolta alle problematiche linguistiche degli anni Settanta, tra teorie critiche e riaggancio al Surrealismo e alle avanguardie storiche; Risvolti di Giorgio Moio, col sottotitolo quaderni di linguaggio in movimento, che ripercorre con vari argomenti la realtà poetica sperimentale a Napoli, con monografie, interviste e tracce storiche sui poeti e le loro opere; Baldus, di Mariano Bàino, Biagio Cepollaro e Lello Voce, informale e trasgressiva, vicina al Gruppo 93; Nuove Lettere, Rivista internazionale di poesia e letteratura diretta da Roberto Pasanisi, inserita fra la cultura alta e quella creativa; Il rosso e il nero, semestrale diretto da Edoardo Sant’Elia, tra letteratura colta e popolare; Incognita, fondata nel 1982 da Rina Li Vigni Galli, tra discorso innovativo e intervento sulla scrittura poetica, Oltranza, diretta da Ciro Vitiello, con l’obiettivo di perlustrare le virtù dei linguaggi; oltre ad altre Riviste, prevalentemente informative intorno alla letteratura e alla poesia come Riscontri, Nostro Tempo, Hyria, Terra del fuoco, Secondo Tempo, Cenacoli Esoterici, Plural, La parola abitata, ecc. tutte descritte nel lavoro di Roberto Deidier dal titolo Le regioni della poesia — Riviste e poetiche negli anni Ottanta, Marcos y Marcos, 1996.
La vasta bibliografia sulla poesia campana, si perde in mille rivoli, tra monografie, saggi critici, convegni e trattazioni accademiche. Nell’elenco che abbiamo fatto delle citazioni, qualche omissione sarà pure presente e ce ne scusiamo con i lettori.Tuttavia abbiamo cercato di riportare un maggior numero di opere e di autori, prendendo spunto anche dal volume di G. Battista Nazzaro Dibattito col poeta – Poesia a Napoli -.
Riferimenti ulteriori sui poeti del Mezzogiorno si rilevano in La cultura delle regioni a cura di T. Di Salvo e G. Zagarrio, Firenze, La Nuova Italia 1971; Antologia dei poeti campani, a cura di A. Consiglio, Milano, Mondadori, 1973; Oltre Eboli: la poesia. La condizione poetica tra società e cultura meridionale, 1945-1978, a cura di A. Motta, con interventi critici di C.A. Augieri e introduzione di L. Mancino, Manduria, Lacaita, 1979 e Inchiesta sulla poesia di AA.VV. -Foggia, Bastogi, 1979-, con un capitolo di Michele Sovente sui poeti campani. Si vedano anche i saggi: Inchiesta sulla cultura a Napoli di L.Vergine in Mercatrè nn. 14-15, maggio-giugno 1965; Contributi per una storia dei gruppi culturali a Napoli 1958-1970 di Luciano Caruso, Logos n. 1, 1973; Mezzogiorno e letteratura per una ripresa del dibattito di Sebastiano Martelli su Confronto, giugno-luglio 1976, e Napoli in dialetto vive di nostalgia di L. Orsini, Tuttolibri, n. 143, 9 settembre 1978. Altre antologie sono venute alla luce recentemente e le segnaliamo per dovere di cronaca letteraria: Campania, Roma, 1999, a cura di Alfonso Malinconico e Poeti in Campania, Marcus Edizioni, Napoli, 2005, a cura di G.B.Nazzaro.

LE INTERVISTE

Aderendo ad una formula ormai consolidata, intendiamo utilizzare l’Intervista col solo scopo di instaurare con alcuni poeti un discorso diretto tendente ad affrontare il problema delle assenze nei Repertori della poesia italiana contemporanea, desiderando venire incontro a coloro che ritengono utile ogni discussione sulla poesia.
Qui riportiamo alcuni contributi di pensiero di Carlo Felice Colucci, Franco Cavallo, G. Battista Nazzaro, Ciro Vitiello e Alessandro Carandente; poeti dalle diverse aree generazionali, per sentire i loro umori e malumori di fronte alle antologie di chiara marca separatista.

D. 1) Come vede, alla luce delle sue conoscenze e della sua esperienza sulla poesia italiana del 900, la costante “emarginazione” di cui sono oggetto in antologia, repertori e perfino Storie della letteratura, i non pochi validi poeti del Sud? Ne ha sofferto, ne soffre?

Carlo Felice Colucci

Vedo, una tale premeditata “emarginazione”, e la vivo, come una “sciagura letteraria” capitata all’italica poesia; non solo alla Musa del Sud! Seppure, diciamocelo francamente, quel che oggi resta in fatto di poesia, in Italia e altrove, non è molto. Anzi! E ciò nonostante i vari conati festivalieri e premiaioli, più o meno degenerati e squalificati. Il fatto è, cari amici, che l’essere spesso “cancellati” dalle antologie patrocinate e stampate al Nord, di là dal Garigliano, ma che dico? dall’Arno….genera, fra l’altro, massima confusione e disorientamento fra i sempre più rari cultori e lettori di poesia. Perché Cavallo, Capasso, Colucci, Martini, Moriconi, Vitiello ecc.., per i poeti lombardo-emiliani (meno per i Veneti e i Piemontesi, per i Liguri…), non esistono non sono mai esistiti, tranne rare eccezioni….magari caritatevoli. Come va? Non si sa.
E nessuno sa perchè la Napoli “poetica”, (il Sud “poetico”) di oggi, degna e fertile eredità dei Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Scotellaro, Albino Pierro, E. De Filippo (senza andare più lontano!),venga regolarmente ignorata o quasi. Esemplifichiamo, “un gioiello” per tutti: (Poesia e realtà di Majorino, dimentico-fra l’altro- della rivista napoletana Incognita e dei lauti premi calabri servitigli su piatti d’argento da ingenui poeti di quaggiù.Orbene il“nostro”Giancarlo Majorino, comunque buon poeta, nella sua un po’ confusa, “politicastra” sinistrorsa e molto parziale (omissiva) disamina dell’italica poesia (di recente riedita da Tropea, in edizione conforme e priva di qualsivoglia pur “doveroso” aggiornamento!), premesso che ogni “antologia è un arbitrio” e che il curatore si regola ad libitum (meno male che lo dice!), dà -senza ombra di dubbio- a Milano (“città centrale anche per la poesia, anche per la poesia critica”, a pag. 39) lo scettro di Regina del verso, del poetare tout court, riferendosi ovviamente alla seconda metà del Novecento. Cos’altro si può aggiungere, se non che nel repertorio del Majorino non esiste nemmeno un napoletano, un campano? Del Sud, comunque si salvano soltanto pochi…morti (riscaldati, alcuni postumamente, appunto, dal “sole dei morti”..) E come vive, tutto ciò, uno di noi, poeta mezzo emarginato al sud? Male. Molto male! Però, non per questo Colucci “si piange addosso”, si atteggia a vittima. Cosa fare per tentar di sanare codesta spaccatura dell’Italia poetica in due voluta al Nord? Non saprei; ma qualcosa sto cercando di fare in tal senso e spero di riuscirvi, prima di finire i giorni in Terra destinatimi….

Franco Cavallo

Con la scomparsa di grandi figure intellettuali e manageriali come Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino (che già verso la fine degli anni sessanta si era in parte defilato, lasciando Torino e il lavoro editoriale a tempo pieno presso la Einaudi per andarsene a vivere a Parigi), Vittorio Sereni, ma anche Sergio Solmi, Niccolò Gallo, Giansiro Ferrata, nella grande industria editoriale del Nord (l’unica che, tranne rarissime eccezioni, conti realmente in Italia) si sono succedute figure per così dire “minori”, legate prevalentemente- per rimanere allo specifico della poesia — alla cosiddetta “linea lombarda” e post-ermetica, una sorta di linea Maginot della cultura poetica italiana a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo scorso. Queste figure (perlopiù poeti in-proprio, come si usa dire), facendo carriera come funzionari o come dirigenti nelle grandi case editrici nazionali, e quindi acquisendo un cospicuo potere manageriale nel contesto dell’editoria di diffusione nazionale, si sono “preoccupate” (diciamo così) di proteggere il loro lavoro e le loro opere imponendo di fatto una visione teorica univoca del fare poetico, penalizzando altre aree di ricerca. E’ partendo da questo dato che ha inizio la fase discriminatoria recentemente denunciata da molte parti e che dura ancora oggi.

G. Battista Nazzaro

Certo che, come tutti, ne soffro, anche se cerco di fronteggiare la brutta situazione che, col tempo, s’è venuta a creare con un po’ d’ironia. Una delle cause più importanti è la mancanza di centri decisionali qui, al Sud. Anche quei pochi che operavano a Napoli o a Palermo o a Bari, col tempo, si sono trasferiti a Roma o al Nord, oppure hanno perso potere, se non addirittura spariti. Ciò è dovuto anche alla mancanza di spirito imprenditoriale dei nostri editori. Mi è già capitato di dire che, gli editori operanti attualmente qui, a Napoli, salvando la pace di qualcuno, somigliano più ad impresari di pompe funebri che non ad operatori di cultura. S’aggiunga che, per ragioni facilmente comprensibili, amano il forestiero, colui che, operando ove il potere economico è forte, sembrano di poter assicurare una più rapida espansione della loro impresa. Naturalmente non è così; e quasi mai i loro sogni si realizzano attraverso quest’espediente. Il forestiero, occupati gli spazi che gli sono stati offerti, si disinteressa del resto. Si tratta, come può vedere lei stesso, soltanto di un fenomeno di colonizzazione, molto tipico del resto nelle zone economicamente sottosviluppate, che non potrebbe aver luogo senza il consenso dei meridionali stessi. Tant’è che, i direttori di collane di poesia, a Napoli perlomeno, si comportano come agenti dei poeti del Nord nella speranza d’accedere un giorno, anche loro, alle collane dei grandi editori milanesi o torinesi. Ma mi creda, nonostante queste deficienze, anche noi meridionali siamo bravi, soprattutto quando c’ispiriamo, con forza, alla nostra cultura, che non è meno gloriosa di quella del Nord.

Ciro Vitiello

La domanda presenta alcuni punti anodini da sciogliere. A) Io rifiuto la denominazione di “poeti del Sud” o come anche si dice “meridionali”. Quando nel 1984 Franco Cordelli, nella introduzione al mio Suite (Guida ed.), scrisse “Molto indirettamente, come succede in poesia, Suite di Ciro Vitiello ci parla, forse, della condizione meridionale. Che cos’è la condizione meridionale.? A una nozione storica complessa e, per più versi, negativa del termine “meridionale”, se ne può contrapporre una moderna e problematica, che abbia soprattutto valore di metafora: non più il mondo diviso in est e ovest, ma anche in nord e sud”, io in contrapposizione tenni a mettere l’accento su un fondamento che è del poeta tout court, “E nel tormento la voce si proietta alla spasmodica ricerca di una identità, che è già fuggita, è altrove, è quell’Altrove, che è la Morte. Io —ora- sono escluso, altro, appena un corpo che attende (“che cosa?”), che respira (“perché?”), in una Terra Miseranda (“il Sito”) dove Capi e Tiranni sono celati ovunque, nelle pieghe istitutive e nei luoghi i meno sospettati. E la Menzogna è lo statuto del Malvagio per farsi forte. Se l’umano può soccombere, soggiace la poesia — e l’io che la presenta — quando è significata rompe argini e strettoie, esplodendo nella forza della libertà”. E in quel testo io rovesciavo una drammatica esperienza dell’esserci nella realtà. Non da poeta del Sud o meridionale, ma da poeta che stando sotto il cielo stellato e nella bufera del giorno è radicato nelle cose e negli eventi, qui in questo meridiano o nel suo opposto. Io vivo qui, però nella memoria ho lo spirito cognitivo della cultura occidentale nel corpo la gestualità di una terrestrità illimitata, Se la libertà è una conquista, porta soprattutto alla consapevolezza di “essere nudo”, di essere “slacciato” e “sospeso” (per tanto, la sofferenza è di chi si trova incastrato nella limitatezza e nella pochezza”, ecc. In fondo, perché si è poeti? Per la Gloria? Io sono poeta per vivere questa mia esistenza con densità, fortemente, con tutta la tensione possibile di uomo, che attraversa mondi e fenomeni,ecc.). B) L’emarginazione è prodotta dal sistema innanzitutto, poi dalle teorie, infine dalla furbizia in generale. Tuttavia nei casi di seria opportunità, non è vero che i poeti del sud sono esclusi. In verità ce ne sono troppi e i più sono troppo poco efficaci (la domanda qui è la seguente: quali poeti sono degni di essere innalzati?). Il sud annovera poeti importanti, che sono doverosamente rappresentati, quali Gatto e Sinisgalli, Piccolo, addirittura vanta l’onore di un premio Nobel, Quasimodo. Tra i viventi alcuni sono riconosciuti. La verità è semplice: l’antologia, (la storia, ecc.) è fatta da un antologista (da uno storico, ecc.), il quale opera secondo propri criteri di scelta e di analisi, senza prescindere dai nessi editoriali (per intrighi di botteghe) e amicali (secondo il principio do ut des, ecc.), Se si vuole salvaguardare la propria libertà, in primo luogo si deve rispettare quella degli altri. In sostanza necessario, per il poeta, é l’avere la coscienza di fare bene il suo lavoro, di sentirlo e di soffrirne (sofferenza in sé, per il travaglio, per lo sforzo a ricavare un verso che possa risplendere. Il resto è polvere al vento). Io sono me stesso, e sono poeta. Nessuno me lo può togliere o vietare. Punto.

Alessandro Carandente

La gestione culturale in Italia, è, purtroppo, ancora di tipo corporativo. Il diritto, il valore, la correttezza sono miraggi che la realtà effettuale respinge.
Internet, la globalizzazione e la telematica, sono chiacchiere. Non ci sono progetti, indirizzi critici e linee guida giustificatrici. Regna sovrano l’arbitrio. La Mondadori antologizza, senza alcun pudore, solo i poeti pubblicati dalla stessa casa editrice. E tutto funziona ancora all’italiana. Tu recensisci me e io antologizzo te.
In quanto direttore di una rivista “Secondo Tempo” sono testimone di un malcostume e di un servilismo in atto che fa spavento. Gente che prende posizione per l’esclusione del poeta, non esita poi a recensire l’ultimo libro della stessa persona che lo ha escluso. Che schizofrenia! Ci escludono e noi come rispondiamo al sud? Non abbiamo una società letteraria e neanche una editoria che possa produrre cose alternative.
Ne soffro? Una volta li stroncavo sui giornali e sottolineavo le malefatte, (vedi La poesia si è fermata a Milano ne Il paradosso dell’evidenza) e contribuivo involontariamente a far loro la pubblicità indiretta. Oggi preferisco ironizzare perché conosco il valore effettivo dei critici e dei poeti circolanti in Italia. Vi assicuro che sono vili e intercambiabili.

D. 2) Perché e dove e quando sarebbe sorta questa “moda”, pare inarrestabile, di spaccare “l’Italia poetica” in due?

Carlo Felice Colucci

Non mi è facile rispondere. E lo farò soltanto con molta circospetta approssimazione. Anzitutto, io invocherei l’abusato, risaputo (ma purtroppo non estinto!) fenomeno del “razzismo” tout court: oggi divenuto leghismo (letterario) nemmeno poi tanto “strisciante”.
Sarà anche una questione di genoma, di “complesso di superiorità” innato? Potrebbe darsi, ma bisognerebbe analizzare in tal senso il DNA dei vari Majorino e compagni. Il che non è fattibile; e quindi “mancano le prove” tanto che la mia potrebbe restare anche una mera presunzione. Chi ha cominciato? Nemmeno questo è agevole dire. Ma penso ai peccati di Anceschi, Sanguineti, del duo Berardinelli/Cordelli (benché romani e benché, di qualche, sparuto, napoletano, pure si ricordarono); e poi-soprattutto- di certi neoavanguardisti (che il Signore li abbia in gloria!), e forse-soprattutto di Porta. Ma la Storia della letteratura-che certo non si può fermare alle incomplete antologie di Majorino e degli Altri-chiarirà pure questo.E ci si dovrebbe illuminare anche sulla stranezza insita nel fatto che proprio a Napoli, già fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, ebbe luogo, una dinamica artistica-sia in poesia che in pittura-, tutta incentrata sulle nuove tendenze: dalla poesia visiva, di Persico, Stelio Maria Martini, Castellano, Franco Cavallo, ecc., all’arte nucleare di Mario Colucci (pittore), alle esperienze del Gruppo 58, al Manifeste de Naple del 59, cui aderirono anche Balestrini e Sanguineti. E qui mi fermo, perché io credo che lo scopo di questa “parola negata”non è quello di lanciare un “J’accuse”, bensì è cercare di capire quando è accaduto.

Franco Cavallo

Di leghismo editoriale vero e proprio, diciamo pure di razzismo culturale, si può cominciare a parlare dalla fine degli anni settanta in poi. E’ del 1979 l’antologia di Antonio Porta Poesia Italiana degli anni settanta, edita da Feltrinelli. Proprio questa operazione di riflusso, maturata negli ambienti poetici milanesi unitamente a un convegno sapientemente orchestrato e gestito, segna uno spartiacque molto preciso nel senso della discriminazione di cui sopra. Il nome del novissimo Porta non deve trarre in inganno. Negli ultimi anni di vita Porta aveva realizzato una serie di “convergenze strategiche degli opposti” che gli avevano consentito di allontanarsi, anche creativamente dal proprio luogo di origine (la neoavanguardia) e di accostarsi ad aree poetiche che fino a quel momento gli erano state estranee se non addirittura ostili. Il convegno milanese, del quale lo stesso Porta fu magna pars (pur rimanendo nell’ombra), e l’antologia che seguì subito dopo, realizzarono sul piano operativo la quadratura del cerchio, mettendo a frutto, appunto, proprio le suddette “convergenze strategiche oppositive”. Negli anni novanta, infine, in coincidenza con le fortune politiche del leghismo, il fenomeno ha assunto aspetti più marcati e radicali. Se si pensa che da quasi dieci anni sono “fermi” in tipografia i meridiani mondadoriani dedicati a Leonardo Sinisgalli e ad Alfonso Gatto, ci si potrà rendere ben conto della gravità del fenomeno….

G. Battista Nazzaro

“Quando si è prodotta questa moda?”, lei mi chiede. Essa è nelle cose, da sempre, da quando nel 1860 è stato creato lo Stato unitario e i centri decisionali sono emigrati altrove. Che la voglia, poi, di spaccare “l’Italia poetica” sia tuttora irresistibile, è un dato di fatto incontrovertibile (e riscontrabile) anche in politica.“Tu sei un umanista meridionale”, mi disse una volta Giancarlo Vigorelli sulle sponde del Lago di Como, tra le more di un convegno. In realtà, c’è nell’industria editoriale di oggi un rifiuto costante del cosiddetto umanesimo meridionale, innanzi al vincente dato tecnologico che ci viene dagli Stati Uniti, ricchi e potenti, e che pare assicurare ottimi proventi all’imprenditore. L’umanesimo, con le sue istanze, le sue tradizioni, tutta intera la sua eredità culturale, è perdente. E il poeta meridionale, anche quando orecchia i poeti del Nord, conserva sempre, nei suoi prodotti, le tracce di una tradizione culturale, che non è certo quella borghese ed industriale nata a Milano, a Torino, o nel Veneto del “piccolo ma bello”. Ecco: “Io so che il corpo ammala ove l’abbaglio d’un ritratto è funesto”, scriveva, a gola spiegata, Alfonso Gatto parlando della sua gente, subito dopo la liberazione sul “Politecnico” di Vittorini. Ciò disturba sia i minimalisti, sia i neocrepuscolari e sia i cosiddetti tecnologici; disturba perché, tradizione e cultura danno ancora un valore alle parole e al senso racchiuso nell’atto di “cantare”, là dove, per loro, il parlare, di là dell’atto pratico di comunicare spese e ricavi, è solo autonoma determinazione tecnico-formale è formulario metrico-prosodico. Si sono fermati, insomma, alla scomparsa dei “miti”, e sono annegati nei meandri del computer, ove ogni cosa, ogni gesto ed ogni intenzione, è riducibile ad un ridicolo clic.

Ciro Vitiello

Lascio agli storici il compito di indagare la problematica che richiede la domanda. Per esempio, prendo il caso Lucini. Che ebbe la sfortuna di vivere tra Pascoli e D’Annunzio, per cui ne venne triturato, la sua ansia di rinnovamento non trovò spazio. Sanguineti lo ripescò, gli diede un posto d’onore, come era doveroso. Poi è caduto di nuovo (spero non per sempre), perché? Questa è una di quelle innocenti domande quasi misteriose cui solo l’oracolo di Delfo può rispondere credibilmente.

Alessandro Carandente

Il leghismo è fenomeno politico recente. In letteratura, che io ricordi, è sempre stato così. In un campo che di solito si immagina pacifico, la discriminazione era già in atto e operante. Antonio Porta, tra l’altro cattolico, che aveva fatto il compromesso storico col comunista Sanguineti molto prima di Berlinguer, già negli anni Settanta, da re del magazzino, aveva escluso tutti, da Roma in giù. Il resto lo conosciamo. Il fenomeno sembra irreversibile. Non siamo competitivi ma un’altra cosa. La nostra differenza, scettica e solare, rimane comunque la parte creativa dell’Italia. Perciò non bisogna arrendersi, ma resistere e resistere a oltranza. Solo il lavoro e la qualità e il sodalizio convergente possono riscattarci. Il poeta possiede un bene preziosissimo: la parola. Essa è la fedele testimonianza di ciò che siamo. Al nord pensano al gettito fiscale? Noi rispondiamo attenti al gettito fiascale. Sì, beviamo su, amici, che la vita è breve.

Seconda parte
 
ALBERTO MARIO MORICONI

Desiderando in questa sede superare il discorso di una eventuale linea napoletana della poesia in lingua, vogliamo porre l’attenzione su alcuni poeti che, con le loro proposte linguistiche, si sono collocati al di sopra e fuori dell’ambiente regionale, sollecitati da una comune voglia di adeguarsi alle istanze riformistiche della lingua avanzando proposte, idee, soluzioni alternative e tutto ciò che è riferibile al concetto di nuovo o di metasperimentale, già in atto negli anni Sessanta-Settanta, come materiale innovativo.
In quest’area si distingue Alberto Mario Moriconi (1920), per il suo vitalismo linguistico in cui l’ironia e il sarcasmo si associano ad un persistente stato di verifica dei dati presi in esame e provenienti da un protocollo poetico storico e contemporaneo, sottoposto a continue indagini e prelazioni di verità. Da qui l’uso del significante dalle diverse affinità culturali: un vero e proprio assemblage di tecnica letteraria e di coesione con i ritmi popolari e giullareschi, fino a trovare le ragioni di una poesia estetica ed etica, giocosa e malumorosa, che rimettono in gioco i segni del mondo e un pessimismo esistenziale come nel testo Fortuna del volume Decreto sui duelli, Laterza, 1982, /Caddi io, così; da zero al doppio / zero: versi che ci riportano al principio delle irreversibili conclusioni riduttive del nostro essere qui e ora.
Che sia questo un carteggio di un poeta con una visione umana del mondo, non ci sembra un’ipotesi azzardata, specie se andiamo ad esaminare il volume Dibattito su amore, Laterza (1969), che è un’appassionata esposizione di fatti ed eventi di cui il testo La tedesca al bosco calabro ne è un vivo esempio di speranza e sacrificio: un dilatare del sentimento come momento di sogno e di fede con ”gli occasionali eroi e le altrettanto occasionali vittime illustri e umili, innocenti e no, che sono chiamati dal poeta a testimoniare, o confessare, con lui, su altri punti, le solitudini, le viltà, le protervie, i furori dell’homo sapiens ormai onnisciente”. (Paolo Ruffilli Q/G. nn.37-38, luglio-agosto 1977, pag..57).

Su un piano generalmente epico si colloca Un Carico di mercurio, Laterza (1975); titolo di forte impatto ecologico, che non disdegna il senso di denuncia contro l’ambiente e il potere visti come soggetti primari nel testo Le inquinature,pag.118, dove meglio si concentrano le forme del degrado. Tutto il volume è un autentico repertorio di occasioni poetiche millimetrate nella lunghezza della realtà in un procedimento verbale incisivo e autenticamente originale. Decreto sui duelli, Laterza (1982) è un ulteriore esempio e riconferma di una scrittura dal ritmo narrativo, dai diversi piani espressivi caratterizzati da commedia e tragedia, orrori e crudeltà storiche, con un suggestivo ricordo del sacrificio delle masse nomadi, come risulta nelle tre sezioni del testo dal titolo Nomadi, pag.7, anche se si tratta di storia datata, ma mai inattuale e sempre iscritta a futura memoria: ”convennero, compresse…./ in vagoni / piombati / ad Auschwitz, a Dachau… / Sempre cantarono, ballarono, incitavano, / fuori delle baracche, i bimbi, / malritti, scheletrici, / ai balli /, prima che in fumo migrassero al cielo”.
La poesia di Alberto Mario Moriconi può essere paragonata ad un diagramma supportato da un trend linguistico, che difficilmente trova assestamenti in basso verso una stasi cronica dell’azione verbale. Del tutto personale è l’attitudine ad attualizzare gli eventi esterni, attraverso l’uso reiterato degli attacchi ludico-satirico-epigrammatici, sfocianti nel più generale senso critico della riflessione morale, larvata o sottintesa. Sue ed uniche sono le frammentazioni sintattiche per accedere in diversi campi oggettivi e riportare allo scoperto temi e personaggi, sempre al centro di situazioni drammatiche in una fitta serie d’interventi stilistici, tra citazioni e allitterazioni, scambi plurilinguistici e reportages cronachistici, che vanno a caratterizzare i racconti poetici, correlati alla storia passata e a quella recente.
Ed è proprio questo il senso degli stili e dei generi letterari di Moriconi proposti in tutti questi anni, che gli hanno consentito di duellare con la poesia, con la punta dell’ironia sostanzialmente riflessa anche nel volume Il dente di Wels, Pironti (1995), che si apre ad una piccola Commedia umana, come Nella casa del Libro (Lamento a quattro voci), esposta a rappresentazioni postume, riguardanti il consuntivo della vita del poeta e il senso dello scrivere versi, il vano scrivere come dice lo stesso Moriconi: tutto un librosario da sradicare post mortem da parte dei sopravvissuti:“S’io morrò (Dio non voglia), appena fatto, / voi spianerete le costole /dei miei libri) ai vostri / muri, dico te, mòglietta, e figli; vi dite: / “Se, appena, costui sarà….ito / (oh possiamo parlarne senza scrupoli, / mica intendiamo eliminarlo, mica / l’avremo avvelenato, noi) — ne parlo! — diroccheremo quest’anomalia, che ci attanaglia / e soffoca, di casa nostra,/ sradicheremo il librosario / estirpo qui tu estirpa là”, ma è anche un messaggio di arte e vita, natura e storia, virtù e fortuna, come si legge in quarta di copertina.
Il volume affronta i fatti e i misfatti della Storia, tra inni goliardici, happening poetici e cronache di delitti eccellenti, che si vengono a realizzare all’interno di una poesia costituita da elementi espressivi diversi; gli stessi che troviamo in: Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti Pironti Editore (1999); assieme ad un piccolo album di ricordi di scrittori che rispondono ai nomi di Li-Po, Leopardi, Laforgue, Pindaro e Rimbaud, con l’autore medesimo, che con vario animo, tono e metro, li ricorda e si ricorda. (Nota editoriale). Esemplificando al massimo i giudizi espressi dalla critica sull’opera di Moriconi, riportiamo quello di Giuliano Manacorda apparso su Rinascita del 13 marzo 1970: “Non molti sono in Italia a coltivare, ad alto livello e come accento normale del proprio poetare, la poesia satirica. Moriconi lo fa con quel piglio sarcastico, con una tale imprevedibilità di sortite e una così ricca fusione di temi seri e del loro rovesciamento, da poter essere considerato forse un caso unico. In realtà, la definizione di poesia satirica, dice assai imperfettamente nei confronti della sua produzione, che è cosa assai complessa” .
Sulla poesia di Moriconi si può discutere a lungo circa l’uso dell’ironia di fronte agli orrori o alle cronache storico-sociali, ma non si può negare che in merito ad alcuni elementi seri, come per esempio la morte o l’ingiustizia, o ad altri temi di più ampio interesse, vi sia un forte sentimento umano che traspare più di quanto si pensi o si legga nei suoi volumi.
Moriconi ha posizionato la poesia su parametri linguistici che ci riportano ad un raffinatissimo aggancio con la letteratura popolare, i cui testi ci inducono a rimarcare un giudizio di Armando Maglione nella sua relazione sulla poesia a Napoli negli anni Quaranta, quando rileva già da allora, l’interesse di Moriconi per la realtà sociale, la cronaca e la storia, che animano quella sorta di “drammaturgia” poetica, moralmente risentita, e stilisticamente contaminata e trasgressiva che sarà la sua personalissima cifra confermata nel corso del tempo in tante short stories che sono libri di vita inseriti autonomamente nel complesso e variegato mondo della poesia italiana.

La mosca di Lindbergh

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota
della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico:
quello che pochissimi sanno è che egli ebbe
a bordo del fragile monoposto — lo Spirit of St.
Louis — un’importante passeggera: dico una mo-
sca.

La prima clandestina che trasvolò
New York-Paris, quella cosina,
il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,
un bambinone
biondo, una brunettina,
che dal quadrante (mossa da fame?)
dell’altimetro, tutta un tremito
e minutina come è
un dittero,
lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse
gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,
le immense lingue e schiume d’azzannìo….
(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:
la forosetta, del Kansas).
Ma il bambinone
abbozzò,
la ignorò, trasse due sorsi dal termos.
La clandestina s’occultò.
“ E stia..”
il primo “ New York —Paris”
cartone e spago
-come una vecchia valigia —
e spirito di Saint Louis

“ Stia stia, Miss. Due alucce non guastano
in più, di riserva al mono-
plano, al mono-
posto, al mono-
motore: solo bi-
pala l’elica.
E or la brunetta bïala “
rise Charlie, cercandola: “Via via,
Miss, esca. E mi dica,
che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì
graziosa e ardimentosa vola brunetta?”

soffia
soffia sull’acque,
spirito di Saint Louis,
cartone e spago

Or la compagna di Lindbergh dormiva
cinta di stelle, obliosa di tele
di ragno, che forse fuggiva
dal Kansas, da New.
E a lui, l’aquila
giovane, ancora ignara
di ragne, più truci, umane, (1)
un punto
lui solo di sangue e d’anima
sopra i notturni oceani,
ebrïetà
eterëa di stelle e sogni;
e il pulsar dei pistoni, docile faustamente
monotono, oramai
ammalïava, il remeggio fluidissimo,
a un puerile sonno…..
si riscoteva
picchiando a dritta
e a manca l’ala,
o evoluiva libellula
l’aquilotto
e canticchiava un’arietta di favola
western, di carovane.

Ventinov’ore, due sorsi al termos.
Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.
Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,
lenta la cloche, all’acque,
ma dolce cala
spirito di Saint Louis….
Guizzò, ella! via su!…
Rientrò:
lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì
gli occhi lui abbrancò
la cloche.

Digrignò
le schiumose mandibole l’Oceano.

E a dritta dell’aquilotto fiorì
un primo gabbïano,
e altri
e altri,
bianco di sé scriventi in cielo “WELCOME”.

“Ci siamo, darling,ci siamo, baby….
no, bébé, à Paris. Thanks — no, merci —
amica mia…ma come
ti chiami?… Laggiù! laggiù!
è Le Bourget, bébé !”

Trionfò
la bionda aquila degli oceani.
– Il nome,
però, almeno, della compagna….Sparì. —
Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:
lei vi sparì.

Chi sa se la mosca del Kansas
trovò chi cercava a Paris.
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(1) Cinque anni dopo patì il rapimento e l’uccisione del figlioletto.

Fortuna

Gridar “Fortuna! ficca
un chiodo d’oro nella tua ruota” (1)
non potei, non la scorsi
neppure girar la ruota. Quando
godetti l’attimo
– vorticare
vorticare il suono
d’essa non colsi —
lo volli merito
mio: nessuna
bontà del Cielo, sull’idiota
nessun influsso
di luna

Cade così l’impero
a uno scettro ebro di sé, derisi
gli astri:
così l’Empire
all’ivre
Empereur, (2) all’impérieux
mépris.

Caddi io così : da zero al doppio
zero.
E ricaddi. E sempre,
col mio sprezzo, nel mio stazzo,
ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo
in me, e che sia
virtù una cosa, e uscir dal brago stia
in me:
mai

mi son visto tuo ragazzo,
guercia.
(da: Decreto sui duelli, Laterza, 1982)

(1) Così un personaggio di Lope de Vega.
(2) Napoleone.

Piromani d’agosto

Nell’aria, un pianto…..d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
Zvanìi Pascoli “La quercia caduta”

Evoluivano pazzi fischiavano
intorno ai due alberelli fatti torce
nugoli insupponibili d’uccelli.
Allo sconvolto strido,
accorsi, d’alcuno di loro,
padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido
arso e svanito.
Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio
crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica
musica, una scomposta rabbïosa farandola
di ali e ali, quanti….

I due incendiarii
di più si ritraggono,
ma più eccitati, il perché si domandano
di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,
perplessi un po’….”turbati: non sospettano
il nido incenerito”. Che hanno fritto.
“Chi poco cuor sortì cuor non sospetta
in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,
i tuoi, qui, uccelli i tuoi….!” (*)
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(*) I terribili pennuti del film “The Birds”.

FRANCO RICCIO

Individuare una scrittura poetica diversa dalla fitta platea degli sperimentalisti napoletani sembra difficile, perché gli esempi autentici da proporre non sono molti e per di più collegati alle forme linguistiche ermetico-neorealistiche, che sembrano quelle verso le quali si è indirizzato Franco Riccio (1923), sempre vigile nella propria esposizione semantica, come a voler salvaguardare la parola dalle intrusioni metasperimentali e dalle contaminazioni plurilinguistiche, riuscendo alla fine a fare un tipo di poesia che scorre tra esposizione autobiografica ed espressionismo.
In effetti, Franco Riccio si muove in un’area che gli è molto congeniale: quella della registrazione del quotidiano e delle cifre del vissuto, con ampie raffigurazioni che mettono in luce testi di malinconico codice esistenziale, all’interno di un agglomerato urbano a cui si accede per trasposizioni umorali e sentimentali, che si fissano come su una pellicola fotografica riproducente i colori del tempo e lo sfondo ambientale, in una variegata metamorfosi dell’oggetto poetico che lascia nell’occhio-anima l’effetto-luce delle stagioni e i frammenti di una vita minore e interiore. L’universo esterno permette la rappresentazione di elementi ipertematici in visibili segni che scandiscono i tempi della rimozione e induzione del dolore.
Lacerazioni, (1989), Parole per dirsi, (1994) e Vita Minore, (1999), tutti pubblicati presso le Edizioni del Leone, brillano come tanti flash back su I giorni dell’ansia, un altro volume di Riccio, fatto di piccole cose e grandi abrasioni. E sono propri i dati quotidiani, con tutto l’apparato esplorativo delle rivisitazioni, che fanno di questa poesia un canovàccio propulsore di spiragli e appuntamenti con gli affetti ricercati, che mettono allo scoperto personaggi e volti illuminati dalla luce dell’amore e del ricordo.
Franco Riccio da anni misura il proprio rapporto umano con il mondo esterno, restituendo alla parola il potere autobiografico delle sintesi dell’anima, lasciando alla purezza del verso l’allarmante profezia dell’effimero, con un’onesta e sincera affabulazione quintessenziata in una poesia prevalentemente novecentesca, che è nello stesso tempo, puntismo cromatico rivolto ad attenuare le cupe ombre sottostanti, distribuite per sensazioni soggettive e labirintiche esposizioni; le stesse che confluiscono nel recente volume dal titolo Canzoniere, Edizioni del Leone, Venezia, Aprile 2003, che racchiude nella sua proposizione antologica, testi di diversa datazione e di estrema leggibilità.
Questo osservare le cose dal loro ambiente naturale costituisce, il più delle volte, l’accesso ad un mondo dove ogni mutamento è occasione di un procedimento poetico ”caratterizzato da un’inquietudine sottile, da una mobilità dinamica, da un contiguo far festa e far lutto per ogni diversa cosa che passando dagli occhi arrivi al cuore o nella mente”. (Paolo Ruffilli, Prefazione al Canzoniere).
La città, in questo caso, Napoli, diventa luogo privilegiato nella poesia di Franco Riccio che sa cogliere la sorprendente metamorfosi della realtà, fino a rendere percettibili la solitudine e il piccolo gaudio, in una scrittura che passa dalle conversazioni intimistiche ad un più aperto spazio colloquiale, come storia di un uomo e di una vita segnati da un precario orizzonte e da ricorrenti fantasmi di tristezza.
Alla fine ciò che emerge è una sorta di esilio urbano dove il poeta annota fatti e accadimenti traducendoli con la voce dell’anima che evoca sia il momento storico sia il mistero dell’attimo, fissandoli tra il cronachistico e l’aneddotico.
Ma se questi sono i tratti specifici su cui si basa gran parte della poesia di Franco Riccio, altri sono i dati che vanno a incidere i tornanti della memoria e i rapporti con il quotidiano, riportati con sapiente referenzialità in testi che si pongono in un procedimento accumulativo di presenze-assenze, funzionali ad una poesia che ripristina la tecnica compositiva dell’esterno e dell’interno di cui Passato per Firenze. Non c’eri, ne è un modello esemplificativo pari ad altri testi rivitalizzati da una sorta di stream of consciousness, attraverso il soprassalto dell’Io che rimarca i tratti psicologici, con velate nostalgie e topici sentimenti. “E in questa forza di trasfigurazione risiede l’originalità di Franco Riccio, la non contrabbandabilità della sua cifra”. (Walter Nesti, Quinta Generazione, nn. 149-150 novembre-dicembre 1988).

Sisma 1980

Nel paese si sono creati
spazi imprevisti, ombre
impervie, prospettive
inconsuete.
Si svegliano
macerie che furono case,
scuole, chiese
(intimi pudori,
segrete povertà denudate).
Si resta,
nondimeno, sulla terra
che ha rullato pérversa per gli ottanta
lunghi infiniti secondi.
Si piange di rabbia e di dolore:
in silenzio o gridando, s’impreca.

Altrove, ripristinate pareti
scoprono nuove mutilazioni.

La luna, innocente, sta sulle rovine.
(da: Lacerazioni,1989)

****
Questo aprile filamentoso di nebbie
incostanti se n’è finalmente andato.
Pure se lascia pause ad incisivi squarci
di sereno per fugace apparizione.
La primavera è in agguato, disposta
ad instaurarsi stabilmente dopo
i primi inattesi indizi sugli alberi.
Timidi, interrogativi gli sguardi
al cielo per scoprirne gli umori;
già si pensa di alleggerire il peso
dei vestimenti.
Tentano le vetrine,
precoci, i primi chemisier multicolori.
Si ha voglia di sorridere al passante
che incrociamo; mentre, un’occhiata ai giornali,
e subito riappare la furibonda minaccia
dell’acqua per nuove alluvioni.
(da: Vita minore, 1999)

Passato per Firenze. Non c’eri

Passato per Firenze. Non c’eri.
Forse- era di sabato — a cena
con amici o in riunione
a ragionare con lena
di cose astratte e concrete:
o, più sicuro, un concerto.
Lasciati
in un angolo dell’orto, vuoto,
il bidone del “solfato”, il grembiule,
gli occhiali da saldatore.

Era rinato
il pesco dalle tue mani accorte.
Forse il ciliegio, se s’innesterà….
(stavano già “incannati” i pomodori,
esalavano acri sentori).
Cresciuta la sera
nella pescaia era
riflessa la luce puntigliosa
che declinavano le stelle.
C’era ancora una pace sull’umida,
liscia criniera dei prati:
l’accarezzavamo beati.
(da: I giorni dell’ansia, 1984)

ARISTIDE LA ROCCA

Un poeta che ha affidato il proprio canto a strutture metriche tradizionali, in particolare all’endecasillabo, come induzione espressiva verso gli aspetti drammaturgici del presente e del passato; è Aristide La Rocca (1925), che riscopre un mondo appartenente ad una civiltà letteraria e storica dagli autentici valori, repertati nel Frammento LXXX da Scene Augustee che, con accurata ricostruzione dell’epoca, ripropone la vicenda umana del poeta Ovidio e una interpretazione di fantasia, singolarmente utile allo sviluppo della trama, dei motivi dell’esilio decretato da Augusto.
Si accede con questo volume ad un ambiente poetico classico che rimette in circolo schiavi, danzatrici, senatori, liberti, guardie, sudditi dell’impero a fianco dei personaggi maggiori in una Roma tra il 30 a. C. e l’8 d. C. nei pressi di Nola 14 d. C.
Il risultato è il sorprendente connubio tra la fiction e la realtà di un medaglione storico che ha nell’esposizione delle scene la riscoperta del teatro di poesia all’interno del quale si viene a realizzare un’unità semantica, che ci riporta indietro nel tempo e nel reportage di un evento. Ma è con “La casa nel sole”, Cappelli 1969, e con “I soli”, Loffredo 1971, che La Rocca si avvicina al mondo linguistico contemporaneo, per rientrare nei canoni di uno stile parasperimentale e simbolico, con stilemi che irrompono nella struttura del testo e ne fanno un esempio di autentica proposizione linguistica.

“I soli” rappresentano un giudizio severo sopra le istituzioni e i fenomeni del mondo in cui viviamo (Giorgio Bàrberi Squarotti), dove il linguaggio transita in partiture poetiche che comprimono la realtà in flussi dinamici, raggiungendo una cifra espressiva in cui si vengono ad inserire improvvisi colpi d’ironia nel ritmo percussivo di giunture strofiche, a sbalzo intermittente.
Nel 1979, per le edizioni Hyria, vedono la luce Dieci Frammenti che riprendono sul piano formale le condensazioni drammaturgiche, specie nel Frammento X riproducente il clima letterario delle Scene Augustee, come momento isolato, posto all’interno di un più organico e complesso discorso nel quale diversi sono i passaggi tematici collocati in un sistema di figure e sentimento, dall’inarrestabile flusso narrativo e scenico, come nel Frammento VIII, che riporta l’estremo passaggio del paziente in un’atmosfera di forte dramma e delicata privacy:“e per le quattro del pomeriggio il carro / sarà puntuale anche il prete la gente / senza avvisi poca solo qualcuno / del vicinato lo sapranno dopo / diranno e potevate anche avvisarci / per non dare disturbo la domenica / forse eravate fuori per distendervi / non abbiamo creduto non abbiamo/ ritenuto scusateci scusateci /”.
Ci troviamo di fronte ad un autore dalle ampie aperture poetiche, capace di “captare” i segni della quotidianità e del passato con umana introspezione e sensibilità culturale, fino ad armonizzare gli elementi concettuali e meditativi, parodizzando pregiudizi e comportamenti umani, secondo un avvolgente schema di rapporti e storie di grazia figurata e di armoniosa musicalità.
Con L’amore randagio,2000, si entra in un piano poetico a più mitografie, con il tema dell’amore, trasposto con intensa luminosità e tristezza, come nell’ipnotico Frammento LXI, che brucia nel nulla il sogno finale del poeta, e che segna una svolta di grande penetrazione realistica nella cadenza ossessiva anaforica (L’amore è passato); proclive, altresì alla nostalgia delle passate cose e della lingua materna; aperto a un futuro imminente transitorio nel quale è la fretta del “secolo breve” e (“le domeniche passano passano”) che sta per passare la mano: doloroso nell’asseverante constatazione della fine dell’imperium cordis. (Gennaro Mercogliano). Le più recenti Scene bizantine — Teodora, (frammento XC), (2001), recuperano figure e fatti del mondo classico verso il quale La Rocca sembra essere oggi l’unico erede e relatore di una cultura dal grande fascino sommerso. Oltre ai volumi di poesie e di racconti, citiamo gli atti dei Convegni dell’84, curati e pubblicati da La Rocca: Le ragioni del Sud nella vita e nell’opera di Rocco Scotellaro, del 93 Il Mezzogiorno da Scotellaro a oggi. Economia, Letteratura, Società, Liguori, Napoli., e Il mare ciclope-Terzo Concerto Spettacolo per una identità mediterranea, in collaborazione con A. De Crescenzo, Liguori, 2003.

Taccuino 68

Ritonfano acque terremoti
sui giornali è tuttocchi
la negra col bimbo stremato
solo ossa e ginocchi.
Sorrisi frontali a Parigi.

Giusto per un fucile lontano
come John ora è King poi Bob
a svolgere pensieri
eredità di fratelli
destino di fratelli
“lo uccideranno un giorno in qualche luogo”
(il video allunga l’orario
ed abbassa la voce)
ma è già stato per Cesare
chi si rammenta di Cesare
senza monete né fede?

E’ sempre il terribile giugno.
Accorsata all’inutile urlo
dell’ambulanza d’Amalfi
(quasimorto salvarlo
ma i medici che sono padreterni?)
smentisce la morte
“Più nessuno mi porterà nel Sud”
(era Napoli il Sud
quattro ceri affiammati
quattro poeti che piangono).

Chi parte dal cielo per nuovi
pagani dissolto amore di tutti
alloquisce in divisa esperanto
ma amore reiettano a gesso
destino di fratelli
i fratelli agostani
Palach brucia e non sta all’inferno.

Sabato sale alla rampa
chi vive un sepolcro di luna.
O mia luna schiomata
il silenzio ti passa
come a un fitto d’alberi
il colloquio del merlo.
Siamo d’ali. In cielo c’è Borman.
(da: I soli, 1971)

Frammenti di stagioni

Più dolgono ombra i boschi
alla collina ogni sole è in questa
vertigine luce ottobrina.
Immota l’aria accicca
gioie speranze foglie.

Un rosso di tramontana
un terso caldo ai vetri
la scuola per mano a due passi
suonava lontano il tramonto
invernava così senza neve
(ora commiato l’atteso sabato
s’arrissa di rientri la domenica
e di piangere).

Nelle canne gravi del silenzio
irrompono pioggia
tuoni caldi odori
primaverano larve seni sangue.

Si straccia di nubi
la canicola faccia del sole
linda d’acqua l’erbetta
sfiata calura.
Vestiamoci pettiniamoci.
(da: I soli, 1971)

Frammento VIII

Crepita a scaglie e chicchi nel silenzio
pesante delle gomme il ghiaccio poi
si scurisce in fanghiglia aggruma cicche
bucce d’arancio vendono prolunghe
per la corrente accendini pupazzi
all’uscita carica a porta sci
mezzo intontito da rumori e gas
l’esattore occupato a sistemare
moneta ma scontento del lavoro
del suo prossimo tanto risentito
che pilucca la fila dà il biglietto
col denaro e guarda al piazzale libero
sente nel palmo ricacciato il resto
ha la prima già dentro imballa allenta
spinge forte appena svincolato
e lascia a ghirigori sui lunotti
bimbi amore saluti maninplastica
agli sportelli certe occhiate come
si dice solo con lo sguardo è grave.
Ma chi scorge luci avanti l’alba esce
presto di casa parte con le stelle
nel pensiero l’albergo prenotato
con l’acqua che nel bagno è poca e sputa
se rivede le stelle accosta gente
che fuma beve gioca a carte ascolta
hifi racconti s’accovaccia in cori
pensa alla strada al ghiaccio alle catene
alla stufa di casa all’ammalato
che a portata di mano ha quel che resta
della sua vita una bottiglia farmaci
boccette un vecchio libro di preghiere
una forbice nuova un po’ di zucchero
al fondo d’un bicchiere un bastoncino
per scostare la tenda il copriletto
un cuscino la speranza d’apprendere
la nuova cura della malattia
viene la notte torna il giorno il sole
lo ristora di caldo e di splendore
lo consola la pioggia e ricantuccia
il vento un po’ maldestro e fracassone
sembra smarrirsi il freddo a uno sbaraglio
di nuvole disfatte di scirocco
che accenna ad altra pioggia si fa tardi
questo sabato sera appesantisce
di sonno il lume schermato di carta
il respiro s’approfonda dirada
in lunghe pause riprende svanisce
torna impigliato tra bocca e narici
inarca il collo ad occhi spenti il capo
ricade inerte s’impenna poi tenta
un estremo sospiro che non termina
crolla resta si fissa nessun tratto
più muta è fisso e immoto anche chi scruta
e pensa ecco è finita domani
è domenica l’accompagnamento
è per le quattro al pomeriggio il carro
sarà puntuale anche il prete la gente
senza avvisi poca solo qualcuno
del vicinato lo sapranno dopo
diranno e potevate anche avvisarci
per non dare disturbo di domenica
forse eravate fuori per distendervi
non abbiamo creduto non abbiamo
ritenuto scusateci scusateci.
(da: Dieci Frammenti, 1979)

CARLO FELICE COLUCCI

Carlo Felice Colucci è nato a Riccia (Campobasso) nel 1927, ed è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico e di ricercatore. Fra l’altro, nel corso degli anni Settanta, ha svolto originali ricerche sui ritmi circadiani, ricevendo consensi internazionali. Ha pubblicato le raccolte di versi: Fenèste’int’o scuro, (Roma, 1960), Una vita fedele (Guanda, Parma, 1963), La pagaia, (De Luca, Roma, 1967), Poésies, (Millas-Martin, Paris, 1969), Placebo, (Lacaita, Manduria, 1975), Preghiera occidentale, (Guida, Napoli, 1981), Check-up, (Almanacco dello Specchio Mondadori, Milano, 1983), La bella afasia, (Lacaita, Manduria, 1983), Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1987), A fuochi spenti, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1992), Il viaggio inutile, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia.2003), Selected poems, Edizione bilingue italiano-Inglese, (Gradiva Publications, New York 2003). Ha pubblicato i romanzi: La corsia, (Rebellato, Padova, 1972), I figli dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma, 1979), I fuochi di Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna, 1985), Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi, Milano, 1993), ed una cospicua raccolta di saggi ed elzeviri dal titolo: La parola perduta, (Guida, Napoli, 2001). Sono in corso di stampa una raccolta di racconti (Non sparare all’ombra) ed un romanzo breve (L’appello). Per cui riteniamo che il Colucci abbia già al suo attivo-decisamente- la doppia veste di poeta, nella quale è nato alla letteratura e di narratore tout court (a partire dagli anni Settanta), appartenendo di diritto alla sparuta schiera di scrittori in utroque del nostro Novecento che va da Palazzeschi a Saba, Pavese, Bassani, Compagnone, Tobino, Scotellaro, Volponi, Pasolini, Rimanelli, Bevilacqua ed a pochissimi altri. Ciò che caratterizza la poesia di Carlo Felice Colucci è il costante lavoro sul significante a cominciare da la Pagaia dove già si formulano i primi contatti linguistici innovativi, che si faranno più chiari e distinti in Placebo, “in una temperie stilistica di ironia tragica di sequenze appositive e comportamenti verbali nel rispetto però delle forme linguistiche e del nucleo del sintagma.”(Lanfranco Orsini, Otto-Novecento- tra poesia e prosa, Napoli, S..E.N., 1980, pag. 358); per poi “passare”, “attraverso l’avanguardia con grande intelligenza e saggezza”,(G.B. Squarotti: dai Postermetici alla postavanguardia, in Letteratura Italiana Contemporanea, Lucarini, 1982 vol. III, pp.545-546); pervenendo con Preghiera occidentale ad uno dei documenti poetici tra i più significativi degli anni Ottanta. La poesia di Colucci, prevalentemente logica e antropocentrica, gira intorno al tema della memoria e al dramma della vita in cui vengono esaminati e ritracciati i filamenti della realtà con conclusivi epitaffi e infausti pronostici per tutti. Si fanno così strada gli spazi del tempo dove mancano i giorni per seminare o per sperare e la Morte ha le sembianze dell’arrotino nel volume Il viaggio inutile. Questa visione culturale e psicologica viene correlata alla vita, con l’occhio spietato del medico-poeta che ricorre ad un glossario scientifico per analizzare, con metafore e sintagmi, il destino dell’uomo.
In questo caso, l’unica solidarietà possibile di fronte al negativo, è la propria testimonianza esposta a quelle scarne profezie / tumori adiesse denutrite magie. Il futuro si identifica con il lessico del nichilista tout court, e il risultato è un evidente schiacciamento dell’esistenza fuori da ogni considerazione metafisica, in un pessimismo che “appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò l’Universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”.(Giancarlo Rugarli, Il Mattino, 20 luglio 2003).
Il paesaggio esterno è marcatamente sassoso, tragico, freddamente lunare, ma di una luce che rischiara la memoria e gli immutati affetti verso i cari estinti, attraverso il recupero antologico di figure e volti che transitano in un’atmosfera sempre più mitica e sacrale, franta ed epigrafica, in vicende che rimarcano il senso proustiano del tempo, dove i suoni dell’anima si amplificano in un umanesimo esistenzialistico. A questo punto si potrà parlare di Colucci pure come di un poeta sotterraneo, in grado di sondare a fondo il vissuto esistenziale, fino a sezionarlo, penetrando “lo sguardo o il bisturi nella tragicità della vita”. (Giuseppe Zagarrio, da Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983, pag. 328), in una sorta di “veggenzialità postuma” (idem, pag. 346). Ma forse non si capirebbe appieno il substrato più riposto e pregnante di codesta poesia, senza mettere mano ad un’altra icastica citazione:”Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe, rivela un sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad organizzare fra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto se non di salvezza, almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò che abbiamo definito il “folclore medico”: definizioni di stati patologici senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali (e non ultime, di recente, le serie patologie personali dell’Autore n.d.r.). Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di profondità spirituali insospettate”. (L.Sbragi, Nostro Tempo, 1982-1983, pp. 25-26). E’ codesta la “centralità concettuale” di Colucci, donde partono le onde “psicoespressive” dentro un’operazione poetico/testamentaria che, attualizzando l’effimero dell’umanità, ci restituisce il caos delle cose e degli eventi: da cui è impossibile il tentare di uscire, se non dopo aver conosciuto (e vissuto) tutto il dolore possibile, che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi.

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette
ho finito i gettoni, altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva si
l’uniforme, da Lotta continua
ed uno vorrebbe alla spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza gioco di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre,
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia,
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie
(da: Preghiera occidentale, 1981)

Detto tra noi

Io sarò sempre incerto semmai,
degli uccelli hanno preso a cantare
in modo così orrendo da angosciarmi,
se con la penna col bastone o con
se una lunga fila d’auto e requiem
diagnosi prognosi e autopsia
ritornare nell’Acqua Primordiale
con tanti miti e qualche fiore in tasca,
è metafora sublime
il vostro guano ubiquitario
popolo eletto degli uccelli addio
la vita scelta fra mali
e tu a darmi ragione torto niente
nessuno ci offriva più niente più mance
solo una debole nenia di futuro
le iniziali sul destino e si disfiora
l’hashish nel vaso dei gerani,
vi troveranno vi prenderanno sempre
fin dentro malfide riserve;
non me, la breve avventura
nell’epitaffio di riguardo
io traverso sempre sulle strisce
fedele nei secoli nei vicoli
quelle farse per sopra e sotto su e giù,
il resto è tutto sul fondale disfatto
una toga d’ermellino per giustizia
la città sul banco degli accusati
adoro fresche basiliche d’estate
le donne di statura media
e il sorriso idiota del vicino,
decidono domani i sindacati
non io, né mai troverò le siepi
dove imberbi ci masturbammo né
mio nonno il biroccio e la cavalla
venduta anche la stalla d’adozione,
misura il volo compagno di paura,
io sarò sempre incerto semmai
il verso lungo o la memoria corta.
(da: Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983)

Totem, tabù e infanzia

Totem annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroschima, Dio mio, Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino
(da Il viaggio inutile, 2003)

FRANCO CAVALLO

Nato a Marano nel 1929, e morto a Cuma nel 2005, Franco Cavallo è stato protagonista dell’attivismo culturale napoletano con Stelio M. Martini, Felice Piemontese e Luciano Caruso, durante gli anni di fervido sperimentalismo neoavanguardista. Ha pubblicato: Fétiche, (Guanda, Parma 1969); I nove sensi, (id. 1971); Flusso, (Altri termini, Napoli, 1976); Ziggurat e Frammentazioni (id, 1979); L’alfabeto dei numeri, (id. 1981); La nascita del Principe (Edizioni del Vicolo del Pavone, Piacenza, 1988); L’animale anomalo, (Altri Termini, Napoli, 1992); Nuove Frammentazioni (Anterem, Verona 1999, Premio Lorenzo Montano 1999 e Premio Feronia 2000); Nuvole e Angoscia, (Orizzonti meridionali, Cosenza 2001). Ha curato le Antologie poetiche Zero. Testi e antitesti di poesia (Altri Termini, Napoli, 1975) e la serie di Colibrì, 1979; Coscienza & Evanescenza, Antologia dei poeti degli anni ottanta, S.E.N. Napoli, 1986, Poesia Italiana della contraddizione (Newton Compton, Roma 1988), in collaborazione con Mario Lunetta.
Ha scritto anche di narrativa: Le memorie del Professor Zarathustra, (Altri Termini, Napoli, 1987); Racconti volanti e altri racconti Manni, Lecce, 1996. Ha fondato nel 1972 la Rivista di poesia e teoria critica Altri Termini che ha diretto per circa un ventennio, rimuovendo il vuoto culturale venutosi a creare dopo la neoavanguardia. La rivista terminò le pubblicazioni nel 1992, dopo gli ultimi numeri monografici dedicati a Corrado Costa e ad Aldo Palazzeschi, intervenendo sulle variazioni della scrittura di Roland Barthes; uno dei tanti critici presi in esame.
Molto intenso e vivace fu il rapporto dialettico intorno allo sperimentalismo, come necessità di nuovi agganci con la letteratura e adesione alle avanguardie storiche.
Non c’è dubbio che Altri Termini colse il senso di disagio e di dispersione poetica in un momento di forte crisi del linguaggio negli anni Settanta, aprendosi ad interventi non privi di polemiche e di spunti contraddittori sulla risemantizzazione del testo, come proposta di scrittura creativa; il rilancio, insomma, di una nuova fisiologia della parola, che potesse venir fuori dalle diverse anime chiamate a dare un contributo costruttivo per la ripresa del concetto stesso di poesia, chi riconsiderando le forme obsolete della tradizione, e chi proponendo l’esperienza dello sperimentalismo.
Si trattava di operare su un progetto o linea di tendenza capace di dare il senso vivo ad un’azione poetica autre, superando l’onda del riflusso.
In questo senso il dialogo aperto da Altri Termini, costituì la base di confronto e di analisi intorno al significante e al concetto stesso di autonomia ed eteronomia dell’Arte, liberando nella discussione pluralismo e pragmatismo.
Discorso alquanto complesso per la polivalenza delle tematiche riportate in un’ampia vetrina d’opinioni, per verificare le diverse voci e ipotesi di ricostituzione della lingua, che la rivista affrontò, tra tesi e controtesi da parte d’illustri critici come Sanesi, Vassalli, Squarotti, Pedullà, Conte, Lunetta, D’Ambrosio, Baudino, Carlino, Vitiello, De Angelis, Esposito, Carandente, Perrotta, ecc. fino a giungere ad una comprensibile conclusione da parte dello stesso Cavallo, quando in uno degli ultimi numeri della rivista, fece notare la situazione di stagnazione e di impaludamento, e la condizione di riflusso, con i suoi caratteri orrendi e quasi irreversibili;senza rinnegare per questo la sua fede nella poesia e anche un certo amore verso le avanguardie storiche e il surrealismo.In un passaggio da Aborigeni, Riflessione dell’Autore, Cavallo parla della necessità di “un ritorno alle origini della specie, al pensiero prelogico…per ricominciare tutto da capo, come se nulla (o quasi) fosse mai accaduto: non con la citazione, ma con la memoria a brandelli (o con i brandelli della memoria); e con il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato; questo potrebbe risultare uno dei segni possibili della parola poetica. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il “mito”, anche se a volte il canto “frammentato” può sfociare — ed è un pericolo che bisogna scongiurare ad ogni costo — in nostalgie affabulatorie di natura mitologica: è cultura del passato che si ripropone al presente in tutta la sua storica e drammatica attualità”.Su questo terreno si è venuta a confrontare la sua poesia che si è arricchita di composizioni logo-iconiche oltre che logo-ironiche, individuate da Lamberto Pignotti nella sua relazione su La Poesia visiva a Napoli, a cura di Matteo D’Ambrosio, pag.204.
I testi di Franco Cavallo si avvalgono di bioritmi linguistici, pluricellulari ed espansivi, oggettivamente puntati verso un apparato verbale, che non si chiude in formule monotematiche: tutto è indagabile e tutto è assoggettabile all’idea di una poesia realizzata con diversi messaggi che diventano immagini dell’Io centrale.
Da qui il senso dei significanti che danno vita ad un’ampia sfaccettatura poetica portata avanti a livello di acquisizione del reale e dell’immaginario.
Pensiamo per esempio, a Ziggurat (1979), che si espone ad una ardita proposta segnica nella più sfavillante dissipazione stilistico-strutturale dove si innestano brani di prosa lirico-riflessiva, elementi iconici, calligrammes, in un continnum a andamento rigorosamente dialettico (eppure a cadenza arbitraria, ricca di effetti a sorpresa (Mario Lunetta), o all’Alfabeto dei numeri, (1981), definito da Manacorda una sorta di cabala o di aritmetica poetica (o poesia aritmetica), o alla silloge antologica Nuvole e angoscia, (2001), che proietta in profondità testi indirizzati verso le notazioni partenopèe, l’onnipresenza e l’incombenza della morte che assecondano il fluttuare dei pensieri, riportati in una grafica personalissima, quasi ad esprimere il fluire immediato, e la concatenazione delle immagini nel verso (Maristella Dilettoso).
Metafore e ironie, risorse linguistiche e surrealismo nell’ambito delle relazioni con il testo e i suoi caratteri ludico-allusivi, riflessivo-liricizzanti, scissi in soluzioni fonometricofigurative, sono le forme rilevanti delle categorie grammaticali di questo poeta, sfocianti in un’estensiva appropriazione dell’universo interattivo del discorso sociale, esistenziale, morale, e quant’altro riferibile ai flussi di coscienza. Cosicché ibridismo semantico e fusione dei codici di scrittura si ricostituiscono in un verbum sperimentale, per analizzare ogni frammento e campione della realtà nel rapporto uomo-società e uomo-mondo, come ne: I nove sensi, Guanda 1971,”che fa seguito a Fétiche e che sviluppa nel senso che chiarifica di più l’operazione di prassi liberatoria contro gli istituti-tabù della civiltà: contro l’uomo —fétiche, appunto.” Il personaggio simbolo resta Edipo visto nel suo segno mito di un uomo destinato dalla sventura (dei suoi complessi o paure) alla sventura della sua schiavitù storica e istituzionale. Non c’è dubbio che la proposta poetica di Franco Cavallo gli ha permesso di innestare perfettamente, sul tronco dell’avanguardia storica più provocatoria, tutta la passione (e tutto il tormento) delle nostre più attuali illusioni-delusioni (o viceversa), e di incrinare per questa strada tutto il castello che le nostre neoavanguardie degli anni sessanta avevano innalzato sulle basi del proprio accademismo filologico e/o schizofrenico (da: Febbre, furore e fiele, Giuseppe Zagarrio, Mursia 1983 pagg. 166-167).

Nottesuburbio. Colpisecchi di tosse
nel buio, – di pistola.

Vocelontana, – un canto gregoriano?

Vicolo delle Femmine
mangiato dalle donnole.

Odore di fogna e di
muffa. Scatarramenti notturni.

L’ombraferita annaspa. Vacilla.
Si accascia sul selciato….

E poi la voce, in uno
sfinimento tenue, quasi
ala di colomba ra-

dente: “ E’ come sprofondare
nella neve — a settembre!”
(da: Suburbio, 1993-1998, in Nuvole e Angoscia, 2001)

****
a precipitare, precipitano:
ma poi s’alzano, – precipitati.
dai loro occhi si diparte un fato
torvo, dal profilo d’unicorno.

c’è gran silenzio lì intorno.
i mestieri non hanno futuro.
lungo la spiaggia c’è un muro
che si apre a raggiera:

è gremito di fiere….
e il vento? è proprio
il vento un alimento divino
che copre santuari e sentine.

rose e glicini
non avranno dimora:
c’è chi la sua origine
non conosce ancora.
(da: Ultime frammentazioni, 1998-1999 in Nuvole e Angoscia, 2001)

****
5, 6, 7, 8,

per Cinque
per Sei
per Sette
per Otto
lo spostamento verso est
avviene
attraverso una palude misteriosa
costellata di scheletri
di
mohicani
)
cupi suoni di liane

si snodano nel tuo corpo
– fondamentale panteismo indù-
&
l’acqua sale
sino alle vertebre
del
silenzio
:
una placenta violacea
si stacca
dalla tua luce
di solstizio
e cade
in particelle silenziose
.
o nube
sovraccarica
d’aceto
o scorza delle mani
avvinghiate al tuo seno
(elaborato nella mia frequenza)
o particola
che rotoli tra i pioppi
o vuoto
color di salnitro
o raganella
che t’incagli nel fondale
di uno sperma nebbioso
– assapora
il frammento aspro della parola
che non raggiunge
il tuo centro
poi
lo raggiunge
e il tuo centro
è
la
Morte
(da: L’alfabeto dei numeri, Altri Termini, 1981)

ANTONIO SPAGNUOLO

Non sono pochi nella nostra letteratura i casi di scrittori e di medici-poeti che hanno fatto del corpo-vita un’anamnesi metaforica, ristretta in pochi nuclei di realtà negativi, proponendo, a volte, soluzioni alternative, ad effetto placebo, per una terapia d’urto contro il male di vivere che, quantunque bypassato dagli alibi della memoria e delle illusioni, resta pur sempre un dato di primissimo piano, per trasfigurare la condizione umana oppressa dal Nulla e dalla provvisorietà. A questa schiera di poeti fa parte Antonio Spagnuolo, (1931), il quale, attraversando due generazioni poetiche: quella ermetico-neorealista e quella della Neoavanguardia, con qualche eccezione e partecipazione a mostre di poesia visiva, si è sempre tenuto nei limiti della chiarezza poetica e lontano dalla suggestione plurilinguistica degli avanguardisti, gestendo un proprio vocabolario medico-scientifico e novecentesco, per denunciare, metaforicamente, gli aspetti esistenziali, fino ad immettere la poesia in un probabile e ipotetico Oltre.
E’una scrittura reticolare, che si manifesta attraverso numerosi procedimenti tematici nella scomposizione del quotidiano, tra microstorie pubbliche e private.
Amore e Morte sono i termini di confronto sempre inconciliabili o dicotomici. La visione del Mondo, vista come corrosione cosmica delle cose, apre scenari inconsueti e imprevedibili, mettendo in tensione le fibre dell’inconscio e del paesaggio mentale, che si muovono intorno ad alfabeti materici e analogici, fortemente percussivi nell’attimo in cui la parola tende a misurarsi con l’effimero e l’assoluto, per cercare uno spazio, tra sogno e illusione, nel tempo dell’Attesa.
E’ questa la parabola poetica di Antonio Spagnuolo che si riflette in in un ampio repertorio di procedimenti psicologici, consequenziali ad una ricerca religiosa, torturata e sofferta, specie quando il discorso si fa più meditativo e sincero nella plaquette, dal titolo “io ti inseguirò” (venticinque poesie intorno alla Croce), Luciano Editore, Napoli, (1999), che rivela un’ansia metafisica non comune, con un controllato uso del linguaggio, mai sfociante nell’innologia o nelle laudi da oratorio: cosa non certamente facile quando si accede ad un universo poetico di tipo teistico o si cerca una identificazione allegorica con la Croce e la poesia; come “mediazione tra il dolore e la catarsi, la sconfitta e la vittoria, il buio e la luce”; sintesi di un’autentica dichiarazione di poetica, sempre più laboriosa e antropocentrica, nel momento in cui l’imperscrutabile diventa appiglio psicanalitico di fronte alla questione esistenziale indagata tra affondi psicologici, riflessi di luce e mezze ombre, in una solitudine privata e di arida denuncia del nonsense della vita, anche quando si scelgono le vie provvisorie dell’Eros, a sorreggere il mondo, a lievitarlo dalla sua caducità, che è poi un modo abbastanza mimetico d’essere dentro il mistero delle cose e delle loro dissolvenze, per testare la formula del dolore legata alla salvezza.
Da qui alcuni repertori lirici che si aprono come squarci in una sequenza intima di riflessione e di progressione autobiografica Finché a sera, in un remoto sacrificio delle ore,/ vecchio bizzarro, per raggiungere il tempo ormai indeciso, / crudelmente, restandone alla larga, / mi trasferisco a sognare; / tra scomparti e cancelli; / tra le note di una incerta anestesia / incredibile viaggio in pungenti fantasie / ecco moltiplicarmi / nell’esistenza di Dio. / (da: Ronzio: inedito).
La fitta produzione poetica di Antonio Spagnuolo pone in evidenza un esplicito approdo ad un universo metafisico dichiarato con una parola che non è soltanto la poesia-Croce: oggetto e forma della Speranza e della Inquietudine del nostro essere -qui e ora- ma è anche la fusione di nuovi “alfabeti”, per sondare altri terreni d’uscita dalla poetica del dolore e del male di vivere. La titubanza e il dubbio, che pure fanno parte di tanti reperti poetici, si innestano come pause di frattura nel procedimento etico-morale in Spagnuolo, specie quando egli ricorre a insalvabili e illusori percorsi provenienti dalla quotidianità.
Infatti “ E’ costante nella poesia di Spagnuolo la rappresentazione di nuclei tematici, come la centralità dell’eros, la relazione eros/tanatos e libido/morte, cui corrisponde il ricorso ad una terminologia clinico-psicologica, evidente soprattutto in “melania”, sezione centrale del volume Candida- prefato da Mario Pomilio”- (da: Dizionario della letteratura italiana del novecento — Ediz. Einaudi, a cura di Alberto Asor Rosa, 1992).

C’è un silenzio dove ripeto abbandoni,
tra gli infissi,
tra sguardi irriverenti e giochi di colori.
C’è un silenzio per l’alba che non torna
fra i labili corpi ancora stupiti,
tra pilastri di tenebre,
ove distendo appena i miei discorsi,
a ripetere avventi di speranze
contro l’orologio del mondo,
che rintocca troppo lentamente il tempo.

Sarà la volta dell’ultima vicenda:
sempre più lento e fioco
lo scorrere del sangue nell’aorta,
perché gli occhi affamati di resurrezione
s’affrettano a socchiudere le palpebre.

C’è un silenzio per nuove dimensioni,
per le siepi ritrovate intatte,
per il dissolversi delle nebbie,
Signore,
nel timore che tu possa sparire
un’altra volta.
(da:”io ti inseguirò”, 1999)

****

Rapinando alfabeti
decompongo lo spazio di ginocchia,
nella spanna di sillabe e cesure.
Le mille intemperie della mente
hanno intermezzi,
e le memorie,
a recuperare il mio gesto,
hanno sponde al rovescio.
Nello squarcio di alcune liturgie
riproduco tue spezie
solcate a frenesie nella vecchiezza.
Forse scivola il numero al tizzone
o la festa a scomporre
un recente passato,
ed io vorrei tornare agli anni
della luna
per trafugare la riga del tuo nome.
(da: Rapinando alfabeti, 2001)

Ronzio

Tutto è ronzio, un crepitio elettronico di zufoli
e d’amore
per fulmineo abbrivio delle nuvole a farsi parole
della immaginaria corsa, accennata in segreti.
Dietro gli anni l’azzurro necessario a fuggire
l’abete, una strada, una stazione, una sosta sbeccata,
o la meraviglia dell’angolo fra le dita tue a contare
ritorni.
Dove l’enigma del nostro tempo urbano
schiaccia sfumature, pari ad una immagine
o misura dei cerchi risucchiati:
va e vieni, voli vertigini, giorni senza giorno,
temo, in attesa del volo che ti imbianca,
di spalancare ali, volteggiare al difuori del letto,
mai sazio di cicale o sussurri.
Spartiti che non posso raggiungere, mutilato da fili,
per blandire le sbarre giusto al punto interrotto.
Abbeverarmi a ferite un milione di volte,
tutto esatto e preciso in un febbrile impatto,
è poca cosa l’aria di rigore o le sfolgoranti luci.
Finché a sera, in un remoto sacrificio delle ore,
vecchio bizzarro, per raggiungere il tempo ormai indeciso,
crudelmente, restandone alla larga,
mi trasferisco a sognare,
tra scomparti e cancelli,
tra le note di una incerta anestesia
incredibile viaggio in pungenti fantasie
ecco moltiplicarmi
nell’esistenza di Dio.
(Inedito)

G. BATTISTA NAZZARO

Fondatore della rivista Es assieme a Sergio Lambiase, e attivo promotore di iniziative culturali, G. Battista Nazzaro (1933), appartiene al ristretto team di scrittori e artisti del Nucleo Operativo 64, che nel 1965, presso la Galleria Guida tenne la prima mostra di poesia-visiva, con opere di Bonito Oliva, Felice Piemontese e Antonino Russo, per testare sensibilità e umori, come nuovo rapporto culturale con il pubblico, in un momento di estremo interesse per le arti innovative e trasgressive.
La sua adesione alla poesia visivo-tecnologica pone da subito una intenzione progettuale, come modello di mediazione figurativa, con lo scopo di far coesistere la parola con gli innesti grafici e creare così alcuni rapporti interattivi tra le due forme oggettivate, integrandosi con il concetto di avanguardia nei diversi segni simbiotici, statici, spaziali e iconici. Qui rimarchiamo alcuni risultati importanti raggiunti da Nazzaro, in particolare, le opere presentate alla mostra: Il Messaggio ribaltato del 69, Casoria, Circolo studentesco e vari scritti critici, di rilevanza nazionale come: Introduzione al futurismo, Guida, Napoli, 1973, Marinetti futurista, Guida, Napoli, 1977, Marinetti e i futuristi, Garzanti, 1978, Futurismo e politica, 1987, che lo pongono tra i più seri studiosi di questa corrente. Ha collaborato alla Nuova Rivista Europea di Giancarlo Vigorelli, con articoli e recensioni riuniti in Il carteggio Prezzolini-Soffici.
Sul discorso verbo-visivo, che pure ha coinvolto e interessato G. B. Nazzaro e tanti poeti napoletani, Filiberto Menna in: La poesia a Napoli (1940-1987), pag. 211, rileva che molti di questi operatori, si sono posti il problema di creare delle intermittenze… dei disturbi. mettendo in evidenza il carattere oppositivo e alternativo della poesia tecnologica, rispetto alla cultura dominante di quegli anni.
Attualmente, e per i pochi documenti poetici consultabili, ci pare di rilevare nel primo volume di Nazzaro – Roditore e cancro SIC, Napoli, (1973) -, un non comune desiderio di inserirsi a carte scoperte nel gioco della poesia, con estrema cautela e responsabilità.
Il clichè poetico ruota intorno alla nevrosi del dire, che corrisponde ad una continua verifica del senso della vita. Roditore e verme, sono, infatti, le figure metaforiche che rendono inattive tutte le possibilità di comunicazione della parola nell’indagine esistenziale.
Da qui un uso parsimonioso della produzione poetica da parte di Nazzaro e un equilibrato senso di riservatezza giustificati da una sua dichiarazione:“Anche se ho pubblicato pochissimo, per star fuori dalla vischiosità solipsistica, la poesia occupa per me un posto elevato. Mi sono reso conto, confessa Nazzaro, che le altre attività letterarie diventavano ideologia, esercizio critico, esternazione erudita, tutte cose preziose ma che avevano poco a che fare con l’immaginazione e la fantasia. Così di nascosto scrivevo poesie, che ho atteso molto (per pudore) prima di pubblicare” (da una Intervista a G.B. Nazzaro su Il paradosso dell’evidenza di Alessandro Carandente, Marcus Edizioni,pag.132 Napoli 2002). Il che equivale già ad un esplicito impegno culturale riattivato con i“Frammenti per poema”, risalenti al 1983-1984, apparsi su Secondo Tempo, Libro tredicesimo 2001, che si distinguono per la tramatura flegrea, le suggestioni marinaresche, il senso del tempo ad irradiazione coscienziale, in un effluvio di suoni e di espressioni accumulative, che ne fanno un pastiche di lussureggiante sperimentazione tecnica e stilistica, specie nell’ultimo volume dal titolo Melusina, Marcus, 1997, che si apre ad una tenuta di canto più consistente, nel senso che la voce si affida al racconto d’ambientazione romanzesca, riscoprendo un mondo magico e poetico, attraverso le ragioni dell’amore e dell’incanto di Melusina, la protagonista del Roman de Melusine di Jean d’Arras, riportata alla vita da una parola convocata nell’attrito dei lessemi attigui fino a produrre un senso luministico e etico (Ciro Vitello, da: l’ossimoro ossia le opposizioni come generazione del mondo poetico in G. Battista Nazzaro), e che pure connotano desideri d’immaginazione letteraria mimetizzati nel tempo e nella storia umana.
Ma Melusina offre anche altre chiavi di lettura espresse tra sensibilità e civiltà culturali diverse, come mutamento della poesia, che in questo caso “viaggia a ritroso, dall’esaurimento immaginativo dei nostri giorni, fatti di attesa e silenzio, fino alle radici del pensiero occidentale — soprattutto frequenta il mito del mondo greco ma anche la ritualità romana e la religiosità cristiana, attraverso i miti della vegetazione, del sacrificio”, come rileva Alessandro Carandente in quarta di copertina. Ed è proprio su queste connessioni che nascono storie di vita e di morte, fino a determinare un formalismo del gesto magico nel dissolvimento dell’incantesimo.

dire:
la vita dissipata in similpelle,
e la barriera, come forma distaccata:
un senso che sospinge:
un mondo, un mondo:
paralume con astuccio per nessuno:
e si assottiglia lo sforzo per ridurre
all’interno dell’oggetto la membrana,
fibroma nel dissesto, e
ripetere il messaggio:
dire:
altro dettaglio della mano,
un naso e lingua
who did you say (?):
parallelamente,
ed è produzione,
o immagine che nasce dissossata
nell’emblema:
un ciclo elastico,
ripetibile per gli esterni in buona luce.
(da: Roditore § Cancro, 1973)

****
Non farne un dettaglio: la mano
è la grù: uccello bellissimo
in un grido verde: un grido in un
deserto.
Sette milioni di anni
analoghi a quelli in cui la mano
trivella ruotando e vanta esemplari
chimismi: dunque in perdenza:
eternamente in fuga: dispersa
nei mutamenti della terra.
Un giorno
sul bordo vennero messi dei segnali:
astrazioni lunari fatte passare
lentamente: più deboli anche,
in traiettorie, e pulsa e respira,
osso protervo di voci ammonitrici.
Ma si ostina: giorno per giorno:
lievito vivo di eventi futuri.
(da: Roditore & Cancro, 1973)

Il nocchiero stanco

1

navigando il nocchiero tra spenti roseti;
seduto, su fasci di antico cordame,
salato come odisseo l’astuto; col capo
fasciato; la bocca e le orecchie ulcerate;
sguscia lumache; tuorli rimuove dal guscio;

narrando, occhio fallace, lamelle di onde
e di sale, attecchite alla chiglia del mare;

ma è un uomo tarlato; reo confesso d’accidia;
sogna bonacce; dune di sabbia assolate,
rive di sassi stecchite; esche di carne,
focacce mielate e voli radenti di gabbiani;

nell’ora ferona che vide mercurio suonare
bianchi liuti, e l’orca danzare sul mare;

2

dorme sognando, insania cattiva e spettrale;
sopra scoscese pareti; che sale, l’orrido
nano, folletto, stridore di stelle spezzate;

la donna cannone che ride mostrando
mutande all’amante macchiate di sangue;

che c’era nel porto fumoso indomabile
veglia; nelle vetrate c’era un famelico
urlo; e il ventre scavato da cime; all’umile
albergo, la vergine assisa tra gli assetati;

c’era l’assenzio la nebbia la lingua tagliata
nel rosso boccale; il seno schiacciato
sul vetro e la mano che spinge il boccale;

navigando tra mare e taverne, topo roso
dal mare (………………………………)
(da: Frammenti per poema)

Terza parte
 
STELIO MARIA MARTINI

Riconosciamo che una sintesi critica su Stelio Maria Martini, non possa essere miniaturizzata in rapide considerazioni esplorative sulle opere espresse o prodotte fino ad oggi. Ciononostante, non ci esimeremo dal riferire sulle categorie culturali di questo Autore, che negli anni Sessanta, si propose nella poesia come nelle sperimentazioni letterarie, con grande vivacità, andando anche contro certe resistenze artistiche e ideologiche di allora che avevano assicurato un periodo di egemonia e di stasi culturale. I primi progetti sperimentali di Stelio Maria Martini (1934), risalgono alla pubblicazione dei fascicoli di Poiorama, rassegna di poesia-visiva, editi da Linea Sud n. 2 Napoli, aprile 1965, redatti dallo stesso Martini, Bugli e Persico, con riproduzioni e dichiarazioni di autori, come Bueno, Spatola, Balestrini, Porta, Pignotti e dove Martini è presente con due Schemi del 62, accanto a varie tendenze (Gruppo 63, Concretismo, Nuova Scrittura e Poesia tecnologica) e, ancora, in Poesie visive; un repertorio antologico a cura di Lamberto Pignotti, Bologna, Sampietro 1965, con Bonito Oliva.
Il nome di Stelio Maria Martini figura, assieme ad altri scrittori e intellettuali, quale fondatore e editore di un nutrito gruppo di riviste sperimentali: da Documento-sud a E/mana(azione), con partecipazioni alle grandi mostre Poesia visiva (Cinque maestri) Carrega, Martini, Miccini, Pignotti, Sarenco, Firenze 1988, e L’ultima avanguardia, Spoleto, 1995. Ha pubblicato la prima antologia italiana di scrittura visuale Schemi- Documento-sud, 1962 e Morra, 1989, Napoli. Il volume riporta i primi esempi di poesia visiva in Italia, in seguito elaborati dal ”Gruppo 70” di Miccini e Pignotti; Turbiglione, Guanda, Parma, 1965, Formulazioni non-A Colonnese, 1972, e Morra 1984; Neurosentimental, romanzo visivo, Continuum, 1974, e Morra 1983, Napoli; Calligrammi di Apollinaire, Morra, Napoli 1984, L’impassibile naufrago, Guida Napoli, 1986; Breve storia dell’avanguardia Nuove Edizioni, Napoli, 1988; Una postilla e altre storie, Mercato del Sale, Milano, 1989, Poemi calligrammi, metri, Marotta, Napoli, 1991, Labentia signa, Ripostes, Roma, Salerno 1993, e La chiave universale, Morra, Napoli, 1997.
Sulla scrittura verbo-visiva Martini ha realizzato veri e propri rapporti interattivi, restituendo alla parola e alle forme fisiche un mondo complementare e plurisoggettivo; da qui tutta una serie di sperimentazioni in opposizione ai canoni tradizionali, già rilevati da Filiberto Menna in La poesia e la voce: La poesia a Napoli (1940-1987), pag, 211, quando precisa che ”La poesia visiva ha scelto il partito della complessità, coniugando codici diversi, contaminando parola e immagine. La sfida alla comunicazione di massa si colora di intenzioni ideologiche, oppositive, assume a volte, addirittura delle sfumature utopiche”.
Tuttavia non si può negare allo sperimentalismo napoletano di aver operato all’interno di una provincia, “dove per un periodo, ….si potè assistere ad una vera e propria rinascita delle attività estetiche”. (da Note sull’attività estetica, la rivoluzione culturale e i situazionisti, di Luciano Caruso e Stelio Maria Martini). In quest’ambito s’inseriscono gli esiti poetici di Martini che fanno ricorso ad un laboratorio di ricerca per attualizzare l’arte plurisensoriale: pensiamo soprattutto a Schemi con i suoi soggetti complementari e primari in tante forme e “tecniche compositive quante sono le poesie presentate, si va così dall’ibridazione verbale, che sconfina quasi nella poesia sonora, alla poesia gnomica, alla poesia grafica e manoscritta, al détournement, vero e proprio di canzonette entrate nell’immaginario collettivo della cultura di massa”. (Luciano Caruso, Per Martini (25 anni dopo), pref. a Stelio Maria Martini, Schemi, pp.5 e 6).
”Un nuovo linguaggio si affaccia alla finestra del mondo poetico; un linguaggio di segni e composizioni diversificate; sovente artificioso, si immette nell’orbita del nonsenso per un sabotaggio quasi barocco della forma, delle tante illusioni dell’estetismo”.(Giorgio Moio, Da Documento- Sud a Oltranza. Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli, su Risvolti: Avernum Poetry n. 1, pag.28, 1998).
Ne riportiamo qualche esempio da Schemi, pag. 21: Désploto! / dall’alluminenza che inconda / l’annio del forte, scudi i crupoli / di plexiglass e idèntica, plongi, al- / lùta le aligioni vui rutili caschi / viano. / Migra i planetaria dessentiti, / Dittàcidi combra, flega, arrìta, aìta!.
Di fronte a questi esiti di autentica materialità del significante, assumono caratteri estetici le fonie in un multiforme cosmo linguistico che si riappropria di inserti musicali come in 2 Canzonette, che danno un po’ la misura di come la poesia possa entrare nel quadro sempre più aperto e generale delle voci e dei segni riportati per pausa strutturale o per divertissement, all’interno di una struttura sempre più trasmutante.
Quanto alla poesia visiva e al suo carattere espositivo, il messaggio sta proprio nel cogliere la differenza tra il segno verbale e l’oggetto ad esso collegato, a livello di semplice interposizione o sovrapposizione della parola-immagine, e che per Stelio Maria Martini corrisponde ad un innesto genetico, quando afferma che l’elemento visivo, a parità di diritti con quello verbale, va considerato complementare di questo perché rappresenta, meglio di quanto non farebbe mai la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente).
E’ evidente che il complesso lavoro di Stelio Maria Martini non consente in questa sede di relazionare ampiamente su tutto il suo iter culturale, trattandosi di uno dei pochi artisti italiani assieme ad Ugo Carrega, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti e Luciano Caruso, conosciuti anche all’estero per l’impegno e il fervore dimostrati nel campo progettuale ed estetico della poesia-visiva; cosicché, anche questa breve presentazione che gli abbiamo riservata, può dare solo un’idea della sua attività, tanto è vero che Egli stesso ci ha fatto pervenire altri aggiornamenti del suo lavoro con l’invio di tre nuovi libretti: Via nel Tempo, pubblicato da Il Laboratorio/Edizioni, Napoli, (1997); contenente otto poemi collages, quattro calligrammi, una traduzione, sette testi in versi, una sua nota, un disegno di Franco Cavallo, una poesia di Mariella Bettarini e un anagramma di Marisa Papa Ruggiero, Edizioni Morra, Napoli, 2001: Tigri e filtri, Edizioni Morra, Napoli, (2001): un nutrito pamphlet di scritti critici intorno alla pratica della scrittura, con diciannove tavole di Salvatore Cotugno e infine Forma sostanziale, con prefazione di Mario Lunetta, Edizioni Morra, (2002); dove Stelio Maria Martini si slega, ma non del tutto, dalle forme letterarie di Publilio Optaziano Porfirio, poeta e uomo politico, prefectus urbi nel 329 e nel 333, a cui si deve l’uso della poesia figurata, quella per la quale Ferdinand Kriwet così si esprime:” La lettura assimilativa dura poco, scivola via e avanti, preleva dal patrimonio linguistico del ricordo i particolari che non ha colto, è per lo più una lettura già informata e predilige scorrere il testo. La lettura appercettiva, invece è più approfondita, dura di più, talvolta dura poco, decifra segni su segni e complessi di segni, non le sfugge niente, sperimenta singoli grafemi, ordina successivamente i segni o i complessi di segni in una compiuta formulazione lessicale. I due procedimenti di lettura non sono determinati soltanto dalla struttura del testo, ma anche dal tipo di lettore; il lettore soggettivo legge in modo assimilativo, quello oggettivo in modo appercettivo”. (Franco Verdi in Quinta Generazione n. 24 anno IV n. 6, pagg.11,12, giugno 1976).
La terza sezione di Forma sostanziale s’intitola “Esicasmo”, e consta di sette poesie in endecasillabi. Certamente, l’antico Publilio Optaziano ha contagiato Stelio Maria Martini, anche se non è da dimenticare il fatto che alcuni tra i poeti più spericolatamente sperimentali dei nostri anni si sono misurati — per svuotarne l’ideologia totalizzante — con le forme chiuse della tradizione.
I testi martiniani sono eleganti e crudeli gemme d’amore, che più parlano del corpo amato più ne affermano l’assenza e l’inafferrabilità. (Mario Lunetta, Prefazione a Forma Sostanziale).
Con questi Esicasmi, Stelio Maria Martini torna ad un proprio spazio poetico di forte timbro evocativo, anche se i toni e gli echi confermano un gusto letterario vicino alla rappresentazione figurale della donna amata, che rivive in una struttura lirica molto simile ai documenti del dolce stil novo o delle rime di Dante; tanto perfetta è la simulazione temporale e spirituale, rapportata ai fatti e alle situazioni del presente, da mimetizzare, sotto il fascino sonoro dell’endecasillabo, la presenza di una Beatrice luminosa e contemporanea.

c O flauto in pugno della bianca donna
la cui anima attiri nella bocca,
ferisce l’aria quella tua colonna,
ma è lei che ti erge, è da lei che trabocca
il miele che si effonde e che s’indonna
quando il suo labbro cerca e infine tocca.
Se davvero io suggessi di quel miele
crederei spenta ogni fiamma crudele.

d Perch’io non spero di tornare mai
con te nella vettura sulla strada
mentre amorosa guidi e te ne stai
tutta in te sorridente ché ti aggrada
la tua persona mia, io penso ormai
che alla stessa distanza ora mi accada
di riguardare accanto a me trascorsa
la tua persona mia, te, allora accorsa.

Accanto a questi esiti d’àura duecentésca, si affiancano pentagrammi verbali come Rondò e Harlot’s House, inseriti in Via nel tempo,che restituiscono al significante frequenze di straordinaria musicalità: una vera e propria operazione di rientro nel cosiddetto dizionarietto dei termini tecnici da cui sono stati prelevati rime e timbri riconducibili ad una psicofonia dalle radici percussive.

Rondò

sparita col crepuscolo
da questa breve stanza
quella vana sembianza
che t’invitava a danza

sottile quell’invito
pensiero della sera
l’ago che t’ha ferito
nell’invitarti a danza
in sua vana sembianza

ma svaniva in parole
il fantasma che illuse
la mente che rifuse
questo rondò di sera
(dalla sezione Passo d’attesa di Via nel tempo,1997)

Harlot’s House

C’incamminammo a passo errante
per la lunare strada sognante
e finimmo davanti all’Harlot’s House.

Da dentro udimmo oltre il fracasso,
alto e distinto in mezzo al chiasso,
il Treus Liebes Herz di Strauss.

Come strani automi grotteschi
componevano fantastici arabeschi
ombre in moto di là da un paravento.

Vedevamo spettrali ballerini
muoversi a suon di corni e di violini:
un turbinìo di foglie nere al vento.

Come pupazzi comandati a fili
quei gracili scheletrici profili
saltellavano simili a birilli.

Si prendevano l’un l’altro per mano
ballando seriamente un ballo vano
tra sonore risate, grida e strilli.

Ora una bambola stringeva al petto
un fantoccio meccanico all’aspetto,
ora sembrava accennassero a un canto.

Ora invece un’orrenda marionetta
usciva a fumare una sua sigaretta
come se fosse viva per incanto.

Allora dissi rivolto al mio amore:
ballano i morti coi morti, è un orrore,
un vortice di polvere in caduta!

Ma lei sentiva il violino e lasciò,
lasciò il mio fianco sinistro ed entrò,
entrò il mio amore nella casa perduta.

Ed ecco di colpo quei suoni stonarono,
i ballerini il ballo arrestarono,
cessava con il valzer l’impostura.

E giù per la lunga, immobile strada
nell’alba grigia di fredda rugiada
un brivido corse di bimba in paura.
(da: Via nel tempo, 1997)

UGO PISCOPO

Il surrealismo rimane nel fascino di molti poeti uno dei tanti modi di automatizzare la scrittura del sogno, superando il realismo stesso nel momento in cui appare insignificante il razionalismo dell’arte borghese, a favore di un linguaggio derivante dall’inconscio, tra istintività e automatismo verbale, come quelli espressi da Ugo Piscopo (1934), e consequenziali di un Io, diviso tra mondo patriarcale e mondo contemporaneo, nell’addensarsi di esperienze esistenziali e private, e di realtà socio-ambientali, d’autentica connotazione meridionale, come in Catalepta (1963), con i suoi andirivieni ermetico-neorealistici, a più ripiani poetici e convergenze figurative, o in — e — (1968), “ che non è la vocale di Rimbaud…ma la congiunzione di interrelazione, il continuo inceppo di tante parole….comunque, sempre una descrizione, quasi una storiografia, ma alla maniera dei cronisti medievali che raccoglievano tanta roba”, pag.5: tutta una commistione di inserti plurilinguistici, sigle pubblicitarie, note contabili, minime citazioni, passaggi dialettali e stilemi vari che spianano la strada al volume Jetteratura, Lacaita, Manduria, 1984: un repertorio poetico caratterizzato da collages, brevi inserti da tabloids, forme verbali evolutive e iperesometriche; in un canto a tenuta poematica armonizzato da un poeta del Sud, che sente a modo suo e drammaticamente, l’insoluta problematica dell’essere tra coscienza ed evanescenza, tra mondo rurale e mondo industriale, dove si incastonano spazi figurativi e psicologici di schietta trasmissione reale e memoriale: “Più sicuro sarei dietro il tronco materno di un pioppo /con la polpa buona per la madia bianca per il pane / e con la corteccia spaziosa a culla o piroga / Più felice sarei che all’ombra screpolata di quest’olmo antico / fra questo spreco di ricordi di cieli lagunari thomasmanniani / dove teneri riccioli dell’ora d’opale si versavano in latte / sulla traccia bianca del mattino “ (pag.21).
L’occasione poetica è spesso densa di sollecitazioni culturali di fronte ad una società irretita dai messaggi della civiltà dei consumi. Da qui la co-gestione di progetti verbali che vanno a misurarsi in stili e tematiche diverse: formando un piccolo avamposto di scrittura realizzata secondo le suggestioni di linguaggi multiculturali: tra estratti di prosa dei fratelli Grimm e di G. Anders: un libro certamente non provvisorio per via di quell’accumulazione timbrica che si fonde nella giusta coesione del rapporto poemetto-prosa, dove spesso la parola è oggetto di accentuata polimetria, e di pura manipolazione lessicale (consonantica, allitterativa), in cui la memoria, che è la parte più vitale e meno disgregatrice, si dipana linguisticamente in una vivace successione del “pensiero parlato”, vicina a tratti, al dinamismo presqu’automatique surrealista. (Luigi Fontanella, Poesia a Napoli negli anni Sessanta. Una Campionatura, La poesia a Napoli 1940-1987, pag.170). In effetti, e soprattutto in Jetteratura, più che nel volume Catalepta e in quello dal titolo — e —, si condensano variazioni tematiche che spaziano lungo le strade della nostra civiltà, tra ironia e sarcasmo: un vero e proprio materiale di genetica letteraria, attraverso un discorso che rivisita luoghi e culture diverse messi sotto esame e criticamente relazionati.
Di diverso approdo semantico è il volume Quaderno a Ulpia (la ragazza in mantello di cane), Alfredo Guida Editore 2002, che sembra distendersi su piani formali meno complessi che si uniscono in un unico discorso memoriale per la morte di Ulpia, docile cagnetta che rappresenta per il poeta il tacito legame di complicità tra uomo e bestia nella “pena di vivere” (Gennaro Savarese, Prefazione al volume Ulpia).
“Mistero” e “grazia figurata” sono invece i termini di una crittografia vegetale riportati nel recente volume Haiku del loglio (Guida, 2003), nel quale il Piscopo riesce a creare un sorprendente erbario da cui ricava correlazioni verbali d’illuminante rifrazione.
La campionatura poetica che presentiamo, è apparsa su Secondo Tempo — Libro Tredicesimo – Marcus Edizioni, Napoli 2001, ritenendo i testi un ulteriore passo in avanti della variegata transizione linguistica di Piscopo, il quale recupera alcuni incipit a cadenza tradizionale come”Torna a fiorir la rosa o la favola della parola” o “Volge al fin la sera del dì di festa” incastonati in una struttura lirica, accanto ad altri esiti con i paesaggi, desolati e maledetti e i tratti verbali metaforici “Cane è questo vecchio Sud “Cane nero dentro il vento che scroscia la furia / al crocevia che porta a Crotone”, tutti grafitati come supplemento di lettura e di proiezione dell’esistente.
All’attività di poeta e di narratore, il Piscopo ha fatto seguire interessanti contributi di critica letteraria e d’arte con i volumi Alberto Savinio (1973),Vittorio Pica. La protoavanguardia in Italia (1982), Futuristi a Napoli. Una mappa da riconoscere (1983), Diego Valeri (1985), Massimo Bontempelli. Per una letteratura dalle pareti lisce, (2001).

Fughe e silenzi germina la parola

Torna a fiorir la rosa o la favola della parola
mattutino risveglio della sera strazia in rossi barbagli
roride ombre disegna d’acque e di trinati capelvenere
controluce sulla bianca redola educata tra le aiuole

Ma noi noi tu e io in avaria alla gialla deriva
ci sconnette e arretra e assenta fuori campo oltre la scena
ombre vane che siamo d’un incarnato d’echi
non si sa dove soli soli eravamo e senza

Smarrita la donna in sé s’acciambella e fugge
strappato alla grazia il garbo di luna degli occhi
tanto può bellor di rosa il tuffo d’un bouquet
che irrompe a la chiusa imposta con un ramicel di fiori

In villa al crocevia dove arsi silenzi controvento
si dissolvono come in specchi labili postille
e illuse orme simulano indizi tracce intrighi
un frullo d’ali di cristallo marezza luci decembrine. (1990)

Compagnonnage

Volge al fin la sera del dì di festa
più lunghe l’ombre più sfuggente il canto
ho preso campo anch’io in Piazza Grande
solitario compagno di tenda
d’argonauta intento allo specchio del sogno
se mai la curva lossodromica cambiasse segno

Per conto suo d’un altro montagne di parole
scavai che fiorissero atolli nei mari del Sud
doveva svegliare il cane che dorme nel cerchio del Silenzio
cacciare gazzelle di suoni manguste dell’ombra che danza
aveva scelto ai dadi d’essere uno
ora è solo uno che essere poteva

L’ho visto essiccarsi in vitro fluorilucente
farsi geometria di rughe nel vento del tempo
per lui bracciante invano fui e giornaliero
voce che invoca cava dagli abissi
eco che tonfa in miniere abbandonate
e mette in fuga sciami d’anime morte
con le pupille roche e sabbiose dei diseredati (1991)

Stazione di Dugenta

Sei scattata stoppino scazonte
a un supposto richiamo
alto sulle pozze di pioggia
della stazione di Dugenta
che suona di carta d’argento
a offrire a chi
lo scopino d’una zampetta rattratta

Partito il treno t’ho lasciata
musino puntato a indagare
se un filo passi nonostante tutto
invisibile di seta che sale (1998)

FRANCO CAPASSO

Nato ad Ottaviano (Napoli) nel 1935, Franco Capasso ha fatto parte della redazione di Pianura ed è stato redattore di Oltranza, diretta da Ciro Vitello. Già con Punto barometrico, Pianura/Itinerari, Ivrea 1976, e Germinario, Edizioni Altri Termini, Napoli, 1979, si chiariscono i termini di un discorso poetico esposto verso il negativo esistenziale, attraverso reperti testuali, febbrili ed epigrafici, che tolgono luce al mondo e inducono il poeta ad interrogare e ad interrogarsi sugli aspetti del vissuto tra scatti di memorie e “insolite cadute”: “Naturalmente si sparirà / Naturalmente si andrà via per le terre sommerse” e che sono momenti di amara saggezza della vita trasferiti nel volume Poesie del Fuoco, Marcus Edizioni 2000, le cui analisi psicologiche sono rivolte sul versante di una scrittura soggettiva, che si appropria dei temi dell’alienazione e della tortura quotidiana come l’espresse Baudelaire nella metafora dell’àlbatros, catturato che porta nella prigionia tra gli uomini un dolore d’esilio.
Non è certamente la lirica dei passi dolci quella di Capasso, perché le cadenze sono forti, e ricalcano i procedimenti di sedimentazione e di annullamento del proprio Io, e del senso più generale di una poetica tortuosa e autobiografica fatta da congestioni e cogestioni tutte fallimentari, da ossimori distruttivi, come acqua e fuoco, tempo e dolore, che si dicotomizzano in un rapporto lessicale, tutto orientato verso il racconto pluriprospettico e intersoggettivo, come dolorosa indagine estensiva sul mondo, che riconduce ogni scatto psicologico alle più sottili analisi critiche delle cose.
Ciò avviene quando sono decifrabili i dati d’interpretazione dell’esistenza e i segni del bene e del male all’interno di una solitudine privata, che scorre lungo le strade dell’anima, fino ad egemonizzare un linguaggio logico e drammaticamente inquietante.
Le interferenze esistenziali producono situazioni espressive irruvidite, quasi mai levigate da una visione serena. In questo caso, la scrittura diventa soggetto dei percorsi mentali, acida sigla dell’aridità poetica e spirituale, scontrosità relazionale, in un opus metricum di iterazioni ossessive, che riportano in superficie: voci, suoni, paure ataviche, cupe solitudini, insoliti avvitamenti psicologici sottoposti ad un isterismo linguistico, che avoca a sé stati crepuscolari e di angoscia. “Ne viene fuori, spesso potentemente, un personaggio che richiama l’accecamento medianico e notturno di Nerval e la deformazione abietta e lucidamente voyeuristica di un Bacon. Lo sperimentalismo di Capasso denuncia chiaramente, nel volume (Orme sul Lago Salato, Altri Termini, Napoli (1983) con prefazione di Dario Bellezza), la propria ineliminabile carica autolesionistica: una sorta di atteggiamento, unico in Italia, di espressionista che aggredisca soprattutto se stesso”.(Mario Lunetta: La poesia a Napoli (1940-1987, pag. 267).
Una poesia di questo genere si riflette inevitabilmente nel reportage onirico-esistenziale. E’ dunque questa la vera voce di Franco Capasso, che formalizza una propria dimensione poetica, puntualmente olocaustizzata dalla realtà e dalla presenza dell’uomo insalvabile. Così la poesia tende a isolarsi, a farsi come dice Lunetta, “tana”, luogo primario per riprendersi tutti i fossili psichici, come la nostalgia, per esempio, oppure la desolazione e il senso più triste del vivere silenzioso e in pena. E’ una poesia di disperazione esistenziale, del tragico della condizione umana (malattia, febbre,“male di vivere”) che possiede addirittura un rilievo biologico, corporeo. Patologico, se adoperiamo il termine scomponendolo nei suoi due elementi, pathos e logos. (Gianni Scalia – 4 poeti “Napoletani” negli anni Settanta: da La poesia a Napoli, (1940-1987) pagg. 234-235)-.
La poesia di Capasso rimane ancorata allo spirito del nostro tempo e all’ineludibile senso del taedium vitae, di fronte alle unità d’ispirazione sul tema del fuoco, simbolo di nascita e distruzione, ipnosi poetica e transfert psicanalitico all’interno di caverne impercorribili, dove tutto si carbonizza, e non v’è speranza alcuna di ricomporre la stella deturpata; altra metafora e segno figurativo delle tensioni psicoespressive che si agglutinano intorno a più figure simbolicamente distrutte dal mito dell’incendio (Marcello Carlino), superato il quale, il poeta prova a immettersi in una nuova identità, per riordinare le frammentazioni emotive, pervenendo con l’ultimo volume dal titolo Miraggi, Fermenti, 2003, ad un universo poetico, ancora più febbrile e pluricellulare.

Naturalmente si sparirà
Naturalmente si andrà via per le terre
sommerse
e il vento che soffierà
dietro il monte
Pianse di pianto dirotto
Il suo destino non conoscendo
Sapendo soltanto della sua morte
Scrisse il suo nome sull’arenaria
del Tempio
Poi raccolse tutte le foglie
che il vento aveva sospinto
fino all’argine del pianoro
così rosso
che non distinse
più il sole
che cadeva sulla piana
sconfinata come il mare sconfinato
(da:Poesie del fuoco, 2000)

****
Mi dissero del vento
Mi dissero della pioggia
Mi dissero del fuoco
Oh come è lucente la sera!
Una voce mi chiamava ed era il vento
Una voce mi chiamava ed era il fuoco
Una voce mi chiamava ed era la stella della sera
Oh com’erano lontane quelle voci!
Com’era vaga ed indistinta
la mia stella deturpata
(da: Poesie del fuoco, 2000)

****

Ora che non è possibile più partire
Che gli occhi hanno sguardi ciechi
Io non vivo così preso dalla vita:
banale forma non formata dall’andare
: un quieto farsi morire
– duro monito dei vinti!
La stanza chiude il mio sonno
La stanza tiene i miei battiti
: si apre un mattino gioioso
al mare corre
agli azzurri
ai rossi
ai blu perenni
: un sole niveo
un sole bianco
un sole
rosso
Oramai si confondono i miei colori
Si confondono le mie giornate
Mi sono fatto di neve
ed ho una lucida febbre
Ora non mi chiami più
Presso il bosco ho scelto il mio albero
Presso il mare ho scelto il mio colore
Randagio motore che và
Terra mia che non ti conosco
Amore mio che ti ho perduto
Voci più non ci sono
ed echi
e risonanze
Oh immagini mie che vi ho perdute!
(da: Miraggi, 2003)

CIRO VITIELLO

La poesia di Ciro Vitiello (1936) nasce in pieno clima di Letteratura del Rifiuto e di ciò che rimaneva della politica culturale post-sessantottesca, a cavallo del 1975, quando Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, pubblicavano la loro antologia Il Pubblico della poesia.
Poeta e critico ha dato alle stampe numerosi volumi di poesia: Corpor.azioni, Altri Termini, Napoli, (1975); Ciclica, Guida Editori, Napoli (1979), Apocalipse, quattro (1980); Cantico d’Erugo, (1980): Le resistenze (1983); Didimo, (1983); Suite (1984); Accensioni, (1991); Rapimenti, (1992); Il gioco degli errori, (1994; Baara (1995); Quisquis o delle solitudini (1996); Origini d’amore (2001); Il male sorgivo (2001); La tenue armonia, (2003); oltre a vari testi di narrativa e volumi di critica.
Sono queste le sequenze editoriali più rappresentative di un poeta che ha dato visibilità alla poesia in Campania, con una struttura operativa di forte vigore espressionistico.Vitiello ha operato sin dall’inizio nell’ambito di uno strutturalismo bio-psichico, commisurato alla forza degli elementi lessicali, con dei tabulati poetici innestati su stilemi produttori di stampi psicoespressivi, riflettenti gli esiti cicatriziali d’un Io pluriscisso e solitario, in cui confluiscono i frammenti del mondo e la percezione di un ineludibile nihil, prima figura originaria del nostro hic et nunc, quale risultato facciale dell’indagine perlustrativa.

Esce così allo scoperto con Corpor.azioni e Apocalipse, quattro, un profilo di poeta che si espone ad un linguaggio caratterizzato da continui avvitamenti logici in un nichilismo nicciano, come risposta all’incantabile canto della vita.
Quella di Ciro Vitiello è una poesia di latenti nevrosi, che si scaricano sul discorso poetico, tra metafore e addensamenti onirici, che si ricompongono in una identità verbo-psichica, che fa del vuoto di valori un “pieno” semantico, quale convergenza d’ironia, decorazione, stile del non stile, virtuosismo prosodico e psicologismo devastato, allettante concentrazione di tecniche per la composizione di un cosmos interamente poetico (Stefano Lanuzza su Apocalipse quattro; sintesi riportata da Mario Lunetta in La sfida al caos: la poesia a Napoli negli anni ottanta, La poesia a Napoli, (1940-1987, pag 275).
Le zone oscure sono attraversate da bagliori distruttivi e luciferini, da coreografie in bianco e nero, dove passano e si alternano personaggi, visioni, tragedie improvvise e paure profonde, e l’io, ormai svilito, stanco, si ripiega su sé, retrocede nella propria memoria, ed è assalito infine, nel tempo morto, da uno spaventoso dubbio, cosa sia oltre quel passaggio a livello, il baratro o la salvezza, così come emerge dai poemetti in prosa ne Il gioco degli errori- Il romanzo della ferita e delle solitudini-: un vero e proprio Cantico alla Morte più che all’Amore o alla Vita, di fronte a un mondo sul punto di collassare, dove il futuro non è mai calcolabile, necrotizzato dal dubbio con esplicite dichiarazioni “oh come precipita questo grattacielo di cristallo, e precipito verso il nulla di questa luna/ / che veleggia incontro al sole, che ritorna alla sua vela lungo l’asse / meridiano, sulla paludosa infinitudine, questo postremo crespo d’apocalisse /, io manico volgo in albero per altro mare /.
Questa tematica si slarga nel tempo man mano che l’excursus poetico s’inoltra e si aggroviglia nelle reti molecolari del nonsense delle cose, in cui tutto si perde nel freddo rapporto con l’esterno relazionato con una scrittura fortemente tensiva che si espone davanti al nulla e ad un ipotetico slancio di là dalle nebulose apparenze e sguardi oltre l’orizzonte.Non sono pochi i poeti che hanno sviluppato un discorso intorno al tema del viaggio della vita. In questa indagine non si sottrae Ciro Vitiello con i suoi scambi frequentissimi di visioni e soggetti di dispersione pulviscolare, nella continua ed ossessiva mortificazione della realtà, con una poesia noir, spietatamente sincera, che rasenta l’ipomania e la tendenza a desertificare il paesaggio esterno e quello mentale.
Ed è poesia che convoca una moltitudine di ricognizioni allucinanti, allegoricamente trasposte e correlate con il poeta stesso, tanto che corpo e anima si integrano e si perdono in un mondo larvale, di una vita-non vita, tra la dissezione del reale, e la metafora del vuoto, in cui tutto si riduce a mera illusorietà, nella progressiva distruzione dell’Io-astante.
La parola compressa dai circuiti psicologici, anche quando ha affrontato prove terribili, con tematiche universali, come la presenza della morte, torna a farsi scrittura amara e conflittuale di fronte alla realtà, indagata in ogni suo aspetto, mentre si formulano messaggi che ruotano intorno alla vita, per testarne il gioco dell’esistenza e dell’inesistenza.
Si veda, ad esempio, quello che riteniamo un caso esemplare di asincronismo e scissione verbale nel testo Sonata 21 (adagio),pag. 20, da Baara, che frantuma in balbuzie foniche un momento di autentica emozione di fronte ad un dramma familiare, che non esclude un’imitazione del pianto del poeta, attraverso il taglio delle vocali e il vuoto connesso alla frase dilacerata: (la mamà muore all’hòpital sul mar mo bian co / e le sue ma ni intri do no i rosa ri / gli occhi assorbono aperti la lu ce di di-o / e li vi do è il la bbro del morbo / La mamà parla l’inno cen za del dio mal-ce-la-to / “i-o n-e-l n-o-m-e del sem-pi-terno t’ho cu–lla-to / ho rett-o il can-dore con le mie ma-ni vo-ti-ve / con i pa-ni e i sa-li“i-o m-a-m-à c-a-r-a nel tra-collo di questa di-memsio-ne / ho bene fi-ca-to- e ann-ullato i con-fini che ci sepa-ra-no- / nel fuo-co immi-se-ri-t-o / ti por-to in me da tan-to / e obbi-di-sco a ogni tua in-tima vo-ce” (sei vocina / a imo di pre-ce-tti).
“La poesia diviene così dizione, apertura vocalica, teatro in cui i pensieri, rifatti carne e reinventati come personae, recitano il loro dramma per germinazione”. (G. B. Nazzaro in Dibattito col poeta, Ilitia, Edizioni 1997, pag. 96). Ma è anche lo stadio sedimentato della umana dispersione, locazione dell’egocidio, da parte del poeta, che in Quisquis o delle solitudini di Marcel Mahaut, Benolr Editeur, Paris (France), riesce a identificarsi in una proiezione psicanalitica nella dispersione degli elementi sensoriali e della rappresentazione dell’erranza. Meno vincolato ai ghirigori di un errabondaggio esistenziale è il volume Il male sorgivo: una sorta di Canzoniere collocato fra transiti di memoria guasta, arditezze festose, liquidità e trasparenze, voli e voci, nostalgie di purezze incontaminate e registrazioni di mutamenti regressivi, percorsi della mente e della psiche. (Luigi Reina, Prefazione), dopo le cupe analisi sul Mondo, che rimandano alle conclusioni inquietanti di un Holderlin e di un Kafka, di un Baudelaire e di un Eliot, in un notturno dominato dal fiore del Male o Baara, che preclude qualsiasi passaggio aurorale, per via degli stessi elementi logometaforici attestanti il tempo della fine e della perenne crisi dell’uomo.

****
frontale mi sei, sole, sulle facce ti spappoli, io inanello
la rosata sposa: da questa loggia l’aria spaziale mi origina,
tu mi schianti accogliendomi tra le tue braccia:
mentre la sosta dura, la lingua si corrode, formiche vanno
senza coesione sul selciato, già l’ultima ombra mi copre:
il moto è muto né alcun battito di fiore s’ode:
dardo di pipistrello acceca voluttà e viso, e migrare
in terra estranea non più sana: cenere, mi smarrisco
tra chele, qui l’indifferenza è malanno.
(da: Apocalipse, quattro, 1980)

Interrogo il dubbioso

Stasera ci associano le trepide favelle,
tra poco, nell’arcobaleno, tu madre, raccogli giacinti
al tuo sposo gioioso. Solo, io al tuo cospetto ramo
e fuoco mi trovo, rammemoro “ho vissuto
per sostenerti”. Interrogo il dubbioso enigma
della favola che spicca al gelo del cuore:
nel nostro giardino la luce è vuota e i mattoni
della maestosa loggia splendono al sole,
anima mia allucinata.
(da: Accensioni, 1991)

****
oh calda casa, mia contezza e ancora speranza, pudica casa, con le
sedie a forma, il mio corpo è integrato alle forme, vivo nel traman-
do come un fossile o un’anforetta nella teca d’un museo, rorida-
mente, mentre non più torna dedalo non più sorge ulisse, ma
discendo in bici per piazza Santa Croce verso il mare, il porto,
sotto le maestose mura del palazzo fortino, perché mi soffii sul
viso così peregrino, vento, d’una sera mortale, densa di mesta acre-
dine, sul mio deperito abbandono, nell’attesa d’un tempo morto.
M’aspetto dal balcone o dalla finestra, tornare e dove e quando.
(da: Il gioco degli errori- Il romanzo della ferita e delle solitudini, 1994)

ALESSANDRO CARANDENTE

A indirizzarsi verso una poesia aperta a varie soluzioni formali e lessicali, pur restando nell’ambito di un dire perfettamente vigile e controllato, con qualche eccezione nell’uso ludico del significante, visto più come pausa distensiva della propria scrittura in versi, che come vera e propria acquisizione dello sperimentalismo asintattico e asemantico, è Alessandro Carandente (1958), autore di diverse raccolte di poesie; operatore culturale, direttore della rivista Secondo Tempo, traduttore dal francese di A la lisiére du temps (Al limite del tempo) di Claude Roy.
Già con la prima opera: Passo vegliante del 1982, ci sono modanature stilistiche che affrontano temi e miti sorretti da brevi supporti verbali tendenti a ripristinare la figura del significante nelle sue diverse metamorfosi.
Pensiero e forma poetica si restringono in soluzioni dichiarative come sintesi della realtà, accentuando le impennate logiche sul terreno dell’esistente. Il frammento e la misura breve del verso accentuano l’esposizione verbale fatta d’illuminante assimilazione: “In questa strada si perde la memoria / si può solo scavare profondo nell’azzurro / scolpire nella voce il moto parlante del respiro / e ascoltarne il suono intrecciato cadere /”.
Carandente “Sin dall’esordio si è connotato per la tecnica scaltrita e la consapevolezza teorica del fare poesia. Sotto l’apparente patina di lacca lirica c’è la riflessione critica e il momento speculativo del linguaggio che s’interrogano senza sosta sul proprio fare poetico. L’esplosione ritmica è frenata dalla pausa riflessiva, dalla tensione del dire. Lungi dal consegnarsi ingenuamente alla positività dei significati in atto, avanza là dove non si può più andare, in quella terra incognita dove il senza nome muove relazioni per esistere.A partire da Ecrivoci, Extravaganze, screzi d’alfabeto, Il supplente e Bon ton bonsai bonbon, invece, il linguaggio ha invertito bruscamente la rotta, dall’azzeramento ha viaggiato verso l’esterno con cui non ha mai smesso di dialogare, in euforica contaminazione, e di reagire all’alienazione consumistica in atto col giuoco traslativo e la freschezza del paradosso dell’evidenza”.Questa sintesi critica, così esplicita nella esposizione, la troviamo in una nota bio-bibliografica, come guida alla lettura della poesia di Carandente. Infatti, Egli avanza là dove non si può più andare e pone già un problema di fattibilità della poesia, quando gli stilemi e la forza espressiva del dire si riducono o si annullano in un oltre letterario cui è impossibile superare. Allora la struttura del testo viene riomologata e asseverata ad una forma di scrittura, quella per la quale il poeta stesso muove nuove relazioni per esistere con la parola, aggraziata da effetti surreali. Resta difficile, in questo caso, conciliare verbo ed emozioni, anche perché l’idea di poesia si restringe in imprevedibili passaggi verso plurime oggettivazioni portate tutte sul versante dell’essenzialità come ad esempio in Passo Vegliante che si connota soprattutto come resistenza al sentimento, conducendoci verso una lirica sassosa e geologica, centro del mondo e della fisicità delle cose, presenti anche nel volume Corpo in vista dove circolano rapidi ecogrammi del subconscio, scatti umorali, frantumi della realtà e accenni psicoesistenziali, nell’innesto delle metafore e delle analogie, collocate nella più completa eterogeneità del significante completamente disaulicizzato. Sono questi i paradigmi operativi con i quali il Carandente realizza una propria scrittura fino ad approdare, ad una materia poetica da scarnire e scandagliare. Altro non è possibile perché la lingua fa le fusa, glossa in esclamazioni, vezzeggia il protoritmo; svanisce l’utopia di intrappolare il mondo in regole grammaticali (1): si dileggia nel divertissement come nell’ultima sezione Arzilli Mirtilli del volume Corpo in vista, Ilitia Edizioni (1995), dove la propensione allo sperimentalismo crea specchi di rifrazione e di congiunzione con le tecniche citazioniste, fino alla creazione del suono onomatopeico associativo, di uguale misura e intensità, come dissoluzione e celebrazione della parola-guida, produttrice dell’effetto fonico a sorpresa, ancora meglio rilevabili nel recente volumetto Bon Ton Bonsai Bonbon, Marcus Edizioni, Napoli, 2001, che è un euforico nonsense, un piacere puro in punta di lingua, affidati alla rotazione avvolgente di una ricorsività ritornellante con relativo aggancio interno allitterante, come si evince in quarta di copertina. Nella poesia di Carandente ci sono parole, c’è il senso, c’è un flusso continuo di immagini sorprendentemente teso, drammatico, acceso, che va oltre il gioco della ricerca analogica (…). Una poesia siffatta non può prescindere dalla negazione che si estrinseca nell’ironia. (G. Battista Nazzaro)
(1) nota introduttiva del Carandente nella sezione Arzilli Mirtilli di Corpo in vista.

le api ronzano con voce luminosa
(avidità di volo per aria incendiata)
s’incurva l’alito in un’azzurra abitudine
e il corpo irradia immagini incarnate
oh tenerezza indifesa del rossore!
entro nei tuoi occhi per la tua bocca
guizza un sorriso gonfiato d’amore
(mutevole onda che al richiamo s’interna)
sbocciano baci brillano i riflessi
palpito in ascolto affonda e si rischiara
pensiero e nudità alfine corrono paralleli
agile trasparenza abbaglia oltre la menzogna
(da: Corpo in vista, 1995)

****
i gusci d’amore
hanno ombre di sale e suoni di morte
nominati e dispersi in mutevoli pieghe
sono pietre che vanno in rovina
e ritornano torri
appena la bocca infuria e la ventata incendia
sono nomi che affondano
che migrano per rinascere ancora

****
entra la notte con il suo passo di notte
rimembranze latenze accattivanze rinascenze
irrecensito il dentro si allarma
baratro terrestre inauditamente inedito!
arsura plurale! l’ora verticale precipita
quest’acqua che mi sospende
quest’acqua è tutta una sospensione!
all’imbrunire impaurisce abbuia raggelata
la notte imbavagliata tacita d’amarezza
impallidita agonizza lungo lo scoramento
(da: Corpo in vista, 1995)

TOMMASO OTTONIERI

La poesia di ricerca in Italia trova in Tommaso Ottonieri (Avezzano 1958), uno dei più tenaci sperimentatori della cellula linguistica, quale corpo e materia informe e struttura a finale, finalele, ica sperimentatori della cellula linguistica che alla fine diventa corpo, materia in-forme, atipica, nel connubio interfacciale tra prosa e poesia.
Il materiale a disposizione è molteplice, considerato anche il campo di lavoro nel quale opera l’Ottonieri; tra riciclaggi letterari, permutazioni, interferenze e trapianti verbali: un glossario a tutto spiano, di manipolazioni etimologiche, con innesti citazionali, gestiti come reagenti in una struttura linguistica che accede e sprofonda in un mix di barocchismo pirografico di quantità e qualità estreme, fatte di verboritmi e di concatenazione di modelli operativi o di prototipi della forma. Un lavoro di proposizione e oscurità, d’anarchia e ribellione è alla base della tensione linguistica di tipo autre da parte di Ottonieri. Si vedano, ad esempio, i transiti caotici e allitterativi in Due brindisi a Eufrosina da Contatto, Cronopio, Napoli, 2002, pag. 119, dove le cadenze onomatopeiche e le assonanze producono un insieme di artificiosa ricerca del significante, minuziosamente cadenzato nella rima: “Eufrosina, s’affina, rosina, topina, s’inchina, m’inchino / la froge per foga si frolla ti frulla ti fruga la falla- / ti frulla alla polla -, oppure le designificazioni e l’agrammatismo in Ipertrofica In Explicit, pag.111 e in Lipotronica remix, pag.112, che rivelano una metamorfosi linguistica verso un nuovo scambio delle radici etimologiche: “Io da grandie, vivriò nèle groenlandie. gGià deciso. Lì almèno glaccio, lì almeno ri fioriscon cavolfiori” /. L’ipotesi più ragionevole che si possa trarre da queste formulazioni letterarie è che esse simulino attraverso un passaggio bio-psichico un extra-linguismo paragonabile a quello di Jabberwocky di Lewis Carroll, come forma di una lingua ipotetica e inesistente. Queste proposizioni linguistiche restano plausibili soltanto se si accetta la lettura come una variabile di quella canonica e ufficiale.Già Antonin Artaud fece qualcosa di questo genere, con le sue poesie inventate avvicinandoci ad un mondo fonetico e parossistico, mentre Gilles Deleuze in La logique du sense, ha giustamente spiegato che questo tipo di linguaggio è diventato uno dei modi più efficienti per poter pensare-sentire il mondo contemporaneo.L’informazione poetica è destrutturata nel caos dell’arbitrio fonolessicale, all’interno di un linguaggio automatico e simbiotico, dove il testo è corpo mutevole del sistema verbale, fino a ipertrofizzare memoria e lingua e ad innestare aggiunte prosastiche e ipoliriche. Il risultato è un ostico avvicinamento alla plasticità della lingua. Si tratta, più in specifico, di un linguaggio “intermediale” che “su una miscela verboacustica intensamente espressionistica stipa attriti e interferenze, in uno spazio in cui convivono frantumati, pubblico e privato, commistioni di pronunce e tradizioni” (Niva Lorenzini: La poesia italiana del Novecento. Il Mulino 2000). Del tutto proteiforme a noi sembra il carattere inventivo-culturale che si espone in più sfaccettature ricomprese in un discorso, che contamina e riprogetta continuamente la parola, verificandone la resistenza nel labirinto dei significanti: da qui gli innumerevoli contatti e prelievi citazionali. Già nella sua prima opera Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, Feltrinelli, 1980, emerge un catalogo di lessicofonìa sperimentale che pone le basi verso prove linguistiche di diverso campo semiologico. Basti pensare ad Elegia sanremese, Bompiani, 1998, nella quale l’Ottonieri ricorre al supporto sonoro del CD, per fare interagire diversi sistemi artistici, o alla miscidanza di lingua e dialetto, una lingua spesso quasi afasica…ottenuta riciclando scarti di prodotti, parodiando merci, eventi mediali, ariette di canzoni (Tommaso Lisa),
Ma di fronte a tanto sperimentalismo, Ottonieri sa anche abbassare i toni e nella sezione Il Soffio della Terra pp.78-79, il tecnicismo linguistico si raffredda in un mite e doloroso sentimento di fronte alla Morte che materializza nella terra, corpo e sangue, occhi e storia umana, come un lievito che si gonfia giorno dopo giorno, e che pure lascia nei sopravvissuti le inestinguibili radici della memoria.

Ipertrofica In Explicit

(78 incipit, versione)

Io da grandie vivriò nèle groenlandie. gGià deciso. Lì almèno glac-
cio, lì almeno ri fioriscon cavolfiori. Già deciso, eh?! E poi crèsco. mi
allattan le rènne, ciuccettine, rosette bèle, cavalch’ò ri cagni, lì almen
crèsse la lunda, ‘ l sòl, e poi, la motte. ‘Uciè motte, lì, e tutto giorro, mi
nutriscan le rènne, le àlci dòlci, gioco e pattino, vivio negl’iglù co-
m’un indù, scivolo sull’acca, mi gèlo ‘r cùlo, e vi pàttino.

(atropina remix)

Io se grundie, vivriò ne le groenlundie
Lò deciso.
Lì al meno è glasso, lì si spunta cavol da’ fiorde.
E poi, ci cresco.
Ghiaccio cristallo.
Scola de ll’Occhio.
Sempre plù grundie, ‘scresce.
Lì, milùccica le gémme, una per una, di granchie, e lechele.
Che mi ci accuccio, alle fanghe, atropa alla pupilla, il soffio de
lli aracni.
Lì al meno o vunque mi slunga.
E Lùnda spegne e ‘l Sòl, ed e la Motte.
Tutta Mòtte, sì, e bujo a il giòrro, si smungano i licheni a mè
le fèlci dòlci, a goccie, mentre che di lato.
Che slitto da ll’iglù com’un’indù.
Che zombo de ll’acca glassa tutto blù, e glaccio e l’occhio, la
Landa, si scivola, si e spa nsa.

(lipotronica remix)

io da grundie. Vivrio né le groenlùndie. Ci ò reciso. Lì allora
è glasso, lì ci si schiattano cavoli a spore, biliardi di bilioni, lì
apriscatola di crome, cerèbri lichenano ri cloni – o campi mi-
nanti o vunque da’ pop’corni, cio è microesplosi intorno, a
schiuma, o sia glacianti nanofiori — che verminata delle gore
solo la glassa sbolle a la brughiera;

qui a sperdita d’occhio rivalvolato e accrescendo, io, e più in-
terposto allora al mio segnale — sulla punta della testa, op-
presso il radar di contro al cielo, comprimente alle sue volte
imperforabili,

m’irradii,

qui ora immensurato al bulbo, che mi dilata, atropa, lichene:
e ferma d’orbita la lacrima, slitti giù a piombo il plastico di
me, non più di una goccia a espàrgersi m’è dolce in fondo al
gelo tenax:

il cristallino tremulo, grasso sospeso in ghiaccio, la landa tor-
pida lievita, battito di ciglia, il detonare, rallentatissimo, in
tracimar, la broda

Il Soffio della terra

Sono nella terra, solo. Tutt’intorno, zolle rivoltate, terreni
coltivati a patate, e la raccolta detto fatto, e via. Tutto quello
che non si vede, stando nella terra. E il ventare discontinuo
d’un’autostrada semiabbandonata, lassù, che se ci passa un
autotreno sul cavalcavia vibra, gonfia le ossa, le stritola, Io
sento: Terrapieni, dalla piana, e il gettito d’asfalto lungo fino
all’Adriatico, che io non posso vedere e che sento. Vibrato…
nella terra…. dove sciogliendosi giorno su giorno….No, que-
sta è la terra, questi sono gli occhi, occhi su occhi, occhi nel-
la terra. Dove colliquandosi a nutrirla….Vedo la pianta non la
vedo che si gonfia, giorno su giorno, succhia via…..scioglien-
dosi….e si fa grassa e soffia. E’ la mia terra.

E’ la tua terra. Vedo i tuoi occhi nella terra. Vedo le mani……
sprofondano in liquami…..occhi spenti, terra spenta, si gon-
fia, tua. I canali che convogliano nella spianata quello che la
gonfia e la fa forte, le strade diritte si secheranno a 90° rico-
noscenti, ancora, auff, ancora, file d’alberi chinandosi, si pi-
gliano la pappa, salutano, frusciano, arrivano dove sei tu,
non ti preoccupare.

Immobile. Una maledizione ti dico. Questo piantare le radi-
ci e la radice sei tu, in questa terra inesistente, stare nella ter-
ra e la terra sei tu, proprio tu, inesistente, ah! — un metro e
poco più di terra su di sé ed è tutta un’altra storia. Niente da
ridere. Tutto filtra, tutto cresce. Si pianta, sono le radici,
niente da ridere, filamentoso, qualcosa che mi pianta quas-
sotto, che mica lo estirperesti, fa freddo. Dio, i miei pensieri
qui a sciogliersi nella distesa di patate….E la nutrono, amo-
revoli, distesa, l’infinità dei campi, che mi gonfia non lo ve-
dono i miei occhi….Nella mia terra.

Dentro la terra. Occhi spaziano. Spenti spaziano, spenta ter-
ra, la tua.

Un fazzoletto di terra dove sognare, e già che sogno. Spen-
to, liquido, non qui, non altrove. Dove te ne vai ragazzo?
Perché non qui a mandarmi il tuo calore? Corpo vivo sulla
terra morta. Quaggiù, con qualche buona spanna di terra so-
pra gli occhi….respiro…questo disciogliersi….qualcosa bat-
te….più niente. Il freddo che fermenta dagli alluci in su, stan-
do nella terra, la mia terra. Dimmi ci pensi? Dissipando le
sostanze negli umori della piana….
(da: Contatto, 2002)

LA POESIA FEMMINILE
(Introduzione)

La poesia femminile a Napoli si è venuta a determinare solo nell’ultimo scorcio del secondo Novecento, con opere di diverso spessore e qualità, anche se i nomi che faremo sono soltanto indicativi di un diverso modo di scrivere versi da parte di Lucia Bruno, Nora Catalano, Carmina Esposito, Rina Li Vigni Galli, Irene Maria Malecore, Wanda Marasco, Marisa Papa Ruggiero, Anna Santoro, Pina Lamberti Sorrentino, Miryam Urga, ecc.
E’una campionatura abbastanza rappresentativa ed anche incompleta, se consideriamo che nel frattempo altre voci si sono venute ad aggiungere, ampliando il quadro già folto della poesia femminile a Napoli, tra forme sperimentali e forme che si caratterizzano attraverso una polifonia tematica fatta di giunture correlate alla memoria e alla breve illusione dell’esistere rilanciate dalle esternazioni-confessioni, che superano, a volte, il livello della fragilità sentimentale e della comunicazione impoetica, specie quando il discorso ristagna nel soggettivismo narcisistico, o si chiude dentro atmosfere intimistico-religiose, vissute nella solitudine periferica o nel caos urbano, con qualche tentativo di rimozione del linguaggio lirico, scaltrito da letture più o meno à la page. Il punto di forza di questa poesia è nella rifrazione della soggettività, quando non devia nelle tristezze crepuscolari e nel neoromanticismo. Non sono molti i casi di rispettosa segnalazione e d’engagement con l’immaginario rivolto alla dialettica strutturalistica di un Io compresso dal vissuto e integrato nella referenzialità linguistica.
Le occasioni poetiche sono riportate con un linguaggio di forte carica espressiva; come esposizione delle etimologie spirituali che si annidano nelle faglie dell’anima. Si potrebbe dire che fare i conti con la poesia al femminile a Napoli è oggi fin troppo facile per l’assoluta mancanza di spinte ideologiche e scissioniste, che fecero negli anni Settanta-Ottanta, un movimento culturale di assoluta visibilità e tendenza riformatrice, con nomi che ancora oggi restano impressi nella memoria come quelli di Mariella Bettarini, Serena Caramitti, Patrizia Cavalli, Annalisa Cima, Rosita Copioli, Giulia Niccolai.
La via poetica non è che sia poi così larga e lunga da percorrerla agiatamente, per le complesse tematiche quasi sempre di prelievo autobiografico, con qualche caso isolato di poesia impudica, che diventa momento impoetico di uno schema erotico, violento e provocatorio, molto lontano dagli epigrammi dell’Antologia Palatina. e dalle liriche di Bataille. Ci riferiamo ai testi di Wanda Marasco, in particolare, quelli apparsi in L’attrito degli specchi e in Deus inversus. Nella più recente produzione poetica, la Marasco indaga sui gironi della vita con un linguaggio rivolto ai fatti accaduti, in cui il senso del tempo non si separa dalla storia privata, semmai lo brutalizza in un confronto con un indivisibile — tu – , protetto da una parola fasciata di ricordi e adeguata alle circostanze del reale, con scambi di notizie, paure insostenibili, portate in superficie dalle crepe della mente e del subconscio, come in Metacarne, che si collega a tante microstorie tra prosa e poesia, portate avanti da una coscienza frustrata e infelice. Così accanto a tratti gnomici o lirico-narrativi, troviamo anche la poesia in forma di prosa, epigrammi e calembours, nuove germinazioni e vecchie restaurazioni. Comunque la si definisca si tratta sempre di poesia che ripropone il mondo psicoculturale della donna verso imprevedibili significati abbastanza percepibili come operazione di trasmissione del sentimento, con le figure metaforiche ed epifonemiche all’interno di un chiuso parlare soggettivo.
Dal folto casellario della poesia femminile napoletana, abbiamo ritenuto utile soffermarci sui nomi di Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli. Si tratta di due mondi poetici che ricalcano i labirinti della mente e le vie del subconscio nell’eleganza del ricordo che recupera così figure e luoghi mitici, orizzonti chiari e ottenebrati, che si pongono di fronte al nulla e al brivido algido del tempo.

IRENE MARIA MALECORE

Un lungo impegno culturale e poetico è quello di Irene Maria Malecore, nata a Lecce nel 1915. Insigne studiosa di etnografia, ha pubblicato importanti studi sulle tradizioni popolari italiane, in particolare del Salento, sulle principali riviste del settore e portati dall’Autrice in numerosi convegni internazionali. Ha al suo attivo sei libri di poesie: Il grano già suona, Rebellato, Padova, 1960; Le quattro porte, Guanda, Parma, 1965; La cabala, Pan, Milano, 1972; Il punto unico, Rebellato, Quarto D’Altino (VE), 1978; Altro luogo altro tempo, Laterza, Bari 1981; La nostra dimora, Edizioni del Leone, Spinea (VE), 1993.
La sua poesia pur attraversando stagioni letterarie diverse è rimasta fedele ad un linguaggio privo di metamorfosi sperimentale.
Ciò ha determinato un raro esempio di estetismo monolessicale che si avvale di mezzi espressivi espletati nella semplicità e nell’essenzialità del tratto ritmico-immaginativo. Il Meridione è tracciato nelle sue linee principali che sono poi gli aspetti peculiari di un mondo e di una cultura visti nell’abbaglio fotografico di una comunità e di singoli soggetti. A volte la rappresentazione esterna avviene attraverso movimenti e gestualità di forte preziosità espositiva: “E in autunno cantano le donne / curve a raccogliere le ulive / rosario di lunghi giorni faticosi / storie di antichi tempi ininterrotte /, pag, 50 di La cabala. Ai paesaggi aridi si sovrappongono quelli interni e più cupi dell’esistenza, in una poetica pensosa che emerge dal flusso dinamico della parola, che si scompone e ricompone nella biografia dell’anima e nella dimensione pluriprospettica della realtà. Da qui l’accesso ad alcune occasioni poetiche che portano la Malecore a identificarsi con l’ambiente esterno, traendo similitudini e ipotiposi, ricondotte sul filo dell’immagine oggettiva, quasi sempre fissata sul tema dello sradicamento dalla propria terra, come momento traumatico e mitopoietico. Questo procedere per racconti intersoggettivi, crea tutta una serie di rapporti d’identificazione e di annullamento con la natura, vista come madre-morte.
Né mancano esempi repertati nel volume Il punto unico, dove entra in gioco il transfert emotivo e coscienziale: “Voglio morire nella mia terra / scendere nel cuore delle pietre / farmi erba e lombrico / calda zolla che si apre al germe / fiore purpureo di melograno…farmi polvere argentea sulle strade assolate. / “ Non c’è dubbio che questo sentimento di trasmutazione sia stato nella poesia soprattutto neorealista, uno dei temi dominanti e che la Malecore ne acquisisce in tal senso, forma e contenuto, con cadenze psicoemotive ad effetto figurativo. L’adesione ad un ambiente originario diventa linguistica del passato, ripiegamento interiore, approccio ad una vita naturale dalla quale non pochi sono i segni d’interconnessione. Nascono così gli erbari e una fitta botanica di melograni, garofani rossi, gelsomini, cespugli, petali d’arancio bianchi, eucalipti, fili d’erba e papaveri: tutti elementi di una geografia territoriale, solare e meridionale; quella per la quale la Malecore ha inteso liricizzare ed esternare come simboli del proprio tempo e della propria vita.
Il calendario poetico mette allo scoperto luoghi, figure e volti indimenticabili: come le tombe di cemento, i campanili di pietra tornita, e i paesi dove i bambini non muoiono/ ma si arrampicano alle colonne delle chiese / a reggere serti di fiori. Sono questi i caratteri iconici ed etnici di una poesia che rimane essenzialmente documento e sintesi di un mondo segnato da speranze e delusioni, con variazioni tematiche che evidenziano rapporti interattivi con una simbologia non solo sociale ma anche privata, portata a realizzarsi in un unico canto poetico, singolarmente distensivo, colloquiale, aggraziato nelle forme e nelle lampeggianti tracce di una malinconia dolente e disincantata.
Certamente l’ambiente lucano, con le sue tradizioni e con il suo folklore, ha determinato nella Malecore una compattezza poetica di rara misura e profondità, dove la rappresentazione si riappropria di tutti i siti produttori di memoria e di fantasia. Il risultato finale è la convergenza verso le immagini-racconto che s’identificano in un Io oscillante tra l’ambiente periferico e quello urbano. In questa scansione opera su un unico piano il dato reale, che finisce col determinare una poesia di forte evocazione epica. Ne scaturisce una lirica corale e insieme individualissima, nella quale rivivono, fuse in un impasto inestricabile, favole d’anime e di pietre, di piante e di astri, di desolate solitudini e un amore alla vita disperatissimo.(Nota introduttiva al volume: Il punto unico).
La poesia della Malecore, ha scritto Luigi Fontanella, fin dalla sua nascita, agli inizi degli anni Sessanta, apparve molto legata alla terra d’origine, con “segni d’affezione” e topoi indigeni obbligati…. Il suo è stato dunque un attaccamento fisico e intellettuale completo alle sue “case bianche di calce” ai “giardini cinti d’aranci” al “sole che brucia anche di notte”, in un fitto elenco di elementi minimi, tra memoria e natura, fino ad estetizzare un mondo periferico e favoloso.

Pietre

Pietre, pietre,
pietre antiche, pietre nuove
ossa di cavalli marini
teste di eroi e di zappaterra,
occhi vuoti che guardano
seni pietrificati di madri
latte, patina bianca sulle rocce,
e il fondo vivere delle viscere della terra,
con i morti, con i vivi,
con l’erba che spunta
al primo albore di ogni primavera
e la terra che chiama
alta, perentoria,
il ritorno al suo grembo,
la nascita dal suo ventre immenso,
e spinge e richiama
sputa e ingoia
immutabile si veste di rosolacci e di frumento
e stritola e frantuma
uomini, genti, stirpi
ma in essi ritorna sempre rinnovata.

Ecco, mille volti di padri mi guardano
con occhi di pietra
e sento le loro voci
nell’aria, nella terra
nelle paludi azzurre
nelle notti silenziose
quando la luna getta ombre nere
sotto le chiome degli ulivi
e le strade sono abbaglianti di polvere
e la menta ha un odore intenso
che ritrovo nel mio sangue
e l’Adriatico mi canta nelle vene
come nessun altro mare.
Mani di terra mi portano
nella pianura afosa
dita di tralci mi legano,
foglioline di ruchetta
sulle mie tempie affocate,
i silenzi assorti ridicono parole di secoli
dai balconcini di ferro sulle piazzuole mute.
Pietre di oggi, di ieri,
volti degli avi,
volti di me,
sconosciuti e cari.
(da: La cabala, 1972)

Un paese meraviglioso

C’è un paese meraviglioso
dove i bambini
non muoiono
si arrampicano alle colonne delle chiese
e reggono serti di fiori.
Qualche uccello ha seguito il loro esempio
e a coppia si baciano
sono frutti di melograno.

Gli adulti non li invidiano
ma di tanto in tanto
entrano nelle chiese
per ricordare l’infanzia.
(da: Il punto unico, 1978)

L’ombelico del mondo

Se cerco l’ombelico del mondo
che mi ha spinta sulla terra
magma di amore e di dolore
azzurri cieli e notti di pece
involucro tenero di mandorla
amare foglie di pietra
nello spazio dilatato della memoria
folto di taciti bisbigli,
mura di luce accecante
s’innalzano invisibili.
E’ la piccola casa solitaria
che porte d’oro chiudono
in cui presenze intatte
risplendono di vita incorrotta.
Il giorno si apre
specchio di luce
sui gesti quotidiani
e le finestre a oriente
palpitano di ali purpuree
ride la madre
il suo riso breve
tende le piccole mani al padre
ai suoi azzurri occhi severi.
Voci glaciate nelle stanze
evocano il tempo
se io varco il cerchio del silenzio.
E a sera, quando i comignoli diventano viola
e la bouganville si annerisce sul muro
ascolto il frusciare dell’acqua sulle piante
e il taglio secco delle cesoie tra i roseti
fazzoletti turchesi
distesi tra le aiuole
mandano alterni barbagli;
torna viva l’angoscia dei pensieri.
E qui torno per lunghe strade di sasso
dal chiuso di una prigione
dove il pane e l’acqua d’amore
sono avare elemosine
e qui l’ombelico del mondo
mi risucchia alla terra.
(da: Il punto unico, 1978)

RINA LI VIGNI GALLI

Nata a Torre del Greco (Napoli) nel 1932 è autrice di tre volumi di poesie: Contro lo specchio freddo Ed. S.E.N. Napoli 1979; Dettati d’aria, Ed. S.E.N. Napoli, 1986; Le parole mansuete, Campanotto Editore, Udine, 1991.La sua prima prova poetica si evidenzia attraverso un linguaggio che sorprende per l’insieme di rapporti assimilativi circoscritti nei limiti di una controllata e vigile enunciazione dei fatti, sapientemente modulati da un sentimento che richiama in superficie la voce di un canto sobrio e canonico nella forma; ma abbastanza mobile nei codici esistenziali trasmessi da una poesia, come ha affermato Massimo Grillandi “abbastanza bene istituita, centrata su un orchestrato giro di varie disposizioni e disponibilità, con una alternanza piacevole di temi, di problematiche, di fasi”. (dalla Prefazione a Contro lo specchio freddo, S.E.N., 1979).
L’humus poetico di Rina Li Vigni Galli si adagia su strutture neoermetiche, per meglio esporre la misura del dire ad una condizione di scatto espressivo :perché nessuna parola, nessun verso è mandato avanti a tenere il posto di qualche cosa (Giuliano Gramigna, prefazione a Dettati d’aria).
Dal presente e dal passato provengono i substrati psicologici e il rapporto con l’esterno, tra passaggi brevi e intuizioni illuminanti. Ed è sempre poesia rivolta alla dialettica spazio-tempo, alle pieghe interne delle proprie emozioni, che assumono luoghi lirici autonomi, dove si viene a collocare la parola che non conosce altre mutazioni se non quelle che rendono più rapido il rapporto con la grazia espressiva.
Sono versi dove c’è il parlato quotidiano, ma ci sono anche le domande, le aperture dialogiche, i pensieri nel turbine celeste, che diventano ipotesi e scommesse sulla vita; per sondare, altri spazi, altri blocchi di tempi sperimentati nel giro dell’esistenza. Sono questi, gli aspetti di una poesia non compromessa con la melopèa amorosa, il che rende il rapporto comunicativo più orientato verso temi di solare regionalismo e di proiezione psicanalitica, che di obbligato return al catalogo degli eventi sentimentali e retrodatati. Con l’ultimo volume: Le parole mansuete, la Li Vigni Galli ci introduce in una specie di milieu privato, tra anafore e metafore; per riportarsi subito dopo, in un colloquio introgeologico col proprio Io, conflittuale e ricomposto in una dimensione neoromantica, attraverso un parlare chiaro ed onesto, di meraviglia delle cose e del mondo; non importa se tutto questo poi, sia trascritto con delicato pudore di riconciliazione femminile: / Per un momento, mio / io — altro guardingo / di sotto le coperte / deponiamo le facili / controversie, stiamocene stretti / stretti a guardare il nostro / spettacolo di gran mistero / io di carne / presente e tu nascosto / a tirarmi indietro / e avanti / e più dentro incestuoso / con odio amore /crescente”.
Siamo all’interno di una simmetria poetica ad andamento discorsivo e qualche volta di affidamento al rito della memoria, che non precipita mai in bagliore lunare. Ma c’è di più: la Li Vigni Galli conosce e fa proprie le cifre del vissuto che danno l’esatta misura di un mondo rivisitato tra cadenze d’inganno e terrestre oscurità, dove i segnali di forza si muovono in un orizzonte poetico fatto di alterne situazioni comparative, con un linguaggio che riesce a espandersi anche nelle metamorfosi dell’anima attraverso le ibridazioni naturalistiche e cosmologiche di rara efficacia e intensità.

Assenze

Un’ora incerta divaga in cielo
e cerca la sua definizione
così di questo spazio
che in bruma circoscrive la mia essenza.

Il resto di me vagola
come un ectoplasma: ed è
ciò che conosce il mio vicino.

Mi avverto come un’assenza
dolorosamente nello spazio
fra cielo e terra:
disperante se non ci fossi io stessa
ad attestare
– caparbia testimone — un’esistenza.
(da: Contro lo specchio freddo,1979)

Quali verdi pentagrammi

Vedi
io ho iniziato dalla fine
perciò
troverai pacchetti ben legati
con il nastro la foto un fiore secco.

Brevi
i tempi di veglia.
Fu lungo
dopo
il tempo per dormire
e
murata nel sonno la vita
ebbe sogni interrotti
barlumi
al finestrino alto
sbarrato.

Tempi perduti
ritmi sconcertanti
dissonanze specchiate
in ricordi d’arie smosse
mi chiedo
quali verdi pentagrammi
di parole
avrei tratto alla luce
su quei freschi prati del mattino.
(da: Contro lo specchio freddo,1979)

La piovosa di Pasqua sonnolenta
fantasma verde e pecore di creta
riappostate negli occhi
idillio
giallo di frittate e festa
di ritagli
i pensieri nel turbine celeste
sciamando appena
per toccare il fondo
vorticando la sagoma lontana….
Né il tempo sposta
d’un millimetro il passo
la corsa
per pupille di vetro da la nebbia
rada marzolina
accasata nel prato quietamente
per quel minimo di…
Ma le ragazze in punta
di stivale le
bianche piume floreali
– interminata sosta di frammenti
sulla fragile pelle di stagione ora
nella spirale mascherata,
abilmente spinosa — E chi,
riottosa
lumaca d’acqua? chi
sulla siepe col ciarpame
di nuvole
la formula inespressa, la mancanza?
Il patto
nel velo facile solleva
e tutto della trama
sopra il filo rimbalza
come un gatto.
(da: Dettati d’aria, 1986)

Quarta parte
 
 
 
DALLA TRADIZIONE, AL RINNOVAMENTO,
ALLO SPERIMENTALISMO (TRASGRESSIVO)

In questa sezione sono presenti poeti di diversa area generazionale, scelti in base ad un maggiore o minore impegno per la poesia; chi proseguendo nella scrittura in versi, e chi abbandonando tale esperienza per la pittura, come A. Leone e M. Persico, o per il giornalismo, come E. Bruno e A. De Rose, tutte testimonianze che non sono da considerare minori rispetto a quelle esposte nella campionatura antologica. Va da sé precisare che tanto più grande è la mappa dei poeti, tanto più reale è la possibilità che nomi e opere siano sfuggiti al nostro lavoro, non potendo inglobare tutta la poesia d’oggi a Napoli, qui rappresentata, con i vari codici stilistici risalenti alla tradizione lirico-ermetica e neorealista e alle forme più avanzate dei vari sperimentalismi che nei poeti napoletani sembrano resistere tuttora per l’assenza di una convincente azione di risanamento del linguaggio.

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In un’area prevalentemente tradizionale fatta di moduli romantici, neocrepuscolari, orfici e così via, riconosciamo alcuni poeti diversi per sensibilità culturale e capacità espositiva. E’ il caso di Giuseppe Antonello Leone (1914), con i volumi Vi saranno le more ai rovi, Quaderni di Nuova Identità, Napoli, 1984, Eretico, Colonnese Editore, Napoli, 1993), Vènti paralleli, Litomuseum, Maratea, 1999, in cui emergono le ragioni di una ricerca estetica e morale, in controtendenza con i segni del nostro tempo dai quali l’Autore se ne distacca esponendo le proprie significazioni verbali in un personale viaggio culturale all’insegna di una simbologia meridionale che non si sottrae ai parametri della cosiddetta civiltà contadina, vivacizzata da tutta una nomenclatura naturalistica con al centro luminose figure
domestiche, di forte intensità, interiore e memoriale, come nel testo Mia madre, tratto dal volume Vi saranno le more ai rovi, che riportiamo come esempio: Mia madre / ha le mani / come nodi di pioppo /, mani d’acqua / oceano di fatica / piatti giganti / cresciuti per novantacinque anni /. Con le sue mani ha tenuto i muri uniti: / la lesione era grande: in Irpinia il terremoto delle genti è violento. / Ogni giorno / per le terre arse dal sole / le donne vanno / alla Mefite / e gli spaccapietre / fanno polvere / per il libeccio a sera. / Paese senza castello, senza torri. / Paese frantumato,/ dalla tua covata, / solo i vecchi / raccolgono piume bianche / per il cesto della morte /. Riemergono qui tutte le condensazioni realistiche di una poetica legata ad un messaggio umano, a volte triste, altre volte corale, ma sempre luminoso nel ricordo e nella topografia del paesaggio.
Di gusto letterario datato e naif sono i volumi di Santo Feliciello (1919), documentati Nella stagione calda, Rebellato, Padova, 1960, La luna tra le mani, id. Padova, 1962, Non è vicina la sera, id. Padova 1965, La barchetta di carta, id. Padova, 1970, Un dono infinito, Benincasa, Napoli, 1994, A Padre Pio, id. Napoli, 1994, che rivelano un diario poetico di inconfondibile candore nel quale sono fissati con estrema semplicità, il senso del tempo e il mistero della fede, fino alla rappresentazione di soggetti e cose che formano un curriculum di microstorie recuperate dalla memoria e da una limpida trascrizione. Sta per tornare il tempo delle mele. / Nelle sere autunnali al mio paese / l’aria si colmerà del loro aroma. / L’uva sarà già vino / ed i pioppi, ormai nudi, / attenderanno il freddo. / Sarà gustosa la minestra calda / e le finestre, / anche se chiuse, / non sveglieranno la malinconia/.(da:Non è vicina la sera, pag.15).
“Nelle poesie di Santo Feliciello ricorrono motivi e accenti di una schiettezza esemplare. Non vi sono grosse parole, le espressioni difficili, la ricerca affannosa e disperata di uno stile sostenuto a fare il poeta, che è spesso il “fanciullino”, di cui parlava il Pascoli, proprio rivolto a manifestare i sentimenti riposti”. (Francesco Bruno).
Ma si veda anche la testimonianza poetica di Gino Grassi (1923), limitata a pochi volumi: Non ritorna l’alba, (1953) e Caligine, contrassegnati da una lettura della vita fatta di moduli malinconici che evidenziano uno stato permanente di perduta felicità, tra stupori e allarmi in una spirale picaresca ed esistenzialistica orchestrata con accenti brevi e rapidi. (Francesco Bruno in La poesia d’oggi (1945-1965), Padova, Edizioni del Sestante, 1966, pag. 104. Un caso a sé sembra essere quello di Lamberto Maccioni (1925), che non disdegna la forma lirica, con il recupero di figure mitiche del mondo greco. Fidia, Prometeo, Epicuro sono i soggetti-ombre che si riaffacciano alla memoria del poeta il quale ha un modo tutto cristallino di proporsi, facendo riaffiorare qua e là una religione, ora biblica ora classica, dove Epicuro, che dà il titolo alla sua prima raccolta di poesie, (Marotta Editore, Napoli, 1965), è il mito che diventa vita, il saggio che entra nella poesia con una metamorfosi tranquilla, secondo una felice intuizione di Salvatore Quasimodo nella prefazione al volume.
Quando Maccioni si allontana dal suo mondo filosofico e matematico e trae dalla realtà le ragioni di una poesia meno condizionata dalla passione umanistica, allora egli perviene a risultati di concreto approdo formale nella esposizione di valori autentici; ora richiamandosi ai simbolisti francesi, ora alla poesia greca con i ripetuti — epigrammi — nel volume Autodenuncia, Edizioni del Leone, 1987 che, per la varietà delle composizioni scritte tra il 1967 e il 1975 al biennio 1984-1986, producono uno spaccato della visione poetica, con testi impreziositi da neologismi e plurilinguismo, quanto basta per produrre, una pausa e un godibile piacere della lettura, che fanno allontanare alcune forzature semantiche, come in Scherzo, pag.58, in Epigramma n. 6, pag..62 e in Ripetizione n. 2 pag. 90. Ma è anche la retrospettiva storica di una vita privata a tenere banco, con le fulminee pellicole della memoria che riportano il poeta a fatti e situazioni incancellabili, come in Memoria, pag. 87:“Irrigiditi cifre e lettere sul testo / – ne seguo un poco le terminazioni con la punto a stilo / la mente sbalza per non coordinazione / la spinta vitale attenua / la foglia intellettuale si essicca / e la memoria si scioglie. / Ricordi emersi impiombano. / Le mie scuole infantili, il diploma, la laurea, / una privata opposizione politica, / il lampo dell’emergenza sul letto pomeridiano / a mezzo il corso di guerra; / la voce supplichevole di mia madre, / lo scansarsi di casa. / E il salto dei recinti murati, con il mitra a braccio, / nella città d’orto in orto, di giardino in giardino. / Il corpo del tedesco disteso. Il compagno morto. / Questa fu la “mia” epoca. Poi mi raggelo. Il me è pellicola d’altro /”. Pur trattandosi di una pausa riflessiva, si trovano nel volume testi di suasiva tensione e carica umana, per cui, come riferisce Giorgio Luti in Autodenuncia, “Maccioni è in grado di proporre ogni volta la soluzione tecnicamente giusta uscendo vittoriosa dalle sue stesse radici meditative”.
Romanziere, saggista, traduttore de i Cahiers di Paul Valéry, giornalista di importanti testate: Il Messaggero, La Stampa, Corriere della sera, l’Espresso, e di Riviste Ulisse, Mondoperaio e Nuovi Argomenti, Ruggero Guarini (1931), con il volume di poesie Quando bisbiglio la parola Dio, Leonardo Editore, 1991, pone da subito un discorso di area novecentesco-spiritualistica, che non lascia pause o momenti di divagazione, tanto serrato è il rapporto dialogante con un Interlocutore del tutto eccezionale qual è appunto Dio, sempre inseguito dal poeta, tra palpito e rapimenti, chiamato davanti ai dubbi e alle umili certezze, in complicatissimi andirivieni mentali nei quali l’Io diventa grifo inaccessibile nello stupore d’esistere. Di te talvolta si dice persino / che se ci sei non sei buono e nemmeno / cattivo appunto perché sei divino, / ma buona e anche divina credo sia / questa brama di te di cui ripieno è il mondo, e forse altra cosa che lei / tu stesso, Signore, non sei /.
Anche un solo volume di poesie, scritto nel corso della vita può essere un prezioso raccoglitore di sentimenti ed emozioni, ed è quello che ci ha consegnato Elio Bruno (1933), Il pianto degli zingari, Padova, Amicucci, 1959, già segnalato da Armando Maglione in La poesia a Napoli, op. cit. pag. 34, come storia che si affida a pochi temi e a un lessico essenziale ed estenuato. I pomeriggi solitari, il crepuscolo, il tempo che passa con le amare retroflessioni memoriali, sono l’essenza stessa di questa poesia che ama e cerca i toni bassi e le mezze luci in un’atmosfera delicatamente corazziniana che si traduce in tanti piccoli spleen, secondo un’esposizione psicologica che recepisce il senso dell’effimero e fa della luminosità della vita un luogo di mesta incantazione. “Quando l’ultimo sole / è avvampato alto sulle barche / il giorno è crollato sul timo / e i tuoi occhi si sono dispersi nel cielo / E’ triste parlare con te / e un uccello nero è il tempo / che graffia il buio delle pietre/”.
Ma pensiamo, intanto, anche alle forme postermetiche di Michelangelo Salerno (1938), che con il volume Hansel e Gretel si apre su un motivo di paura umana, corretta dalla speranza, cristiana, ma terrena; (Giacomo V. Sabatelli); inoltrandosi nella successiva opera Di Dio e di altre persone (1976), in un discorso più sofferto, che prende a riferimento la città-caos e la città-anima: groviglio di pensieri e di latenti incertezze che sembrano essere le cifre dominanti e le coordinate psicologiche che meglio identificano questo poeta:”Città. Pioggia improvvisa /nel nostro giro senza ritorno. / Cadenza ritmo battere /di ciglia. / Stasi. / Nostra piovosa alba / e nostro vento ( ago sottile nella vena. / Sempre la stessa / paura e confidenza.”.
Con Aurelio De Rose (1939), si torna ad una poesia più distesa e privata, con tematiche di chiara esposizione intersoggettiva, e di variabili scatti impressionistici, come nel volume Monili, Istituto Geografico Editoriale Italiano, Napoli, 1979, che recupera figure mitiche, di diversa natura e oggettivazione, senza grandi disperazioni e gridi esistenziali, perché la frequenza espressiva, che determina gli inserimenti autobiografici, non lascia isole di solitudine, ma brevi squarci di fede, convocando anche la figura dell’amore su un palcoscenico a più sfondi, tra urticanti momenti psicologici e pause di smarrimento:”Il sipario rosso s’allontana / e appari tra quinte barocche / a rileggermi dentro /Muove il tuo piede l’universo / e tigli odorosi m’inebriano /- quand’è che inizia il prologo?- Il sipario rosso ci divide ancora / io attore giovane, tu prima donna / -quand’è che mi racconti di noi? — / Il sipario è nero e le sillabe ) al buio frusciando lente / cercano frasi per la regina di / fantasmagoriche prose /. Quand’è che mi uccidi? /”.
Ricorrendo ai temi dell’ingiustizia e dell’oppressione, Vittorio De Asmundis (1942), riesce a fare propri alcuni rendiconti della vita quotidiana, rimanendo, a nostro avviso, forse uno dei pochi poeti che fa ancora poesia “sociale” e di “classe operaia”, quella per la quale vale la pena di solidarizzare con i propri compagni di fabbrica alienati dal sistema. Da qui il suo discorso esistenziale-resistenziale, di rabbia rivoluzionaria che ha sempre accompagnato il popolo del Sud, “Dopo / sessanta minuti per otto / passati alla catena, / dopo / duecentoquaranta pezzi per otto / lavorati alla catena, / dopo / quattromila e duecento battiti / per otto / venduti alla catena / (a poco prezzo, quasi / per fame /, dopo, / ho la pioggia negli occhi, sulla pelle / il colore del piombo, la pazzia / nel ricordo, la rabbia”/.
Con tre volumi di poesie: Una risposta, Loffredo, Napoli, 1971, Discronie, Hyria, Massa Lubrense, 1981 e L’aereo dorato, Il Laboratorio, Nola, 1999, Giovanni Ariola (1942), alterna il proprio paesaggio poetico di tipo novecentesco, con alcune soluzioni stilistiche innovative che ritracciano una scrittura polivalente di cui il volume Discronie ne è un valido esempio, assieme agli innumerevoli inediti apparsi su riviste, che raggiungono esiti strutturali di diversa suggestione e provenienza, come messaggio umano e culturale e segno di denuncia-dissenso contro il potere e la realtà sociale in “un viaggio senza auspici”, dove subentrano un insaziato bisogno d’amore e una pena partecipe per le sorti dell’umanità (Gennaro Mercogliano).
Marisa Papa Ruggiero (1943), propone un linguaggio in movimento e di ricerca autogenetica del proprio Io. Ha pubblicato Terra emersa (1991), Limite interdetto (1993), Origine inversa (1995), Campo giroscopico (1998), e Persephonia (2001).
Nel testo L’estremità del nome, pubblicato su Risvolti, Avernum poetry, n. 1, 1998, pag.44, vi sono tutte le indicazioni che pongono in essere una polivalente azione di associazione figurativa e di sviluppo autocoscienziale, di fronte a proiezioni fisiche e immaginative e ad una poetica espressa nel vertice di una tensione da cui può prodursi o il blocco insostenibile o lo strappo, come dichiarato dalla Ruggiero in Origine inversa, Guida Editori, Napoli, 1995, pag.97.
Cosicché, la parola densa di immagini si fa sviluppo tematico e oggetto di un soggetto, e cioè come altro da sé (G.B.Nazzaro, Dibattito col poeta, Ilitia Edizioni, 1997, pag.59): “Dal mio pennello / la stanza scende / sulla tela, non diversa / né uguale nella mia stanza/ e dentro qui nel mezzo / dipingo un cavalletto ed una tela…./ e sulla tela una scena, / poi me stessa / che dipinge una scena / (me stessa due volte) / o due me in una volta / entro cogli occhi dentro i miei / sulla scena, / mi guardo in ciò che manca / e ciò che manca è dipinto / e tuttavia esistente / nato qui: sulla scena”/: tanto che questo testo si offre come una finestra, psicologica; rimandandoci ai doppi soggetti dipinti da Magritte, in cui il surreale e il riflesso si pongono di fronte, integrandosi in un’unica forma sostanziale.
Poco più di una testimonianza poetica sono le due plaquettes di Antonio Sorrentino (1944), Primavera improbabile, Napoli, Intra Moenia, 1998) e Procyta, Napoli, Partenope Versus, 2001), che pur nella esiguità delle composizioni presentate, consentono di esporci ad una breve opinione collegata ai testi adeguatamente compositi, caratterizzati da un background stilistico che è già un lasciapassare per una godibile lettura come in Canto dell’opera prima, del volume Procyta: tutto portato all’interno di un movimento verbale avventuroso ed errabondo, dove la scrittura raduna attorno a sé, personaggi, vicende e rapporti memoriali, di densa accumulazione timbrica e avvolgente narratività: “Erano belle davvero le ragazze di Leida / ma troppo uguali e troppo / fiamminghe e del resto non è proprio / culturally correct ritrovarsi / tra i bulini di Durer / in un interno di Van Eyck / malesi silhouettes / e dèi tentacolari” ….Morire per una donna / non è poi cosa nuova e proseguendo / in uno spaesamento magrittiano / si trovò il brigantino a Place du Tertre / (Parigi era viva? Chissà!) / non c’era più nessuno / volato via Maurice / con la calce dei quadri-cartolina / portò con sé in cielo / – in terra troppo lo spazio / il suo infinito amore per Suzanne / non c’era più nessuno / soltanto noiosi pittori polacchi:: accademia da piazza / ritratti verosimili / la Rivoluzione di Montmartre-bene dixit lo Storico…”Né dolce né allegro il naufragio / del brigantino-negli Annali / della Navigazione non risulta / che sia stata la settima onda / a segnarne la sorte-/ non fu una sorpresa: / da tempo il capitano / attendeva la morte per acqua. / Incagliato il relitto rimase / nelle secche laggiù a testimonianza / di un modesto naufragio”.
Per Giuseppe Vetromile (1949), la poetica dell’uomo “basso”, vittima e preda dell’incastro sociale, si fa autentico percorso psicotematico intorno alla dialettica dell’effimero e dell’assoluto.
I due termini si contrappongono portandosi su un versante di pensieri e considerazioni, fino a giungere a certezze ultraterrene, che allontanano certi condizionamenti quotidiani. Da qui la speranza metafisica nella quale viene riposto l’altro di sé del poeta e il suo desiderio di aprirsi ad orizzonti più vasti, per superare così il nonsense delle cose. In questa visione sta il messaggio di Vetromile quando esprime il proprio disagio di esistere :”Mi cammina dentro l’uomo piccolo dei giochi, / basso, / più basso dell’orlo rastremato del marciapiede /. Sarà per lui una lunga discesa anche stamani / verso il solito incastro: / dagli interstizi in ombra della grande fabbrica / riuscirà a cavare — almeno — / un dente d’ingranaggio / uno spicchio di coraggio / il resto d’un fraseggio / da costruirne segrete fantasie notturne / e zattere di sogni /”. Della produzione in versi di Vetromile, segnaliamo alcuni titoli: Cuordileone nella città automatica (1990), Com’è lontana Gerusalemme (1996), Cantico dell’uomo basso (1999). Anastasiadi (2002). Canto del possibile approdo, 2005.
Per restare nel campo della poesia lirica, con qualche pausa di trasgressione, citiamo la raccolta antologica Poesie 1972-2000, Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2001 di Antonio Lotierzo, nato a Marsiconuovo (Pz) nel 1950 e residente a Napoli.
Il volume riunisce: Il rovescio della pelle, 1977, Moritoio marginale, Forlì, Forum, 1979, Golfo di sogni inquieto, Loffredo, Napoli, 2000, e una raccolta di poesie in dialetto Revuote (Risvolti). Lotierzo è anche curatore di due antologie Poeti di Basilicata, con Raffaele Nigro, Forlì, Forum, 1980 e Dialect Poetry of Southern Italy. Edited by Luigi Bonaffini N. Y. Legas, 1997. In Golfo di sogni inquieto, predominano gli elementi mitici e simbolici, le rapide escursioni metafisiche, le tematiche sociali e una più diretta partecipazione a introdursi nella problematica esistenziale, come esposizione d’una condizione psichica e culturale, di ampio scatto morale; mentre in Moritoio Marginale, è lo stesso Lotierzo a darci utili indicazioni di lettura, quando riconosce nel volume un rimescolamento di vita, di storia, anche con frasi tratte da filosofi e commentate, per giungere a Il rovescio della pelle, in cui “la parola si esalta in sé stessa, e nel significante”(G. Scognamiglio), attualizzando in Revuote (Risvolti) l’ironia, lo sfottò come strumento e rappresentazione del reale, dove il dialetto assume la funzione di forma oppositiva al mondo consumistico e banalmente anglicizzato, configurando occasioni poetiche intorno ai temi periferici e popolari, e ad un neoespressionismo linguistico gradualmente liricizzato e contaminato da brevi intrusioni allitterative e onomatopeiche, come ne La lettera del poeta: pag.58: “No certo, Pascoli, qui nessuna nova / progenies coelo demittetur alto. / In sostanza siamo tutti erbette appetibili / chi più come te pianto crucciato e chi no, / ridente nei chiari mattini. / Tu professore al diminuitivo / animuccia uccia e noi disincantati agitatori / del presente abbiamo acquistato / una vigile conservazione / perché tutto con sentimento cambi / rimanendo latino”.Non esiste per Lotierzo una graduatoria di temi: ogni occasione poetica è un fatto su cui riflettere. Pensiero e sentimento sono i precursori di una poesia che si realizza nella potenzialità del dire.
Un poeta che coinvolge il tutto di sé nella struttura linguistica, raccontando, eloquiendo, agglutinando forme poematiche in cui la parola evoluisce in uno spazio a più strati e percorrenze simboliche, cedendo anche ad una lingua che si annoda con se stessa, matassa di cui si cerca un capo che non viene fuori (Rubina Giorgi, in Frammenti putjolanni), è Pasquale Della Ragione (1955), la cui poesia è un continuo bruciare di ali, per farle rinascere o precipitare in un linguaggio, che va dalla poltiglia di fonemi, nel magma del nonsense all’elisione di punteggiature e apostrofi, (Vittorio Russo, in La poesia a Napoli pag.292): tutti strumenti digressivi confluiti in Frammenti putjolanni (1981), Imbianclinamento (1983), Sunnuntai (1988) e Fuxia Gillette (1997).
Col suo primo volume Avvistamenti, Edizioni La Parola Abitata coop. tam tam, 2000, Enrico Fagnano (1957) fa della poesia un momento di breve incontro con il lettore, il quale si trova di fronte a lampeggianti versi e calembours, aneddoti e considerazioni autobiografiche che hanno il piglio del divertissement e della piccola saggezza in un surrealismo di diversa tonalità presente in Una cena sofisticata, in cui non sono pochi i tratti ludico-ironici: “Ci sedemmo e chiedemmo il menù. / Il cameriere ce lo portò. / Sette chili di lacrime / un serpente dietetico / cadavere di tibetano farcito / un metro e mezzo di lingua sleccacciosa / quattro timbri di lattice / un sospetto ed una margherita: / Da bere, / vino azzurro degli scavi di pompei / oppure birra scura tumefatta. / E per finire, / gelato ammuffito della Patagonia / caffè giallo rinsecchito / ed un lungo verme imbalsamato. / Decidemmo di andare a mangiare in un altro posto”/. Fagnano ha collaborato con l’editore Marotta al mensile L’Erba, curando la realizzazione di alcune riviste Brilliancity e La Parola Abitata.
Più vicini ad un espressionismo variabile nei contenuti e nelle emozioni sono i due volumi di Raffaele Piazza (1961), Luoghi visibili, Amadeus 1993 e La sete della favola, Amadeus, 1996. In quest’ultimo lavoro Plinio Perilli mette in evidenza una umbratile e plastica trasparenza illimpidita di densità, concettuale e poematica, frutto di un raziocinio gentile, mite, di una fraterna meditazione creaturale mai rinnegata al celeste immergersi o innalzarsi della Lirica.
Limitatamente all’ultina plaquette del 1996, ci pare di avvertire un linguaggio a più riflessi, ma autenticamente sincero e analitico, capace di aggrumare le letture della vita in un proprio modulo poetico, con qualche eccezione per le poesie en plein air, che danno vertigine d’azzurro, in una dimensione del privato, che coglie col riverbero della natura-amore, un momento di pausa e di salvazione rilevabile in Le cime degli alberi, pag.61: Tra la fine dei pensieri e le cime degli alberi / ci siamo noi a disegnare la vita, che non finisca, che ci dia ancora acqua / da dividere con i compagni alberi, come discorso interattivo e bipolare, che mette allo scoperto delicate transizioni emotive.
Nei recenti “Sonetti”, affiorano il mito dell’infanzia e i dati del presente, come nel testo n. 1, tratto dalla Rivista Capoverso di Carlo Cipparrone, n.4-02: “Dietro gli anni nella conca della serra, / le camere, gli oggetti / (infanzia e adolescenza parlano di gioia), / collezione di giorni se già avviene / il disegno della nuvola e l’azzurro / l’unica cosa necessaria, / mio perimetro ad avvolgerti; / non andare dove inizia da stasera il nuovo giorno / nella mia mappa a resistere restiamo / giochi elettronici di posta, / le cose, gli indumenti per terra / poi, il sogno, a inventare l’abito, il palazzo, / la strada dell’abete argentato nell’angolo, / provenienza di goccia e continuiamo./”

In questo caso, la parola scevra di legami letterari, s’inoltra oltre i segni delle indagini e delle sfaccettature fisiche, posizionandosi in una zona pancromatica, attraverso un neorealismo pellicolare, materico e solare.
A proporsi alla nostra attenzione è anche Roberto Pasanisi (1962), per il suo impegno culturale, direttore di Nuove Lettere, (rivista internazionale di poesia e letteratura), già autore di diversi libri di poesie di cui riportiamo alcuni titoli: Giardini del cielo, Napoli, Edizioni del Delfino, 1980, Le terre del sole, Napoli, Liguori, 1982 e Sulla rotta di Magellano, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli; un volume quest’ultimo, che si pone, rispetto alle due precedenti opere, “di fronte a una esperienza di poesia che non solo appare in sé di altissimo valore, ma che apre un nuovo ciclo, una nuova concezione, un nuovo modo d’esercizio del linguaggio poetico,” come scrive nella prefazione Giorgio Bàrberi Squarotti.
Pasanisi opera, indifferentemente, sia sul piano delle rivisitazioni memoriali sia su quello delle testimonianze cinematiche rilevabili nei testi Dillinger è morto e Humphrey Bogart.
E’ una poesia che ama le risonanze dell’anima espresse con un lirismo di nobile tradizione e musicalità: “Nulla vale il tuo tormento /, della tua voce rotta dal pianto / nei fili oscuri del telefono /, se infiniti s’accendono / i bengala nella notte /, e tremula di pianto una riga / solca il tuo volto tenero negli anni /. Dove vada non è dato saperlo / la nostra vita carica d’affanni /, ma per compagna averti è un senso / in questa notte in cui di nuovo e sempre / s’aprono stelle filanti dentro il cuore /, e una ferita, un sogno è tutta la tua vita”.
Fuori dall’ambito poetico citiamo il saggio Le muse bendate: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000, con il quale l’autore propone il ritorno ai valori fondamentali dell’umanità, che solo l’arte e la letteratura (grazie soprattutto alla poesia) sono all’altezza di illustrare e conservare, ovvero trasmettere alle generazioni a venire. (dalla Prefazione di Constantin Frosin, Università Statale “Il Basso Danubio”, Galati, Romania).

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Nel circuito del rinnovamento linguistico più avanzato, si distingue Giovanni Ruggiero (1922), che osserva il mondo circostante, descrivendo le vicende pubbliche e private, in appunti poetici, con il corpo e l’anima infiltrati dentro il nulla, dove fa confluire ogni colliquazione dell’esistenza, concedendo al linguaggio un procedimento logico e analogico. Il volume Diario di viaggio (1977) è un dossier esistenziale che “non sta tanto nell’ordine delle confessioni o delle autobiografie, quanto invece in quello delle memorie. Ma nel senso tutto particolare che può avere un taccuino esemplare degli appunti e delle annotazioni, un album della memoria critica, un almanacco della propria condizione.” (Paolo Ruffilli, Q/G. nn. 55-56, anno 1979). Con Le Signore di Betz (Guanda 1985), l’autore torna ad alfabetizzare le sequenze negative di una cultura senza illuminazioni.
Quello di Ruggiero è il tentativo, tra l’altro comune a tanti medici-scrittori di trasferire il proprio glossario scientifico sulla vita per ricavarne con la poesia alcune cartelle cliniche di infausta conclusione.” Nella poesia di Ruggiero il pensiero della morte segna il livello di più intensa sincerità. Pensare la fine significa per lui arrestare la dissipazione dell’atomismo biologico e concentrare il discorso poetico attorno al problema dell’autoriconoscimento “Riconoscersi è altro aspetto / della condizione di buon vicinato / con madama. Il next step / sarà temerne l’incontro”/..(Pietro Bonfiglioli, Q/G. nn. 135-136, anno XIII-1985, Settembre-Ottobre, pag.107).
Recentemente, Ruggiero ha dato alle stampe il volume di prosa e poesia: Il coltello della memoria (Campanotto, 2001), e Insonne dans le train (Sconosciuta in treno): Poèms bilingues, tradotti in italiano da Jean-Jacques Méric, presso L’Harmattan di Parigi.
“Questo volume concepito come approfondimento del concetto di medicoscrittore (senza trattino), evoluto come un saggio sulla morte, al quale però l’Autore si è giudicato presto inadatto per insufficiente erudizione: Ne ha allora affidato la stesura al libro stesso che ha scritto questo romanzo”.
Con la medesima sigla editoriale, ha pubblicato Je le jure, sans ironie — Vie d’un médecin seul — tradotto dall’italiano da Annalisa Giovannini e Jacques Lucchesi, con la collaboratione di Brigitte Pasquet-Gotti e Natalie Sebag, 2002, in cui racconta le vicissitudini di un celebre medico di una città del Nord d’Italia, alle prese con la lotta alla mediocrità della burocrazia politico-amministrativa.

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Tra i vari artisti che si sono messi in luce tramite lo sperimentalismo trasgressivo e la poesia visiva, segnaliamo Mario Persico (1930), con le sue prime riproduzioni di titoli di tecnica tipografica, a grassetto cupo, come in Poesia collage, 1960, che rileviamo da Documento Sud, III, n. 6, gennaio, 1961, pag, 18, e successivamente, con altre idee e composizioni, in Poiorama, Linea Sud, n. 2, Napoli, aprile 1965; un fascicolo collettivo di opere e autori “che in quel momento stavano variamente sperimentando l’interazione fra codici estetici diversi”. (Lamberto Pignotti). Quello di Persico è un nome rappresentativo della dinamica artistica napoletana e nazionale, e qui va ricordato anche per aver fatto parte del Gruppo 58, promosso da Mario Colucci, insieme a Guido Biasi, Bruno Di Bello, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola e Luigi Castellano (Luca): un movimento culturale sorto “per chiudere il tormentoso rubinetto dell’inconscio e di gettare un ponte tra il presente della nostra civiltà spirituale e l’origine, dimostrando quanto questa civiltà sia ancora capace di cantare con semplicità le albe primordiali pulsanti nella memoria del suo sangue”. Nel 1959 lo stesso Gruppo firmò un altro manifesto polemico e programmatico dal titolo Manifeste de Naple, al quale parteciparono Nanni Balestrini ed Edoardo Sanguineti, contro le forme dell’Astrattismo.
Con Raffaele Perrotta (1936), tutti i limiti dello sperimentalismo sono superati, tant’è che si può senz’altro parlare di bolo linguistico di carattere oppositivo e ipermutante, concepito come sistema scientifico del nonsense, con una implantologia lessicale che lascia il calco, ma non la poesia: “ Lo strego — ne mesura capio cappio / flox ventare vulture marat’omnia / azzurrite plarmonica liùbrando / disegno impresso regola superba / e dei morti il vespero la promessa / vìgor loco legamentare làbor….”
A chiarire il senso di questa operazione è lo stesso Perrotta quando fa presente che.”La filosofia ufficiale istituisce la“filosofia del linguaggio” tenendosi alla larga dalla “ filosofia della parola”. Io oggi, so: viene a noi il linguaggio, la materia inorganica, fluida dei segni; noi andiamo o tentiamo di andare verso il linguaggio ordinato del discorso. Non è tanto in gioco il gioco della parola quanto il gioco di parole. La parola non è una topica; i vocabolari e le grammatiche delle lingue nazionali sono mirabili artifici. Parliamo de-lirando”. (da una Intervista a Raffaele Perrotta su Il Punto, di Alessandro Carandente, Ilitia Edizioni, Napoli, 1996). Perrotta ha pubblicato Sonatasituazione, Il Periplo, Milano 1969; G. id. 1971; Per Organo, Altri Termini, Napoli, 1979.
Prima di parlare della poesia di Giuseppe Bilotta (1939), si dovrà necessariamente accennare alla sua attività di scrittore, di critico e di direttore di importanti riviste d’Arte come Raraavis, dell’immagine, della scrittura edita dalla Lan, Napoli, insieme con Adriano Mele e Michele Buonuomo. Già curatore della collana Quaderni d’Arte, Edizioni Lo Spazio, Bilotta ha pubblicato nel 1986 Sei pittori, due generazioni (Guttuso, Girosi, Gagliolo, Giorgioantonio, Maccari, Sangiovanni). Nel 1987 ha fondato una nuova collana Erato, realizzando la prima monografia: Bendini, disegni 1950-1984.Dal 1990 dirige Orma del dicibile, dell’indicibile, quadrimestrale d’arte e cultura dove pubblica il saggio Velia Velcha, il volto del silenzio, il più famoso ritratto dell’arte antica. Per la poesia ha pubblicato Il Testimone, frammenti poetici in prosa I.G.E.I. 1981, Napoli, Angoscia solare, 1982, poemetto, Igadia Orobia, Poìemon, Ilitia Edizioni 1989 e Valle Regina, 1991, Lan Edizioni. Certamente gli esiti strutturali di Igadia Orobica, suscitano curiosità e interesse, per la proposta verbale non usuale, anzi diremmo rischiosissima sul piano della comunicazione. Qui si è venuta a realizzare una nuova ipotetica e utopica langue trasmentale, perchè va al di là dei segni della lingua, essendo autentico soggetto della non comunicazione, negazione delle emozioni, e declino della stessa forma della parola. Si tratta, in effetti, come precisa G. B. Nazzaro nella prefazione a Igadia Orobica, di “un procedimento alchemico costruito apposta per scoprire quell’eterna pietra filosofale, che non è l’oro in quanto materia vile, appetibile come insulso possesso o sconfinato potere ma quell’anima mundis, l’imperatrice di tutti gli onori”. Un esempio? 1- “Adabia legia nodia amion gol / egon nosor adoniar unia domia agrondolia / odonvar bania idinia asor, dania ilinia avor”/: parole che lo stesso autore ha recuperato da lingue classiche e moderne, come afferma in Verba all’infinito, su Secondo Tempo, libro diciassettesimo, Marcus Edizioni, Napoli, 2003, pag.25. Ma è con Valle Regina che Bilotta rientra nella poesia tornando alle forme classiche della metrica: cioè al sonetto e agli endecasillabi, in un paesaggio poetico tra i più convenzionali e familiari; tutto un inno alla vita e un ritorno ad un canto autenticamente novecentesco. Siamo veramente ad una ricomposizione del linguaggio, che nella sua semplicità scava nel fondo della vita trovando anche le ragioni di una scrittura che si pacifica con il mondo e con il poeta stesso.
Eugenio Lucrezi (1952), riesce a tracciare sulla lezione della poesia on the road, alcuni graffiti, come segno e storia della nostra esistenza, in un discorso di più strati e ripiani.
A partire dalla prima prova poetica, Arboraria, Altri Termini, 1989, ai tanti inediti pubblicati su riviste e antologie, Lucrezi entra nel filone poetico del secondo Novecento con una propria identità plurilinguistica e con un sound, lo stesso che lo contraddistingue come “musicista nel circuito dei club, assieme a Blue Stuff, Black Snake e She Devil”.(Attraversamenti, Percorsi di fotoscrittura). Se poi a tutto questo aggiungiamo l’innesto dialettale presente in L’Air; Anterem, 2001; un volume suddiviso in sei sezioni a tematiche diverse, tra gioco e ironia, velato autobiografismo e lettura critica degli eventi del mondo, allora le reti di connessione con i fatti sociali ed esistenziali, diventano registrazione del vissuto e resoconto intersoggettivo col grandangolo visivo rivolto ai dati storici e culturali del proprio tempo.“Lucrezi coltiva il genere dei “papiers dèchirès”, delle carte scritte e strappate da altre carte o delle poesie visive su materiale creativo informale” (Poetry Wave).
In questo testo dal titolo I canditi di maldoror, pubblicato su Risvolti n. 9, 2002, pag. 25; e che riportiamo soltanto una parte, senza gli inserimenti iconici, ci pare di cogliere uno dei momenti poetici più felici di Lucrezi, per via di quell’oscillamento linguistico che forma una specie di fedele rievocazione di una generazione, ma anche di una cultura favolosa e mitica: “/Satellite’s gone up to the skies / cantava Lou Reed a New York City, con le unghie / laccate di nero ai tempi di Andy e della Factory, / things like that drive me out of mind / cantava, e guardava dallo spazio i suoi amici / pomiciare per giorni interi, li guardava / in tivù grazie al satellite, satellite of love, / era fenomenale, Lou, mentre cantava e diceva / I like to watch things on TV / proprio come direbbe la casalinga di Voghera / dallo sguardo confitto nella televendita / mentre invece cantava l’amore porcellone e free, / Lou, mica il quiz show, mica le caramelle / dei B 52, mica i canditi di maldoror / diceva gli amori glam e dark, Lou, mica le albe / candide e gelate senza canti e silenzi, ma piuttosto / farcite dei bang, dei rombi degli aerei, / dei crash dei boom delle bombe; / siamo cosa senza importanza, siamo buoni / perché gli dèi con i canditi in mano paiono / magnanimi, esattamente quello che sono ?” (15 dicembre 2001).Un recente lavoro di Roberta Moscarelli Lo cunto de la voce (Napoli, Terra del Fuoco, (1999), riprende il tema delle avanguardie napoletane che hanno rappresentato linee collaterali, ma niente affatto secondarie rispetto al mainstream del Gruppo 63. Vi troviamo poeti di chiara estrazione sperimentale come Carmine Lubrano (1952) e Mariano Bàino (1953), impegnati nell’occultamento della poesia di matrici tradizionali, con l’acquisizione di un sistema linguistico fatto di innesti plurimi che si integrano e si contaminano, fino a desemantizzare i versi in un prodotto estetico, secondo gli strumenti oggi disponibili, e che si rifanno all’uso di particelle calligrammate, dialettali e citazioniste: un invariabile kit sempre più uniforme e chiuso in se stesso.
Dei testi di Carmine Lubrano segnaliamo quelli riuniti in Sulphitarie che rimarcano l’azione deviante del miscuglio oggettivo delle cose prese a riferimento, come accesso a quel vasto mondo di rappresentazione esterna, portato fino all’estremismo creativo,” senza rispettare” — come scrive la Moscarelli- “distanze di sicurezza né principi di non interferenza, stravolgendo, facendo impazzire e mettendo in crisi la funzione referenziale della lingua, per aggredire, direttamente il potere di persuasione e di dissuasione della parola”.
Di Mariano Bàino invece poniamo in evidenza il suo lavoro, radicale e iperstilistico, contaminato da ogni tipo di intrusione lessicale, dove tutto si muove in funzione del significante. Bàino ha pubblicato Camera iperbarica (Tam Tam, 1985), Fax giallo (Il Laboratorio, 1993); Onne’ e terra (Pironti, Napoli, 1994); Pinocchio (moviole) (Piero Manni, Lecce, 2000): un volume di poesie e commenti, che prende a riferimento, il ragazzino mentitore e avventuroso di Collodi, in una scenografia teatrale tra fantasia e realtà del presente.”la strada di pinocchio / tra le case / taglia, s’inoltra / nei vicoli incrociando / quartieri, s’inerpica in salita; / rampa / sugli azzurrognoli contorni della city / come in rollanti corridoi di Josef K. / surriscaldato legno di pinokkio, pianta / stremata, fruscula nel vento / strapazzone / su terrazze condominiali, cieli o terre / di nessuno, a balzi lunghi / da fare i vermi / biancheria per aria, inasciugata / in aria, dove alte / gru sorvegliano / cancellerie parcheggi assi / pedonali, in cima a un monte / d’immondizia oveggia / un uovo”. Bàino ha scritto anche in prosa Il mite e immite limite (1998), ed è stato uno dei fondatori del Gruppo 93 e della rivista Baldus. Recentemente ha dato alle stampe tre libri di poesie Onne’e terra, presso Zona, Amarellimerick da Oèdipus, e Sparigli Marsigliesi per i tipi d’if; che riconfermano una linea poetica costituita dall’integrazione di lingue morte e dialettali, in una sorta di controcanto ludico e trasgressivo.
Costanzo Ioni (1953), va oltre il messaggio, frutto del pensiero-parola, espresso in un modulo di forte creatività tensiva e, comunque, sempre di carattere evolutivo, con transizioni linguistiche e stilistiche assimilate grazie ad un proficuo tirocinio praticato con il Gruppo 93, per averne condiviso sia i presupposti teorici che la pratica letteraria. La ricerca di Costanzo Ioni si affida alla molteplicità della comunicazione, e…., ai richiami diversi del “gioco della variazione”. (Giorgio Moio da Documento Sud a Oltranza. Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli- 1958-1995, su Risvolti-marjinalia-continjentia,- n. 9, 2002, pag.20). Di Costanzo Ioni, riportiamo una campionatura poetica significativa nella sua forma metaforica e ironica, pubblicata su La parola abitata, n. 3, aprile 1991, pag. 30 e dal titolo: Una poesia “Il verso si rincorre, prende fiato, è schizzato dal foglio e si è / spezzato, / si è calmato sorseggiando una Coca in auto, forse, viaggiando, / potrebbe / rifarsi una vita, trovare lavoro, ma è finita, sul marciapiedi, / per cinquemila lire, e il suo passato da inghiottire”/. Ioni ha pubblicato Pret-à-porter, (Miller, Napoli, 1985), e Poesia della lateralità (Piero Manni, Lecce, 1993). E’ presente in diverse antologie tra cui La poesia in Campania (Forum, Forlì, 1990).
Tra automatismo verbale e fonetico si collocano gli esiti poetici di Lello Voce (1957), riuniti nei volumi Singin’ Napoli Cantare (Ripostes, Salerno,-Roma, 1985); Musa (Piero Manni, Lecce, 1991), I segni, i suoni le cose, Manni, 1996, e Farfalle da combattimento, in cui sperimentalismo e citazionismo prolungano nel tempo le esperienze di antipoesia, all’interno di una proiezione culturale autonoma costituita da innesti linguistici di varia provenienza e suggestione, non escluso il recupero dialettale, che si accompagna a ricercati segni formali, tra materiali di prelievo e proposizione strutturale.
Molto attivo come operatore culturale e continuatore della letteratura alternativa, già redattore delle riviste Altri Termini e Oltranza, fondatore di Risvolti, -ultima frontiera di quaderni di linguaggi in movimento-, è Giorgio Moio, nato a Quarto (Na) nel 1959, autore di nunerose raccolte di poesia: Scrittura d’attesa, Ripostes, 1989, Sabbie mobili, Edizioni Riccardi, 1996; Work in progress id. 1997, Oltre la soglia del dolore, Gabrieli, 1999, con Carlo Bugli, L’uomo dagli occhi rosa, Edizioni Riccardi, 2000, con Luciano Caruso Un vibrato continuo id. 2002 e Il libro dell’artista n. 33, Morgana Edizioni, Firenze, 2002. Dirige la collana di poesia Edizioni Riccardi. Giorgio Moio ha prodotto anche libri-oggetto e libri-.opera ed un CD-Rom, con poesie edite e inedite.
Un continuo lavoro di documentazione poetica caratterizza la linea editoriale di Risvolti, che “si fa portavoce delle più avanzate ricerche avanguardistiche odierne, presentando, con un degno apparato critico, nuove proposte di poesia totale, visiva, scenica e segnica,” (Giovanni Matteo Allone), con un discorso anche retroattivo degli eventi culturali della fase storica dell’avanguardia napoletana. Giorgio Moio nella sua proposizione poetica alterna materiali visivi nell’interscambio dei segni grafici, tra scrittura e immagine, pervenendo così a connessioni intersemiotiche, sinestesie, tavole parolibere fino al collage di elementi interfacciali, scarti pubblicitari e frammenti del linguaggio della comunicazione di massa; il che rende il messaggio attivo sul piano dei segni iconici, per esprimere quello che Stelio Maria Martini chiama l’interazione complementare tra l’elemento visivo con quello verbale. Si tratta di una letteratura alternativa rispetto ai codici linguistici dominanti, un vero e proprio rapporto condensativo di idee, progetti ed iniziative polivalenti, come si rileva in Locus solus — la babele capovolta — antologia, Edizioni Riccardi, Quarto (Napoli) 2001, dove Moio è presente con propri testi e schemi verbo-visivi, assieme a Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione e Marisa Papa Ruggiero.
Si ritorna con Giorgio Moio alla dialettica della contaminazione tra scrittura e immagine, a quell’arte plurisensoriale di cui Lamberto Pignotti è stato uno degli iniziatori con Eugenio Miccini, Emilio Isgrò, Adriano Spatola, Luciano Caruso, Stelio Maria Martini, Michele Perfetti, Vincenzo Accame, Claudio Parmiggiani, Filiberto Menna e Daniela Palazzoli; ma Moio vi aggiunge qualcosa di personale, come risulta dalla sua dichiarazione di poetica quando afferma di “ricercare nella poesia un qualcosa che non c’è (o non ci è dato — forse — di sapere), un linguaggio della contraddizione, palinodico e giocoso, tragicomico, che non affabuli ma aggrovigli, che non addomestichi ma interroghi. E sul piano strettamente stilistico, un accumulo delirante di parole deliranti (apparentemente giocose e comiche….Si tratta di rappresentare un’immagine di sogno, un’allegoria del sogno”, così come in Scritture d’attesa, Ripostes, 1989, il cui corpo poetico si allontana dal nucleo originario: “La parola rischia il proprio fraseggio — extenuo fluyre dun inveire svenevole / nutry(menti di la(menti per un baro) ) / eterna perdita radyoso martyrio / nausea duna not(t)e lunga da passare / dyssol venza del(l)ultimo ixstante / del jornoKeVer(r)à”.
Altro sperimentalista, certamente non ultimo dei suoi compagni di viaggio, è Biagio Cepollaro (1959), che ripristina vecchie e consolidate forme verbali le quali non aiutano a rimuovere la poesia dal suo stato di parvificazione, anche se la scrittura si espone a più figure grammaticali, “tra linguaggio e potere, tra linguaggio e politica, esibendoci composizioni postmoderne, sia pure trasportate nella mitica e “laudata” letteratura del passato”.(Giorgio Moio, Risvolti n. 9, 2002, pag. 18).
Cepollaro ha pubblicato Le parole di Eliodora, Forum, Q/G. Forlì, 1964, Scribeide, Manni, Lecce, 1993; Luna presciente, Mancuso Editore, Roma, 1993.
Ha fondato e diretto nel 1990 con Mariano Bàino e Lello Voce la Rivista Baldus ed è stato curatore, con Michele Sovente dell’antologia Poesia in Campania, Forum, Forlì, 1990.
Con diverso impegno, stile e ricerca del linguaggio si sono espressi: Armando Adolgiso, Tatiana Amoruso, Carlo Bugli, Ariele D’Ambrosio, Vincenzo Digilio, Salvatore Di Natale, Luigi D’Isernia, Mario Di Pinto, Ferdinando Grossetti, Donato Lauria, Marco Longo, Ida Maffei, Alfonso Malinconico, Carlangelo Mauro, Edoardo Sant’Elia, Raffaele Urraro, Nando Vitali, ecc. che, pur testimoniando una produzione valida e complessa, prolungano con le altre voci non presenti in questo dossier, storia e tradizione, innovazione e sperimentalismo.Apparentemente ricostruttiva sembra essere la proposta di Felice Piemontese, come formulazione di una nuova ipotesi di poetica dopo la fine della Neoavanguardia, senza particolari rovesciamenti linguistici, se non nei termini di una creatività riflettente il datum verbale retroattivo, nella coesistenza di pluriaccorgimenti semantici e di calcolo estetico.
Altro è, invece, il rischio a cui si espone, con grande disinvoltura, Gabriele Frasca, con le sue terzine e sonetti, che costituiscono l’oggettistica letteraria, secondo le ragioni di una poesia che si dilata oltre i normali campi di applicazione. E’ come se il poeta lavorasse per tempi epocali e registri diversi. Il tecnicismo non annulla la cantilena autobiografica e psicologica. Questo modo di procedere toglie ogni possibilità alla lingua di giungere verso approdi emotivi, non che questi debbano essere indispensabili, ma, qualche volta, sono necessari del concetto stesso di poesia.
“L’universo degradato ritrova un senso nella forma chiusa, in quell’afasia spettacolare, in cui l’esuberanza chiusa di morfologie barocche si coniuga con il nulla di cui ci parla, per esempio, Beckett di cui Frasca è lettore e traduttore”. (Giorgio Patrizi, in Storia della letteratura italiana,Vol.XVI, pag.623, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2004).
Un poeta che sembra orientarsi verso aree semantiche miste, senza proporre importanti innovazioni tali da modificare il significante nella sua struttura generale, è Michele Sovente che, in Carbones, adotta un linguaggio triadico, con la commistione del latino, del dialetto e dell’italiano, per cui lo standard della parola rimane nella forma del chiuso gettito d’inchiostro, legando le occasioni poetiche ad un humus flegreo, che in vario modo asseconda i giri dell’anima, tra frustrazione dell’urbanesimo e carbonizzazione del tempo.
Alla fine del nostro excursus e sulla base di quanto abbiamo esposto, appare chiaro che per ricostituire il patrimonio di voci e opere disperso da assurde arbitrarietà, occorrono segnali forti, che provengano dagli intellettuali, dagli editori, dalle istituzioni, dagli amici lettori se vogliamo essere protagonisti bisogna andare anche alla riscoperta della nostra cultura e della nostra poesia. (Paolo Saggese, Per la poesia del Sud, Secondo Tempo, Libro Ventesimo, pag. 94), affidando ai filologi del Sud e agli specialisti del settore, la compilazione di repertori e storie della poesia italiana, sempre che non diventino operazioni politicamente interessate di restaurazione e di frenaggio. (Giuseppe Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983, pag.706).
La poesia italiana, agli inizi del terzo Millennio, ha davanti a sé l’affascinante compito di voltare pagina a tutti gli ismi del secolo scorso, ma anche di fondare una letteratura rivolta verso il futuro, in contrapposizione allo strapotere del mercato letterario e delle colonne dei filonordisti che si celano al Sud, nelle redazioni dei Giornali e delle piccole riviste di provincia, per mettere sotto accusa ogni tipo di giaculatòria e di sconcertante meridionalismo critico inutilmente recriminatorio. “Chi scrive poesie”, ha rilevato Adam Zagajewski, “si ritrova talvolta impegnato, in una difesa delle medesime”, a causa di continue delegittimazioni in tutto il Novecento che è stato “il secolo ammalato di amnesie”, secondo un giudizio di Claudio Magris, (a proposito dell’uscita del volume di Barbara Spinelli — L’Europa dei totalitarismi, Mondadori), quando mette in evidenza che “la memoria è soprattutto giustizia resa alle vittime di violenza che la falsificazione ideologica cancella dalla coscienza o di cui deforma la verità”, troppo spesso alienata su altri versanti, meno cruenti, ma più conflittuali, come quelli della poesia.

Notizie biobibliografiche

ALBERTO MARIO MORICONI, nato a Terni, vive a Napoli fin dalla fanciullezza. Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, collaboratore letterario di quotidiani e riviste: in particolare, critico e rubricista culturale de Il Mattino anche con lo pseudonimo di Morick. La sua opera poetica consta delle sillogi Vortici rupi mammole (Gastaldi, Milano 1952), Trittico fraterno (Cecchina, Milano 1955), Anno Mille (Rebellato, Padova 1958), Le torri mobili (Guanda, Parma 1963), e della trilogia edita da Laterza Dibattito su amore 1969, Un carico di mercurio 1975, Decreto sui duelli 1982, Il dente di Wels (Tullio Pironti, Napoli 1995), Io Rapagnetta Gabriel — e altre sorti (Pironti 1999). Sue poesie sono state tradotte in più lingue. Per la prosa ha pubblicato: Un autocommento (discreto) Ed. Liguori, Napoli, 2003.
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Un’amplissima bibliografia della critica dal 1952 al 1987 è consultabile nel volume La poesia di Moriconi di Franco Lanza, Ed. Liguori, Napoli 1988, ed una bibliografia essenziale fino al 1998 in Nord e Sud, E.S.I., agosto 1998, segue a una serie di saggi su Moriconi : di M. Carlino, E. Gioanola, G. Gramigna, N. Lorenzini, F. Muzzioli, R. Nigro, T.Notarbartolo, A. Piromalli, G. Patrizi, G. Scognamiglio. Nell’ultimo decennio:
G. De Marco, Fictio Ed. Campanotto, Udine, 1993.
V. Esposito, Poesia non-poesia anti-poesia del 900 italiano, Ed. Bastogi, Foggia, 1993.
P. Giannantonio, Il Novecento letterario, Ed.Loffredo, Napoli, 1993.
F. Di Carlo, A Frattini, F. Lanza, in AA.VV., Storia della letteratura italiana, Ed. Guido Miano, Milano, 93.
G. Occhipinti, L’ultimo Novecento, Bastogi, 1993.
M. Picchi, L’Espresso, 18-4-1982, e 21-7-1995.
A. Mundula, Misure Critiche, n..69, 1988, e L’Osservatore Romano, 6 agosto 1995..
R. Minore, 50 e più, n. 9, 1995.
P. Maffeo, Avvenire, 14-10-1995.
M. Pamio, Oggi e Domani, n. 11,1995.
G. Nardi, La Nazione, 27-12-1995.
G. Manacorda, in AA.VV. I Limoni, Ed. Caramanica, Minturno, 1996.
F. Lanza, in AA.VV. Dizionario autori italiani contemporanei, Ed. Miano, Milano, 1996.
F. De Nicola, Arte Stampa, n. 3,1996.
P.Ruffilli, Il Resto del Carlino, 2-10-1982, e 17-6-1995, e Punto d’incontro, n. 3, 1996.
P. Corbo, Puglia, 28-6-1996.
S. Briosi, Allegoria, n. 23, 1996.
G. Gramigna, Corriere della sera, 11-7-1982 e 28-6-1996.
G. Bàrberi Squarotti, Storia della civiltà letteraria italiana, UTET, Torino, 1996.
L. Reina, Scenario Novecento Ed. Ferraro, Napoli, 1993, Il filo d’Arianna, Ripostes, Salerno, 1997, e in La Città, 17-9-1997.
G. Rugarli, Corriere della sera, 18-7-1990, e 24-2-1993: La Repubblica, 23-.6-1995, e Il manuale del romanziere, Ed. Marsilio, Venezia, 1998.
E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Ed. Librex, Milano, 1998.
S. Cervasio, La Repubblica 18-11-1999.
C.Di Biase, Elzeviri nel tempo, Istituto Universitario “Suor Orsola”, Napoli, 2000, e in Corriere del Mezzogiorno (supplemento del Corriere della sera), 6-2-2000.
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G.Patrizi, Rinascita, 5-8-1989 e in AA.VV. Storia della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Ed. Motta, Milano, 1999, e Rizzoli, Milano, 2000.
L. Tallarico, Secolo d’Italia, 19-10-1995, e 10-3-2000.
F. D’Episcopo, Nord e Sud, n. 5,1995, e Gradiva, U.S.A., n. 22, 2000.
L.Zaniboni, Reportage, 16-10-1995, e Presenza, n. 1, 2000.
F. Borrelli, America Oggi, U.S.A., 28-1-1996, e 26-3-2000.
T. Pisanti, Il giornale di Caserta, 7-4-2000.
F. Pierangeli, La Scrittura, n.8-9,1998, e n. 13, 2000.
N. Merola, L’Indice, n. 3, 1996, e Un Novecento in piccolo, Ed. Rubbettino, Catanzaro, 2000.
V.Esposito, M. Cataudella, G.Scognamiglio, A De Marchi Gherini, S. Zafferani e M. Carlino, E.Cerquiglini, C.Di Biase, R. La Capria, F. Muzzioli, F. Piccinelli, P. Ruffilli, V. Vettori, in Riscontri n. 3-4, 1997, e 2-3-2000.
R.Scrivano, Il Ponte, n. 6, 1978 e Sincronie, IV, n. 2, 2000.
R. Filippelli, Viaggio lett. nell’Italia europea, Ed. Simone, Napoli, 2000.
V. Guarracino, L’immaginazione, n.174, gennaio 2001.
G.M. Walch, Il Giorno, 14-4-1996, e 17-2-2001.
G. Pandini, Cronaca Padana, 19-7-2001.
F. Lanza, Cenobio, Svizzera It., n. 3, 2001.
D.Argnani, L’Ortica, n. 81, 2001.
M. Lunetta, Poesia italiana oggi, Newton Compton, Roma, 1981; in AA.VV. La poesia a Napoli, Tempi Moderni, Napoli, 1992, e in La Rinascita della sinistra, 3-8-2001.
A. Carandente, Il paradosso dell’evidenza, Ed.Marcus, Napoli, 2002.
G.B.Nazzaro, Dibattito col poeta, Ilitia, Napoli, 1997, e in Secondo Tempo, libro XVI, 2003.
G. Cesaro, L’oro del Sud, Ed. Pironti, Napoli, 2003.

FRANCO RICCIO è nato a Cosenza nel 1923 e vive da molti anni a Napoli. Ha pubblicato L’equilibrio difficile, Napoli, 1965; Compagno alla prigione, Roma, 1969, La vita con coraggio, Napoli, 1967; Paese di eclissi, Venezia, 1979, Selezione Premio Viareggio 1980; I giorni dell’ansia, Forlì, 1984; Selezione Premio Viareggio, 1985, Lacerazioni, Venezia, 1989; Parole per dirsi, Venezia, Edizioni del Leone, 1994; Vita Minore, Venezia, Edizioni del Leone, 1999; Canzoniere, Ed. del Leone, 2003. Ha tradotto poeti contemporanei francesi tra i quali: P. Valery, Il cimitero marino; F. Ponge da Il partito preso delle cose; Y. Bonnefoy da Nell’insidia della soglia. Sua è anche una versione del Lamento per Ignazio Sanchez Mejias di F. G. Lorca. Versi suoi sono stati tradotti in francese e neogreco.
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W.Nesti, Franco Riccio, I giorni dell’ansia, Q/G. Forlì anno XIV 1986, Novembre-Dicembre, 149-150, p.57.
Vittoriano Esposito, Vita minore, su Oggi e domani n. 9-10- 2000.
Luigi Fontanella, Franco Riccio, Vita Minore, Gradiva Number 19, Spring 2001, pag. 157.
Giorgio Linguaglossa su Appunti critici, Ed. Scettro del Re, 2002.
Su Franco Riccio si rilevano inoltre sintesi critiche di Luigi Baldacci, Carlo Felice Colucci, Giuseppe Pontiggia, Giorgio Bàrberi Squarotti, Tiziano Rossi, Mario Petrucciani, Valerio Magrelli, Dante Della Terza.

ARISTIDE LA ROCCA è nato a Nola (Na) nel 1925. Dirige dal 1972 la Rivista Hyria. Ha pubblicato diversi racconti: Il beato inferno 1964; Finché gli occhi aiuteranno, 1964; Lezioni di guida, 1966; Stato civile, con una nota di Luigi Ammirati, 1970; e i volumi di poesie: La casa nel sole, Bologna, Cappelli, 1968, Finalista Premio Viareggio 1969; I soli, Napoli, Loffredo, 1971; Dieci Frammenti, Nola, Edizioni Hyria, 1979; L’amore randagio, 2000 e alcuni drammi classici: Scene Augustee, 2000, Frammento LXXX e Scene bizantine-Teodora- Frammento XC. Collabora a periodici e riviste ed ha curato gli Atti dei Convegni dell’84 “Le ragioni del Sud nella vita e nell’opera di Rocco Scotellaro, e nel 1993 Il Mezzogiorno da Scotellaro a oggi. Economia, Letteratura, Società, presso Liguori di Napoli.
“Il mare ciclope — Terzo Concerto Spettacolo per una identità mediterranea”. Atti del convegno presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici — a cura di A. La Rocca e A. De Crescenzo, Liguori Editore, 2003, Zenobia, Scene Palmirene, Hyria, 2004.
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M.Sbarra, La casa nel sole, di Aristide La Rocca, La Campana, 05-04-1969, pag. 6.
B.Lucrezi, Presentazione de La casa nel sole, Il Mattino, 28-05-69.
M.Stefanile, La casa nel sole, Il Mattino, 9-10-69 pag. 3.
V.D’Alessandro, La casa nel sole di Aristide La Rocca, A. Fiory, 1970, opuscolo.
F. Bruno, L’intelligenza e la fantasia, Roma, 24-11-1971.
G.Catalano, Sperimentar dicendo — Interferenze e letture critiche: tre poeti (G. Favati, A. La Rocca, A.M.Moriconi) in I Cancelli dell’Ermitage, pp.463-468, Giannini, 1974, Napoli.
Giovanni Ariola, Poesia, un atto, un fatto. Hyria, anno V, n. 3, Settembre 1977.
L Miele, Aristide La Rocca —Dieci Frammenti — Esperienze letterarie, anno IV, n. 4, 1979, pp. 137-138.
P. Iorio, Aristide La rocca — Dieci Frammenti — Riscontri — anno II, n. 1 Gennaio-Marzo 1980, pp.133-136.
C.F.Colucci, Poeti del Sud da non dimenticare. La Fabbiola, Gennaio-Febbraio 1982.
A.M.Moriconi, Ciao, Gutenberg: La Rocca in edizione orale, Il Mattino 23-07-82, pag.3.
M. Sovente, La poesia in Campania, Frammento VIII di Aristide La Rocca, Ed. Forum / Quinta Generazione. Settembre-Ottobre 1985.
V.Ammirati, La coscienza poetica mediterranea. Ipotesi di definizione storica, Hyria, n. 50, Settembre 1987.
G.Mercogliano, I Frammenti dell’amore, Hyria, Settembre-Dicembre 1995, pag. 26.
G.Mercogliano, Il frammento Sibarita, Hyria, Dicembre 1996-Marzo 1997, n. 77-78.
A.Saveriano, Scene Bizantine, Il fascino di Teodora, Corriere dell’Irpinia, 24-04-2003- pag.8.

CARLO FELICE COLUCCI

È nato a Riccia (CB) nel 1927 ed è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico e di ricercatore. Fra l’altro, nel corso degli anni Settanta, ha svolto ricerche sui ritmi circadiani; ricevendo molti consensi internazionali. E’ presente fra le voci bibliografiche dei Meridiani Mondadori di Giorgio Bassani, Giorgio Caproni e Vittorio Sereni. Ha collaborato come elzevirista del Mattino negli anni 70/80.
Ha pubblicato le raccolte di versi: Fenéste int’o scuro (Roma, 1960), Una vita fedele, (Guanda, Parma, 1963), La pagaia (De luca, Roma, 1967), Poésies, (Millas–Martin, Paris, 1969), Placebo, (Lacaita, Manduria, 1975), Preghiera occidentale, (Guida, Napoli, 1981), Check-up, (Almanacco dello Specchio, Milano, 1983), La bella afasia, (Lacaita, Manduria, 1983), Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1987), A fuochi spenti, (id. 1992), Il viaggio inutile, (id. 2003). Selected Poems (Plaquette bilingue in italiano-inglese, Gradiva Publications, New York, 2003), nella traduzione di Luigi Bonaffini, La materia dei sogni, (Lo spazio edizioni, Napoli, 2004). Ha pubblicato i romanzi: La corsia, (Rebellato, Padova, 1972), I figli dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma, 1979), I fuochi di Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna, 1985), Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi, Milano, 1993). E, dopo un lungo silenzio dovuto a malattie i saggi La parola perduta: da Bassani a Borges, a Svevo, a Zanzotto ecc.(Guida, Napoli, 2005, Le città dei poeti, (Antologia), Guida, 2005.
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G. Nogara, Messaggero Veneto, 22-6-62.
M. Pomilio, Il Mattino, 27-6-1963.
G. Titta Rosa, Almanacco letterario, Bompiani, 1964, pag. 156.
G. Ravegnani, Osservatore Politico Letterario, marzo 1964, p. 108.
E. F. Accrocca, Prospetti, dicembre 1967, pag. 781.
F. Bruno, Roma, 3-4-1967.
G. Vigorelli, Tempo, 6-8-1972.
A.Bevilacqua, Oggi, 3-10-1972.
S. Ramat, Forum Italicum, dicembre 1975, pag. 423.
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L. Compagnone, Produzione e Cultura, giugno 1982, pag. 150.
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M. Forti, Check-up,Almanacco dello Specchio, n. 11, 1983.
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G. Rugarli, La vita un viaggio effimero sul ponte sospeso tra due nulla, Il Mattino, 20 luglio 2003.

FRANCO CAVALLO è nato a Marano (Na) il 3 gennaio 1929 e morto a Cuma il 15 maggio 2005. Per moltissimi anni ha risieduto a Roma, facendo il giornalista e lavorando per la televisione.
Ha sempre alternato la sua attività di scrittore a quella di operatore culturale. Negli anni Sessanta ha fondato il Premio Argentario, una prestigiosa istituzione culturale che ebbe tra i vincitori Franco Fortini, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli, Tonino Guerra, Alberto Moravia e altri. Nel decennio successivo ha fondato le riviste Altri Termini, che ha diretto per oltre un ventennio e Colibrì. Tra le sue principali opere poetiche: Fétiche (Guanda, Parma 1969), I nove sensi (id. 1971), Flusso (Altri Termini, Napoli, 1976), Ziggurat e Frammentazioni (id. 1979), L’alfabeto dei numeri (id. 1981), La nascita del Principe (Edizioni del Vicolo del Pavone, Piacenza 1988), L’animale anomalo (Altri Termini, id. 1992), Nuove frammentazioni (Anterem, Verona, 1999, Premio Lorenzo Montano 1999 e Premio Feronia 2000), Nuvole e angoscia (Orizzonti meridionali, Cosenza 2001). Ha curato le antologie poetiche Zero. Testi e antitesti di poesia (Altri Termini, Napoli, 1975), Coscienza & evanescenza. Antologia di poeti degli anni Ottanta. (S.E.N. Napoli, 1986), Poesia italiana della contraddizione, in collaborazione con Mario Lunetta (Newton Compton, Roma 1988). Ha collaborato, nel corso degli anni, a molti giornali e riviste, tra cui: La fiera letteraria, Tempo Presente, Civiltà delle Macchine, Il Mattino. Ha curato per l’editore Guanda antologie poetiche di Tristan Corbière (1965), di Pierre Reverdy (1966) di Max Jacob (1969).
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G. Caproni, La fiera Letteraria, dicembre 1957.
G. Ravegnani, L’Osservatore Politico e Letterario, gennaio 1958.
D. Valli, L’albero, nn. 30-33, 1958.
F. Simongini, La Giustizia, 20 settembre 1959.
M. Grillandi, L’Osservatore Politico e Letterario, 2 febbraio 1960.
C.Vivaldi (a cura di) Poesia satirica nell’Italia d’oggi, Parma, Guanda,1964.
A. Gatto, L’Espresso, 20 luglio 1969.
C.Vivaldi, Avanti, 26 luglio 1969.
S. Ramat, La Nazione, 19 agosto 1969.
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G.B. Squarotti, Dai postermetici alla post-avanguardia, Lucarini, 1982.
G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Milano, Mursia, 1983.
C. Ruggiero, Verso dove, Napoli, Glaux, 1984.
M. Sovente, La poesia in Campania, Quinta Generazione, Forlì 1985
M. Lunetta, La poesia a Napoli, 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio, Ed. Tempi Moderni 1992.
A. Maglione, La poesia a Napoli negli anni Quaranta e Cinquanta . N.E.T.M. 1992.
L. Pignotti, La poesia a Napoli, op. cit.

ANTONIO SPAGNUOLO è nato a Napoli il 21 luglio 1931. Presente in numerose mostre di poesia visiva nazionali e internazionali, inserito in molte antologie, collabora a periodici e riviste di varia cultura: Altri Termini, Hebenon, Il Cobold, Issimo, L’immaginazione, L’involucro, L’Ortica, Lo stato delle cose, Mito, Offerta speciale, Oltranza, Poiesis, Porto Franco, Terra del Fuoco, Vernice. Ha diretto la collana “poesia” per Guida editori. Attualmente dirige la collana “L’assedio della poesia” e “poetry wave” in internet. Nel volume “Ritmi del lontano presente” Massimo Pamio prende in esame le sue opere edite tra il 1974 e il 1990.Tradotto in francese, inglese, greco moderno, iugoslavo, spagnolo. Per la poesia ha pubblicato: Ore del tempo perduto, Intelisano, Milano, 1953, Rintocchi nel cielo, Ofiria, Firenze, 1954, Erba sul muro, Iride, Napoli, 1965, pref. di Gaetano Salveti, Poesie 74, S.E.N. Napoli, pref. di Domenico Rea, Affinità imperfette, S.E.N., Napoli, 1978, pref. di Mario Stefanile, I diritti senza nome, S.E.N., Napoli, 1978, pref. Massimo Grillandi, Angolo artificiale, S.E.N., Napoli, 1979, Graffito controluce, S.E.N., Napoli 1980 pref. di Giovanni Raboni, Ingresso bianco, Glaux Napoli, 1983, Le stanze, Glaux, Napoli, pref. di C. Ruggiero, Fogli dal calendario, Tam Tam, Reggio Emilia, 1984, pref. di G.B. Nazzaro, Candida, Guida Napoli 1985, pref. di Mario Pomilio (Premio Adelfia 85 e Stefanile 86), Dieci poesie d’amore e una prova d’autore, Altri Termini, Napoli, 1987 (Premio Venezia 1987), Infibul/azione, Hetea, Alatri, 1988, Il tempo scalzato, All’antico mercato Saraceno, Treviso, 1992 (Premio Spallacci 1991), Dietro il restauro, Ripostes, Salerno 1993, (Premio Minturnae 1993), Attese, Porto Franco, Taranto, 1994, illustrazioni di Aligi Sassu, Inedito 95 inserito nell’antologia di Giuliano Manacorda “Disordinate convivenze” edizioni L’assedio della poesia, Napoli, 1996, Io ti inseguirò, (venticinque poesie intorno alla Croce), Luciano Editore, Napoli, 1999, Rapinando alfabeti (pref. Plinio Perilli), Napoli 2001, Corruptions, Gradiva Edizioni, 2004, Per la prosa ha pubblicato: Monica ed altri, racconti, S.E.N., Napoli, 1980, Pausa di sghembo, romanzo, Ripostes, Salerno 1994, e volumi per il teatro: Il cofanetto – due atti — L’assedio della poesia, Napoli, 1995, Nu pippolo e’ o guardapettole — due atti in vernacolo napoletano, 1996,
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G. B. Squarotti, Netum, maggio 1980.
L. Canali, Paese Sera, 2-3-1981.
F. Capasso, Il giardino delle meraviglie, La ginestra, gennaio 1985.
F. Di Carlo, Ottonovecento, marzo/aprile 1985.
A. M. Moriconi, Il Mattino, 1-6-1985.
F. Cavallo, Coscienza & evanescenza, Ed. S.E.N., 1986.
F. Doplicher, Il pensiero, Il corpo, Ed. Stilb, 1986.
A. Spatola, La battana, n. 80, 1986.
C. Di Biase, Il ragguaglio librario, n. 1, 1987.
S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno, Ed. Spirali, 1987.
W. Nesti, Punto d’incontro, febbraio 1990.
M. D’Ambrosio, La poesia a Napoli, (1940/1987), Nuove Edizioni Tempi Moderni, 1992.
M. Lunetta, La poesia a Napoli, Nuove Ed. Tempi Moderni, 1992.
A.A.Rosa, Dizionario della letteratura italiana del 900, Ed. Einaudi, 1992.
A. Carandente, Oltranza, n. 1, marzo 1993.
D. Cara, Portofranco, luglio/sett. 1994.
G. Manacorda, I Limoni, Ed. Caramanica, aprile 1994.
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C. Vitiello, in Novilunio, 1993/1994, marzo 1995.
G. Ferri, Forme barocche nella poesia contemporanea, ed. L’assedio della poesia, Napoli 1996.
G.B.Nazzaro, Dibattito col poeta, (La poesia a Napoli) Ed. Ilitia,1997.
V. Esposito, L’altro Novecento, vol. III, Ed. Bastogi, 1997.
G. Moio, in Terra Flegrea, 8 novembre,1997.
R. Bertoldo, Hebenon, anno III, aprile 1998.
P. Perilli, in Melodie della terra, (novecento) Ed. Crocetti, 1998.
D. Maffia, La poesia italiana verso il nuovo millennio, ed. 2001.

G. BATTISTA NAZZARO è nato a Montesarchio (BN) il 2.10.1933. Dal 1959 vive e lavora a Napoli. Negli anni Sessanta ha fondato con altri “l’Operativo 64” e ha fatto parte del Gruppo 70 con Lamberto Pignotti ed Eugenio Piccini, sperimentando poesia visiva e poesia tecnologica. La sua prima apparizione in pubblico è avvenuta nel 1965, alla Galleria Guida, in una mostra di poesia visiva, assieme ad Achille Bonito Oliva, Felice Piemontese e Antonino Russo. Il catalogo contiene inoltre poesie tecnologiche degli espositori. A Novembre interviene nello spettacolo Poesia e no 3 alla libreria Feltrinelli di Roma. Nello stesso anno sue poesie sono pubblicate su Arte oggi (nn. 23-24, luglio-dicembre 1965) e sulla rivista il Portico (n. 6, dicembre 1965). Molta intensa risulta la sua partecipazione a collettivi di poesia visiva in Italia. Interventi teorici e poesie sono ospitati sulle riviste 3 Rosso (n.2, giugno-agosto 1966), Il Portico (n.7, luglio 1966 e Dopotutto-Letteratura (nn. 82-83, luglio-ottobre, 1966), Linea Sud (nn. 5-6 aprile 1967 e in Umanità Nova (25 novembre 1967).
Nel 1971 escono i saggi: Arti figurative ed avanguardie a Napoli in Arte e Poesia, a. III nn. 11-14: G. Pietro Lucini: Un fossile sbalorditivamente acceso, in Incentivi nn. 3-4. Compila inoltre otto profili di artisti meridionali per il primo e secondo volume dell’Arte contemporanea italiana (a cura di G. Quarta e F. Sossi), Ed. Presenza, Roma. Nel 1972 nella Rivista Prospetti, esce un folto gruppo di sue poesie. Con Franco Cavallo e Antonio Testa progetta la rivista Altri Termini. A Maggio del 1972 esce il primo numero della rivista in cui viene pubblicato il saggio Il credo estetico di Boccioni, a dicembre esce il n. 2 nel quale appaiono il poema Spartito numerato del silenzio e poesie da Silloge minore; pubblica, inoltre nello stesso numero la recensione-saggio La disoccupazione mentale. Nel 1973 esce Introduzione al Futurismo (Guida Editori, Napoli e la raccolta di poesie Roditore di Cancro, SIC. Altri Termini, Napoli. Nel n. 3 di questa rivista esce il saggio-recensione Lo stuzzicadenti di Jarry. Nello stesso anno abbandona Altri Termini e con Sergio Lambiase, Dario Spera, Antonio Testa e Glauco Viazzi fonda la rivista ES. Qui pubblica diversi saggi: Paolo Valera e la letteratura della sopravvivenza (n. 1 giugno-settembre 1974), Nel mondo di Sam Dunn (n. 2, gennaio 1975), L’essere Sinadinò (n. 3, febbraio-maggio 1975); L’Ekpyrosis e il miraggio nella poesia di Tito Marrone (n.5, settembre-dicembre 1976); Accumulo e proliferazione in Lucini (n. 7 gennaio-aprile 1978); Papini, il pragmatismo e il futurismo (n. 8, maggio-dicembre 1978); L’Hebdomeros di Giorgio De Chirico (n. 11, settembre-dicembre 1979); Poetica ed immaginario nella scrittura di D’Annunzio (nn. 12-13, gennaio-agosto 1980); Una nobile follia e la rivolta della Scapigliatura viene pubblicato nel 1976 negli Atti del Convegno dedicato a Igino Ugo Tarchetti. Nel 1977, esce a Losanna, nel volume curato da G. Lista, Marinetti et le Futurisme, presso Editions L’Age D’Homme, il saggio Idèologie marinettenne et le fascisme mentre nel volume luciniano Il Tempo della Gloria, curato da B. Malacrida, viene accolto il saggio Impegno ed ideologia in Lucini (Edizioni del Teatro Stabile di Como, Como 1977). Pubblica nel 1994 Ulisse, Dibattito col poeta (1997), e per la poesia Melusina, Marcus Edizioni (1997), e Frammenti per Poema, su Secondo Tempo, Marcus Edizioni, Napoli 2001, Piccolo poema barocco, Ogopoco, Potenza-Napoli, 2004 Il naso del clown, (racconti e aforismi) Marcus Edizioni, Napoli, 2005, e l’antologia Poeti in Campania, Marcus, Napoli, 2005.
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L. Chierchi, Fra negazione e oltre in La situazione poetica, Ed. del Naviglio, Milano 1969.
G. Zampa, I futuristi, arrabbiati, incompresi, in Corriere della sera, 9 febbraio 1973.
M. Lunetta, Nel fenomeno del futurismo, in L’Unità, 14 febbraio 1974.
L. Anceschi, Sul futurismo in Il Verri, V serie n. 7 ottobre 1974.
G. Zagarrio, Riviste, in Aut, a. III, n. 30, 13-10-1974.
E. Golino, Il socialista sentimentale, in L’Espresso, a. XX, n. 40, 13 ottobre 1974.
M. Ricciardi, Futurismo e società moderna, in Lavoro critico, n. 1, gennaio 1975.
G. Desideri, Un anno di Es, in Rinascita, nn. 51-52, a.33-34 dicembre 1976.
W. Binni I classici italiani nella storia della critica, vol. III La Nuova Italia, Firenze 1977.
I. Gherarducci Ghidetti, Marinetti e il Futurismo, in i Classici italiani nella storia della critica, a c. di W. Binni, vol. III, La Nuova Italia, Firenze, 1977.
F. Barbagallo, Immagini di guerra, in La voce della Campania, a. IV n. 22, 17 dicembre 1978.
F.Piemontese, Napoli nei giorni dell’amarezza, in Paese sera, 1978.
A. Mozzillo, Napoli 40-45: come eravamo, in Il Mattino, 4 gennaio 1979.
G. Desideri, Interviste ai futuristi, in Rinascita, n. 32, a. 36, 24 agosto 1979.
C. Ruggiero, Il seduttore è un clown che fa ridere, in Paese Sera, 3 ottobre 1984.
E. Ghidetti e S. Romagnoli, 900, Sansone Editore, Firenze, 1985.
P. Lavatelli, Siamo ancora futuristi? in L’Unità, 19 maggio 1986.
L. Fontanella, La poesia a Napoli negli anni Sessanta. Una campionatura, in La poesia a Napoli 1940-1987, a cura di M. D’Ambrosio, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli, 1992.
L. Pignotti, La poesia visiva a Napoli, Ibidem.
C.Vitiello L’ossimoro ossia le opposizioni come generazione del mondo poetico in Gian Battista Nazzaro, accluso al volume Melusina. .

STELIO MARIA MARTINI nato nel 1934, docente di materie letterarie è stato tra i promotori dell’avanguardia, dando vita a numerose riviste: Documento—sud, Linea-sud, Continuum, Uomini e idee, Silence’s wake, E/mana/azione, con altri collaboratori quali Persico, Emilio Villa, Diacono, Desiato, Luciano Caruso. Ha partecipato alle grandi mostre Poesia visiva (Cinque maestri) Carrega, Martini, Miccini, Pignotti, Sarenco, Firenze, 1988) e L’ultima avanguardia (Spoleto, 1995). Ha pubblicato Schemi (prima pubblicazione italiana di scrittura visuale, Documento-sud, 1962, e Morra, 1989, Napoli), Turbiglione (Guanda, Parma,1965), Formulazioni non- A (Colonnese, 1972 e Morra, 1984, Napoli), Neurosentimental (Continuum, 1974 e Morra, 1983, Napoli), Calligrammi di Apollinaire (Morra, Napoli, 1984), L’impassibile naufrago (Guida, Napoli, 1986), Breve storia dell’avanguardia, (Nuove Edizioni, Napoli, 1988); Una postilla e altre storie (Mercato del Sale, Milano,1989), Poemi, calligrammi, metri, (Marotta, Napoli, 1991), Labentia signa (Ripostes, Roma, Salerno, 1993), La chiave universale (Morra, Napoli, 1997), Via nel tempo, (Il Laboratorio/Le Edizioni, Nola, 1997) Tramonto della parola, (Bulzoni, Roma, 1999), Tigri e filtri, (Edizioni Morra, Napoli, 2001); Forma sostanziale, Edizioni Morra, Napoli, Napoli, 2002.
Ampia e notevole risulta la sua opera di critica e saggistica.
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L.Caruso, L’avanguardia a Napoli, Schettini, Napoli, 1976.
L.Vergine, Dall’informale alla body art, Cooperativa Editoriale, Torino, 1976.
V. Accame, Dieci anni di poesia in Italia, Studio Marconi, Milano 1976.
E.Crispolti. Poesia da leggere e da vedere, La voce della Campania, n.9,1977, e il secondo dopoguerra, idem n. 13, 1980.
V. Fugone, Il gesto poetico, in Poesia visiva, Studio Santandrea, Milano, 1977.
E.Miccini, Neurosentimental, La Piramide/Multimedia, Firenze, 1977.
V.Accame, Il segno poetico, Mount Press, Samedan, 1977 e Spirali Edizioni, Milano,1981.
U. Carrega, Scrittura attiva, Zanichelli, Bologna, 1980.
Pignotti-Stefanelli, La scrittura verbo-visiva, Espresso/Strumenti, Roma, 1980.
F.Piemontese, Rebus di parole e immagini, Il Mattino, 16-6-1983.
M.D’Ambrosio, Spessore e interferenza, in Campania felix, Castel dell’Ovo, Napoli, 1983.
M. Roccasalva, Neurosentimental, in Artepresente, n. 9, 1985.
L.Caruso, Neurosentimental in Tracce, n. 12, 1985.
M.A. Fusco, Le arti a Napoli, in Napoli, a cura di G. Galasso, Laterza, Bari, 1987.
L. Pignotti, La poesia visiva a Napoli, in Terzo occhio, a. XIV, n. 4, 1988.
R. Barilli, Quei cinque pennelli che dipingono versi, L’Espresso, 26-2-1989.
A. Calabrese, Il futuro di Martini tra poesia ed eticità, Il domani, 21-3-1989.
D.Giugliano, Un dialogo con S.M.M. (Intervista), Enne, 19.10.1990 e S.M.M.(altra intervista) in Voce, a. II, n. 11, giugno 1990.
C. Caserta, Lettere morte, in Agire, a.XIX, n. 10, marzo 1991.
M. Pieri, Giovani poeti e coraggiosi, Gazzetta di Parma, 8-1-1992.
J.F.Bory, S.M.M., in Opus international, n. 130, hiver 1992.
L. Pignotti, La poesia visiva a Napoli, in La poesia a Napoli, 1940-1987, a cura di M. D’Ambrosio, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli, 1992.
L. Vetri, Letteratura e caos ed. del Verri, Mantova, 1984 e Mursia 1992.
A.Trimarco, La scrittura delle pietre, Il Mattino, 5-5-1993.
E. Crispoli, Pittura in Italia, il 900-vol. III, le ultime ricerche, Electa, Milano, 1994.
V. Dehò- D. Giugliano, Belle lettere, Campanotto, Udine, 1995.

UGO PISCOPO è nato a Pratola Serra (AV) nel 1934, vive e lavora a Napoli. Saggista, scrittore, poeta, polemista, ha dedicato una vita alla scuola, dove è stato professore e preside nei Licei prima, ispettore ministeriale poi. Ha vinto un concorso di ricercatore di ruolo all’Università (Letteratura Italiana). Medaglia e diploma di benemerito per la scuola, per la cultura, per l’arte.
Per la saggistica ha pubblicato: Alberto Savinio, (Milano, Mursia, 1973, Vittorio Pica. La protoavanguardia in Italia (Napoli, Cassitto, Futuristi a Napoli. Una mappa da riconoscere (ibidem, 1983), Diego Valeri, (Roma Edizioni dell’Ateneo, 1985), Massimo Bontempelli. Per una letteratura dalle pareti lisce (Napoli, ESI, 2001). Collaborazioni a enciclopedie, atti di convegni, annali, riviste e quotidiani.
Per la narrativa ha pubblicato La casa di Santo Sasso, (Milano, Sellino, 1993), Scuola che sballo, (Napoli, Guida, 1997- Premio Finalista Ischia -Domenico Rea, 1998), Irpinia sette universi, cento campanili, (Napoli, ESI, 1998 — Premio Capri San Michele — 1999), Torneador e i suoi amici, (Premio di narrativa —“Monti Aurunci”, prima edizione, 2001).
Per la poesia ha pubblicato: (in plaquette), Catalepta, (Napoli, L’Arte Tipografica, 1963),- e – (Napoli, La Provincia Editrice, 1968), Jetteratura, (Manduria, Lacaita, 1984), Quaderno a Ulpia (pref. di G. Savarese, Napoli, Guida, 2002), Haiku del loglio, (Nota di G. Manacorda). Ha vinto, tra l’altro, il Primo Premio Gallicanum (1985) e il Primo Premio Luigi Petroselli (1996). Della sua opera si sono interessati: G.C Argan, F.Menna, E. Sanguineti, G. Manacorda, G. Savarese, D.Della Terza, G.Bàrberi Squarotti, S. Lanuzza, C. Di Biase, S.Campailla, F.Durante, C.F.Colucci F.Piemontese, A.Carandente, P.Maffeo, G.B.Nazzaro, M.Sovente, F.D’Episcopo, A.Trione, W.Pedullà, A.Montano, A.Benevento, M. Giodano, R.Mele.

FRANCO CAPASSO è nato a Ottaviano (Napoli) nel 1935. Ha fatto parte della redazione di Pianura, diretta da Sebastiano Vassalli. E’ stato redattore della rivista Oltranza diretta da Ciro Vitiello.
Attualmente fa parte della redazione di Secondo Tempo diretta da Alessandro Carandente. Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Punto barometrico, Pianura/Itinerari, Ivrea, 1976, con prefazione di Raffaele Perrotta; La violenza simbolica, Pianura n. 2 gennaio 1977, Germinario, Edizioni Altri Termini, Napoli, 1979, Il segno e l’incisione, Il Bagatto, Bergamo, 1980, Orme sul lago salato, Edizioni Altri Termini, Napoli, 1983, con prefazione di Dario Bellezza; Febbre, Edizioni Ripostes, Salerno, 1985, con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti e post-fazione di Rubina Giorgi; Storie di vite con ripiani, Alfredo Guida, Editore, Napoli 1991, con prefazione di Gianbattista Nazzaro; Natàlia, Edizioni Ripostes, Salerno, 1993, Poesie del fuoco, Marcus Edizioni, Napoli, 2000, con prefazione di Marcello Carlino e post-fazione di Alessandro Carandente; La luce ha piedi sonori, “Versi avversi”, Filo D’Arianna, Napoli, 2000, Codici, Signum Edizioni d’Arte, Bergamo 2001; Miraggi, Edizioni Fermenti, Roma 2003, con prefazione di Francesco Muzzioli, Dei colori, Marcus Edizioni, 2004.
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G. Pandini, Messaggero Veneto, 30 giugno 1976.
D. Bellezza, Tempo illustrato, n. 51/52,26 dicembre 1976.
A. Genovese, Melangolo, sett/ott. n. 4, 1977.
S. Lanuzza, Prospetti, n. 43/44, sett/dic.1977.
M. Sovente, Il Mattino, 15 settembre 1977.
E. Pecora, La Voce Repubblicana, 2 giugno 1978.
S. Vassalli, L’Unità, 16 luglio 1979.
G. Pandini, Gazzetta di Parma, 20 settembre 1979.
D.Cara, Il sud come definizione e linguaggio, in Progetto selinuntino di G. Barresi, Milano 1979.
G. Manacorda, Rapporti, 18/19, sett/dic. 1980.
G.B. Squarotti, Letteratura italiana Contemporanea, Lucarini, 1982.
E. Fagnano, Notiziario, Il Calderone, n.0, giugno/luglio 1982.
G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983.
N. Cimmino, La Ginestra, dicembre 1983, anno 1 n. 1.
M. Grasso, Napolinotte, 16 settembre 1984.
F. Piemontese, Il Mattino, 8 settembre 1985.
A. Lolini, Il Manifesto, 5 ottobre, 1985.
G. Patrizi, Rinascita, n. 47, dicembre 1985.
J.Ch Vegliante, Les Langues nèo-latines n.255 Paris, dicembre 1985.
G. Manacorda, Letteratura italiana d’oggi, 1965-1985.
S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno, (Guida ai poeti italiani degli anni 80) Ed. Spirali, Milano 1987.
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M. Amendolara, Il giornale d’Italia, 28 ottobre 1993..
M.Carlino, Profilo critico di Franco Capasso in Oltranza, n. 3 maggio 1994.
A. Carandente, Storie di vita con ripiani in Memo, n. 2 febbraio-marzo, 1995.
L. Fontanella, Gradiva, n. 19, Spring, 2001
Figura nelle seguenti antologie e storie letterarie: Le printemps italien, Poésies des annés 70, a cura di J.C. Vegliante (Action poetique, n. 71, 1977), Testi e antitesti di poesia a Napoli, Altri Termini, Napoli, 1978, Sperimentazione linguistica e poesia a Napoli 1960/1980, a cura di Luciano Caruso, Ellisse, Napoli, 1979, Poesia della voce e del corpo, a cura di Matteo D’Ambrosio e Felice Piemontese, Pironti, Napoli, 1980, Altro Polo, a cura di Raffaele Perrotta, University Sydney 1980, Poesia italiana oggi, a cura di Mario Lunetta, Newton Compton,1981, Letteratura italiana contemporanea, Lucarini 1982, Febbre, furore e fiele, di Giuseppe Zagarrio, Mursia, 1983, Variazioni di parola, di Alessandro Carandente, Edizioni Ripostes, Salerno, 1984, Le proporzioni poetiche, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti, Milano, 1985, L’assedio della poesia, a cura di Ettore Bonessio di Terzet, Napoli, 1999, Il paradosso dell’evidenza di A. Carandente, 1985/2001, Marcus Edizioni, Napoli, 2002.

CIRO VITIELLO è nato a Torre del Greco, nel 1936. Si è laureato con Battaglia con una tesi su Ungaretti. A metà degli anni Settanta entrò a far parte della redazione di Altri Termini. Si è interessato alla cultura scolastica e dell’editoria, dedicandosi alla creatività poetica e alla poesia visiva, con collettive personali in varie città italiane. Ha collaborato a quotidiani e riviste. Ha diretto le collane Poesia contemporanea presso Guida e la Linea proteiforme presso Glaux. E’ redattore di Involucro edita a Palermo. Nel 1992 ha fondato la rivista di letteratura e altro Oltranza.
Ha pubblicato un’antologia della giovane poesia dal titolo: La vitalità della poesia italiana a Napoli. Sulla rivista Assiomatico l’antologia poetica dal titolo L’assassinio della poesia. Nell’ottobre del 1995 a Roma, ha curato la rassegna tra arte e poesia dal titolo…. pacifica demenza dei tormenti. Per Ripostes dirige la collana Poeti contemporanei. Per la scuola nel 1994 ha pubblicato un commento a novelle del Boccaccio dal titolo Calandrino.
E’presente in antologie e letterature. Suoi testi sono stati tradotti in greco e in inglese. Un oratorio Requiem, è stato, nel 1995, musicato dal maestro Vincenzo Pellegrini.
Ha pubblicato le seguenti opere:
Poesia: Corpor.azioni, (Altri Termini, 1975), Ciclica, (Guida, 1979), finalista al premio Biella 1980, Apocalipse, quattro (Loffredo, 1980), Cantico d’Erugo (Il Bagatto, 1980), Didimo (Glaux, 1983), Le resistenze (Glaux, 1983). Ha traslitterato Quisquis o delle solitudini di Marcel Mahaut (Benolt Editeur, Paris, 1995, Suite (Guida, 1984), finalista al premio Carducci 1985, Accensioni (Guida 1991), Rapimenti Ripostes, 1992), Il gioco degli errori (Ripostes 1994), Baara (Alfredo Guida Editore 1995).Il male sorgivo, Edipro, Milano, (2001), La tenue armonia, Pironti, 2003.
Prosa: Le voci leggere (Medusa, 1987), Verso Occidente (Ferraro, 1987).
Critica: Teoria e tecnica dell’avanguardia (Mursia, 1984), Teoria e analisi del linguaggio poetico (Guida Editore, 1984), La logica letteraria (Glaux, 1984).
La poesia italiana contemporanea dal 1980 al 2001 con prefazione di Giulio Ferroni, Pironti Editore, 2003.
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M. Sovente, in Inchiesta sulla poesia, Bastogi, 1978, pag.349.
G.B. Nazzaro, Corpor.azioni, in Es n. 5 1975, Introduzione a Ciclica, Guida, 1979.
G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983, pag. 330.
F. Cordelli, Introduzione a Suite, Guida, 1984.
F. Cordelli, Introduzione a Suite, Guida, 1984.
M. D’Ambrosio, Eccedenza sintagmatica e fenomenologia simbolica in La ricerca letteraria a Napoli, Dick Peerson Napoli 1987 pp. 11-15.
S. Lanuzza, L’apprendista stregone, D’Anna, 1979, p. 144 Lo sparviero in pugno, Spirali, 1987, p. 9.
G. Manacorda, Letteratura italiana d’oggi, Editori Riuniti 1987, p. 224, Introduzione a Baara, Vimage, Napoli 1995.
W.Pedullà, in Poesia italiana della contraddizione, Newton Compton editori, Roma, p.313.
G. Bàrberi Squarotti, in Letteratura italiana contemporanea v. III, Lucarini, 1982 pag.547 (Introduzione a Le voci leggere, Medusa, 1987.
C. Ruggiero, Svelamento di superfici e di abissi nel quarto capitolo di Suite, in Verso Dove, Glaux, 1984, pp.90-113, Il doppio e il semplice in Quaderni dell’Agro, maggio 1984. Poi i due saggi, con rifacimenti, hanno formato la monografia critica in volume: Vitiello, Glaux, Napoli, 1992 pp. 235-235.
G. Gramigna, Introduzione a Accensioni, Guida, 1992.
G. Scotti, Ciro Vitiello poeta d’avanguardia, in Il paese del 17-10-1992.
G. Scalia, in La poesia a Napoli, Edizioni Tempi Moderni, Napoli, 1992 pp.235-236.
M. Lunetta, in La poesia a Napoli, Edizioni Tempi Moderni, p. 206, 1992
F. Piemontese, in Il Mattino del 23-4-1995.

ALESSANDRO CARANDENTE è nato a Quarto (Napoli) il 1958. Laureato in Filosofia, attualmente insegna Materie Letterarie in un Istituto Tecnico Commerciale. Poeta e critico letterario ha pubblicato Passo vegliante, Altri Termini, Napoli 1982, Variazioni di parola, Edizioni Ripostes, Salerno 1984, Extravaganze, ecrivoci, screzi d’alfabeto, Lan, Napoli 1992, Il supplente, Edizioni Ripostes, Napoli 1994, Baudelaire: il sacrificio come gioco, in Oltranza n. 3 Alfredo Guida Editore, Napoli 1994, Corpo in vista, Ilitia Edizioni, Napoli 2001, Il turno, Ilitia Edizioni, Napoli 1996, Bon ton bonsai bonbon, Marcus Edizioni, Napoli 2001, Specchio d’oblio, Signum edizioni d’arte, Bollate 2001, Il paradosso dell’evidenza, Marcus Edizioni, Napoli 2002, Ha tradotto dal francese A la lisière du temps (Al limite del tempo) di Claude Roy, Ed. Ripostes, Salerno-Roma 1992, e di Giuseppe Bilotta Rob Shazar, appunti e disegni, I.G.E.I., Napoli 1993. E’ presente in varie antologie tra cui Coscienza & evanescenza, poeti italiani degli anni Ottanta (Napoli 1986) e Poesia italiana della contraddizione (Roma 1989). Figura invece tra i curatori dell’antologia In my end is my beginning, poeti italiani degli anni Ottanta/Novanta (Ripostes, Salerno 1992). Dirige dal 1997, per conto di Marcus Edizioni, la rivista letteraria Secondo Tempo giunta al libro ventesimo.

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F. Piemontese, Ma i giovani non mancano, in Il Mattino, 1982.
M. Lunetta, Poesia: neo-sperimentalismo materialistico?, in Altri Termini, n. 2. III serie, SEN Napoli, 85.
B. Cepollaro, Tra scrittura e ri-scrittura, in La poesia in Campania, Forum Q/G. Forlì 1990.
E.Lucrezi, Mobilità sperimentale di una interazione, in Hellas, Firenze 15 ottobre 1991.
G. Manacorda, La rivista Altri Termini, in La Poesia a Napoli 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio, Nuove Edizioni, Tempi Moderni, Napoli, 1992.
G.Bilotta, Giocare con le parole, Introduzione a Extravaganze, ecrivoci, screzi d’alfabeto, LAN, Napoli, 1992.
C.Vitiello, La vitalità della poesia a Napoli, in Novilunio, Insula Kilchberg, anno 3° e 4°, 1993-1994.
S. M. Martini, Rosario, il precariota dal futuro impedito, in Il Giornale di Napoli, 9 giugno 1994.
G. Battista Nazzaro, Alessandro Carandente, in Dibattito col poeta, Ilitia Edizioni, Napoli 1997.
M. P. Ruggiero, Dromena: ai confini della parola, in Roma, 29 marzo 1997.
R.Perrotta, Alessandro Carandente, laboratorio di stile in Letteratura — Tradizione, anno I, n. 2, dicembre-gennaio, Edizioni del Veliero, Pesaro, 1998.
U. Piscopo, Recensione a Secondo Tempo, libro sesto in Guida ai libri, mensile anno VII, n. 10, Napoli 1999.
C. Falanga, Le riflessioni in Secondo Tempo, in Roma, 30 ottobre 1999.
V. Magrelli, Manoscritti e libri in fiamme, in Avvenire, 23 dicembre 1999.
L. Ciccone, Futurismo, Il Diagramma 32, Napoli 2000.
F. D’Episcopo, Mezzogiorno mediterraneo, mondo, in Antologia di poeti flegrei, Marcus Edizioni, Napoli 2001.
M.Carlino, Recensione a Il paradosso dell’evidenza. Saggi e interventi (1985-2001), in Secondo Tempo, libro sedicesimo, Marcus Edizioni, Napoli 2002.
A. Spagnuolo, C’è ancora spazio per la poesia? in Il Denaro, sabato 14 dicembre 2002.
G.B.Nazzaro, Uno specchio che riflette un tempo lungo e sofferto in Il Denaro, sabato 18 gennaio 2003.

TOMMASO OTTONIERI pseudonimo di Tommaso Pomilio. E’ nato nel 1958 ad Avezzano (L’Aquila). Vive e lavora a Roma. Ha fatto parte del gruppo “Cryptopterus Bichirris”. Ha pubblicato: Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, prefazione di Edoardo Sanguineti, Milano, Feltrinelli, 1980, Coniugativo, Milano, Corpo 10, 1984, Crema acida, Milano-Lecce, Lupetti-Manni, 1997; Elegia Sanremese, prefazione di Manlio Sgalambro, Milano, Bompiani, 1998, (poesia con disco), L’album crèmisi, Roma, Empiria, 2000, Coro da l’acqua per voce sola, Edizioni d’if, Napoli, 2003.
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E. Sanguineti, prefazione alle Memorie di un piccolo ipertrofico, Milano, Feltrinelli, 1980.
M. Sgalambro, prefazione a Elegia Sanremese, Milano Bompiani, 1998.
G. Alfano, Spettri III. Contesti mediatici e presenze medianiche in Elegia Sanremese di Tommaso Ottonieri su L’Apostrofo, Pietro Chegai Editore.
Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, pag. 181.
G. Gaetani, Contatto, Poesia, Milano, Crocetti, anno XVI, marzo 2003, n. 170, pag.71.
Carlo Felice Colucci, Il Segnale, 2003.

IRENE MARIA MALECORE è nata a Lecce e vive a Napoli. La sua attività letteraria si svolge su due direttrici principali: la poesia e il folklore. Per la poesia ha pubblicato: Il grano già suona, Rebellato, Padova 1960; Le quattro porte, Guanda, Parma 1965; La cabala, Pan Editrice, Milano 1972, finalista Premio Viareggio 1972; Il punto unico, Rebellato, 1978, I° Premio Nazionale di Poesia G.A. Borghese, Palermo 1981; finalista Premio Pontano Poesia, Napoli 1979, Altro luogo altro tempo, Laterza, Bari 1981, II° Premio Ticino, Lugano 1981. La nostra dimora, Edizioni del Leone, Venezia, 1993.
E’ presente in Italian Writing of the 1980’s Poetry and Prose, April 7.8.1989, Harvard University Department of Romance Languages and Literatures. Figura in Yearbook of italian Studies, vol.9, Casalini Libri, Fiesole )FI), Italy 1991, con cinque poesie inedite ed un saggio introduttivo di M. Frank (Harvard University).
Per il folklore, ha pubblicato La poesia popolare nel Salento, Firenze Olschki 1967, Premio Ministeriale dell’Accademia dei Lincei per la Filologia e la Linguistica nel mondo moderno per il 1969). La lotta contro i Turchi epopea popolare di una regione italiana, Torino, 1961. Un dramma popolare che si rappresenta in un paesino del Salento, Olschki, Firenze, 1962. Contributo allo studio del costume popolare talentino, Udine, 1969. Per l’Indice delle fiabe mantovane, Olschki, Firenze, 1970. La superstizione nel “ De situ Japygiae” di A. De Ferraris detto il Galateo. Palermo, 1971. Les drames populaires dans les Pouilles aujourd’hui, I° Congrès International d’Ethnologie européenne, Paris, 1971. Letteratura e tradizioni religiose popolari nel Salento, Olschki, Firenze, 1974.Proverbi francavillesi (Olschki, Firenze, 1974). Occidente e Oriente europeo in un rito spettacolo nel Salento, Gorizia, 1977. Il Museo di tradizioni popolari centro attivo di ricerca e di dialogo, Gorizia, 1978. La religiosità popolare, canti natalizi popolari salentini, Udine, 1980. Tradition et innovation in popular paste-board art in Lecce and Salento (Puglia), II° Congress of the International Society for European Ethnology and Folklore, Moscw, september 30 — october 6, 1982 .
Ha partecipato come relatrice a Congressi Nazionali e Internazionali (Parigi, 1971, Mosca 1982, Zurigo 1987, Bergen 1990). Ha pubblicato un libro di narrativa La Tarànta (La Ginestra, Firenze, 1983).

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L. Orsini, Il grano già suona, Il Baretti, nn. 5-6, settembre-dicembre 1960.
F. Riccio, Il grano già suona, Il Baretti, nn. 19-20, gennaio-aprile 1963.
M. Sovente, La poesia in Campania, Forum Quinta Generazione, n.XII, 1985.
E. Lucrezi, La stagione napoletana de Il Baretti. Il trentennale di una importante rivista letteraria. “Esperienze letterarie”, anno XV, n. 2, 1990.
E. Lucrezi, Mobilità sperimentale di un’interazione,” Hella”s, n.15 ottobre, 1991.
D. Della Terza, Il secondo tempo della rivista Il Baretti: il momento napoletano, in “La poesia a Napoli” 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio, Nuove Edizioni Tempi moderni, 1992, pp. 126 e 128 e segg.
L. Fontanella, Poesia a Napoli negli anni 60. Una campionatura, in “La poesia a Napoli” 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio, Nuove Edizioni Tempi Moderni, 1992, pp.155-159.
C. F. Colucci, Intorno alla poesia a Napoli, “Oltranza”, n. 1, marzo 1993.
E Lucrezi, Dimore in versi di civiltà senza voce, “Roma”, 27 aprile 1993.
S. M. Martini, Cento meno uno, “Omero”, agosto-novembre,1995.

RINA LI VIGNI GALLI è nata a Torre del Greco (Napoli), nel 1932, vive a Catanzaro. Ha pubblicato il suo primo libro di poesie: Contro lo specchio freddo, nel 1979, con la Società Editrice Napoletana, nella Collana diretta da Domenico Rea; e ancora per la S.E.N., nel 1986, nella collana diretta da Giancarlo Majorino, il secondo volume di poesie: Dettati d’aria, con una prefazione di Giuliano Gramigna. Nel 1991 è uscito il libro di poesie: Le parole mansuete, per la collana “Contemporanea”, curata da V. Zeichen e G. Scalise, Ed. Campanotto. E’ stata fondatrice e redattrice della rivista di poesia Incognita, dal 1982 al 1986. In Calabria, dove vive da molti anni, ha fondato il Premio di poesia Tropea- Brutium.
Da più di un decennio collabora alla 3^ pagina de La Gazzetta del Sud.

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M. Grillandi, Prefazione a Lo specchio freddo, 1976.
M. Sovente, in La poesia a Napoli, Quinta Generazione, Forlì, 1985
G. Gramigna, Prefazione a Dettati d’aria, 1986.
D. Bellezza, Scrivere versi — Flirtando con la vita, Il Mattino, 20-5-1986.
W. Pedullà, Dettati d’aria, poesie scritte con le unghie.
M. Spinella, Prefazione a Le parole mansuete, 1991.
F. Loi, La donna ispiratrice dei poeti si ritrova musa di se stessa,
Il Sole 24 Ore,16.2.92.
M. Sovente, Parole mansuete cercano la vita, Il Mattino 31-3-1992.
P. Ruffilli, Tre candide muse con la penna rosa, Il resto del Carlino,
16-9-92.

Nella citazione di alcune note biobibliografiche si è tenuto conto dei dati presenti nel saggio di Alessandro Carandente “Il Turno”, Ilitia, Edizioni, 1996, mancando utili riscontri. Per i testi poetici, riportati, in sintesi, nella sezione – Dalla tradizione, al Rinnovamento, allo Sperimentalismo (trasgressivo)-, si è fatto riferimento ai volumi pervenuti e alle riviste letterarie Risvolti, di Giorgio Moio; Capoverso di Carlo Cipparrone e La parola abitata di Enrico Fagnano. Un grazie particolare rivolgiamo a Carlo Felice Colucci per i documenti letterari messi a disposizione rivelatisi indispensabili per la realizzazione di quest’opera, ad Alessandro Carandente per i libri di Secondo Tempo, e a Franco Cavallo per l’antologia Altri Termini.

Antologie principali consultate

L. Anceschi, S. Antonelli, Lirica del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1953.
E. Falqui, La giovane poesia, ed. Colombo, Roma, 1956.
L.Anceschi, Lirici nuovi, Antologia di poesia contemporanea (1943) 2^ edizione, Milano, Mursia, 1964.
F. Bruno, La poesia d’oggi (1945-1965), Il Sestante, Padova, 1966.
A. Berardinelli — F. Cordelli, Il pubblico della poesia, Cosenza, Lerici, 1975
S.Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Mursia, Milano, 1976.
G. Majorino, Poesie e realtà, 45-75, Roma, Savelli, 1977.
A. Porta, Poesia degli anni settanta, Milano, Feltrinelli, 1979.
L.Orsini, Otto-Novecento- Fra poesia e prosa – S.E.N., Napoli, 1980.
G. Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1981.
M. Lunetta, Poesia italiana oggi, Roma, Newton Compton, 1981.
R. Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981.
G. Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1981.
G.Bàrberi Squarotti, Letteratura italiana contemporanea, Ed. Lucarini, Roma, 1982.
G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia, Milano, 1983.
M. Cucchi, Dizionario della poesia italiana, Mondadori, 1983.
G. Spagnoletti, Letteratura italiana del nostro secolo, Mondadori, 1985.
M.Sovente, La poesia in Campania, Quinta Generazione, Forlì, anno XIII, Sett. Ott. nn.135-136, 1985.
R.Pagnanelli, Studi critici- Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, Mursia, 1991.
D.Cara, La conversazione dell’oggetto poetico, Ed. Laboratorio delle arti. Milano, 1993.
G.Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton Compton, 1994.
P. Giannantonio, Il Novecento Letterario, Loffredo Editore, 1994.
M.Cucchi — S.Giovanardi, Poeti italiani 1845-1995, Mondadori, 1996.
G.B.Nazzaro Dibattito col poeta-Poesia a Napoli- Ilitia-Edizioni, 1997.
N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2000.
G. Majorino, Poesie e realtà, 45-77, Savelli, Roma, 1977 (aggiornata Poesie e realtà, 1945-2000, Ed. Tropea, Milano, 2000.
G. Leonelli, Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato in 10 tomi. Tomo nono, Salerno ed. Roma 2000, (paragrafo XIII: La poesia del secondo 900, a cura di Giuseppe Leonelli
F. Loi e D. Rondoni, Il pensiero dominante, Garzanti, 2001.
V. Esposito, L’altro Novecento, Bastogi, Foggia, 2003.