Moviola d’inverno (poemetto-1992)

 

Edizioni Ripostes, 1992

La presenza dell’assenza di
Francesco D’Episcopo

Moviola d’unverno è la storia perenne e provvisoria di un’idea di vita e di morte, che tende a farsi immagine di sopravvivenza e di suspense. Come in una sequenza cinematografica, le parole snodano i loro intrecci segreti, trasformandosi, opponendosi, risolvendosi in un flusso continuo di coscienza o, meglio, di cosciente incoscienza, sino a sfociare nell’eterno estuario di una recherche à rebours in progress, sempre.
La mappa che il poemetto ridisegna, è quella di una città amara e deserta, percorsa nei labirinti di una chiara geografia e di un inatteso capogiro. Città-isola, città-babele nel continente di segni che la cultura consegna al sacrario del prima, del durante e dell’oltre, tra avidi brogliacci e repentini bagliori. L’universo umanistico dei fondali memoriali risale alla superficie di laser lancinanti. Il gioco, serissimo, è tutto nella capacità della parola di farsi leggera portatrice di musica per poi sprofondare nel baratro di un allucinato speculum esistenziale.
Partire per perdersi, per rinnovarsi, per riaffiorare ai sensi smarriti di un corpo che torna a farsi anima, destino di vita; è, questo, il viaggio suggestivo, che il testo di Gabriele percorre: una specie di sortita dal grembo materno, per un recupero effimero dell’eterno. Il sereno silenzio di quei lunghi mesi d’attesa permetterà di tollerare ogni altra forma di deserto, soprattutto nei momenti in cui il naufragio di ungarettiana memoria, diverrà allegramente ineluttabile. Di questa nuova prova poetica di Gabriele va certamente evidenziata la matura compattezza espressiva, nell’intimo scambio di idea e di immagine, di memoria e di profezia, di dialogo e di monologo ossessivi. Controllato e travalicante insieme, come nelle migliori prove, è il tentacolare assunto della fantasia, che crea, distrugge, risorge, araba fenice, dal silenzio di una città, che produce allergie e provoca fobie, come, del resto, la poesia, che con quella ville translumière si identifica più intimamente. La campanelliana città del sole ha ceduto il posto alle luci e alle ombre di un circoscritto continente mentale e visuale:” Qui mi chiudo e circoscrivo /, resto nel mio abbondante maggio di visi e figurine /, qui mi trapasso e vedo / in lampeggiamenti e oscuramenti di buie colline /. La moviola seguita a registrare il rientrare e l’uscire dell’essere dal giardino delle proprie realtà ed illusioni, in un sussulto intenso di visioni e di stagioni. L’esilio e l’eclissi scandiscono i ritmi di un esistere, segnato da morti e resurrezioni, da ciclici abbandoni e ritorni alla voluttà della parola, tra sogno e veglia. Il risultato allucinato, ma autentico, è l’essere, al principio e alla fine , ombra di se stessi, immagine stemperata di una presenza, che evoca fantasmi di assenza. Essere presenti in un mondo, in cui si risulta storicamente assenti, è l’antico mito-realtà di una civiltà, che consuma i fermenti psicanalitici di cicli esistenziali, carichi di attesa e di sorpresa. E che cos’è la poesia se non la sorpresa dell’evento? Il segreto dell’evidenza? che questa flessuosa sequenza di Gabriele porta alla luce con ostinata, disperata meraviglia; ma anche con fervida fede nel potere di una parola liberatrice. Nei suoi rivoli allitterativi, nei suoi suoni analogici, l’ombra ritrova, anche se solo per rapidi barlumi, la luce, una parvenza di assoluto. E’, tuttavia, in un gioco sottile di seri equilibri espressivi riposto uno dei nodi metaforici di questa poesia, altamente bassa, melodiosamente dissonante. L’avvolgente schema medievale della comedia, torna a far valere la fragile forza delle sue ragioni: prima della vita, oltre la morte, in una trasmigrazione di anime assorte, fluttuanti nell’inesistente discrimine tra la vita dei morti e i morti della vita. Che è po l’essenza più paradossale e vitale di questo poemetto, che respira atmosfere letterarie pregne di suggestioni metafisiche, di risonanti enciclopedie, di risucchianti geografie. L’affabulante aria, che lo percorre, evoca mitografie, chiamate subito a misurarsi con la minimalità di una cronaca avida e assurda. E’ forse, nella follia delle cose, che si fanno parole, riposta la chiave di lettura di un mistero, che supera ogni confine.
Tra assoluto e relativo, tra scontrosità e confidenza, si logora e si risolve la tensione di un canto, che invoca la città della poesia come centro e periferia del mondo, in un Molise che incontra l’Europa in un comune destino di vita e di morte.

I

La mia città ha sussurri e gridi, cipressi e olmi.
Mancano le torri, i capitelli, i giri di chiave
della funicolare. Una città, dico, di chiuse carte
e di tenera botanica non cede al trapassante oltraggio
della stagione se in essa matura e cresce un male
di piante occidentali, qualche storia di madame,
una biblioteca in versi con l’Allegria dei naufragi
trovata a caso tra i Quaderni di Malte Brigge.
Riscopro così le carte, la muleta, le rosse banderillas
delle tue stagioni all’inferno, i fogli d’album
con il piccolo enfant all’ombra della stanza
che già sognava allegorie,
mentre avanza la stagione,
mi invita al suo dolce dialogare,
mi rivela, ancora e per un poco,
gli ultimi grovigli di piante boliviane.
Esce allo scoperto e si fa avanti
il non visibile, il non tracciabile.
Trapassa come un laser una figura
di bagliore antelucano, mi sollecita
storie più pacate, mi lascia al mio fondale,
alle maree di plàncton e alghe.

II

Uno giunto all’improvviso, predatore di conchiglie e perle,
perduto di vista e privo di notizie,
s’infila nella memoria, sfoglia brogliacci e album
poi si eclissa.
“Gli anni” dicono quelli che mi stanno accanto,
mentre si preparano al banchetto e depongono uncini e ami,
“non cancellano il deviante mistero dell’estuario”.
Filtra dal suo vuoto lunare
di nuovo il predatore di conchiglie e perle,
propone ipotesi, camminamenti,
poi dilegua col suo fosforico bagliore
Brucia così la restante polvere della stagione,
si fa fiamma, cenere di sole.
Viene a tratti un ciarlare mesto
da un’altra vita passata in transumanza.
“Sostano” mi dice, “ogni tanto da queste parti
i trasmigrati, i trasmigranti,
tutti nel ricordo, tutti chiusi come in uno scrigno”.

III

Riparte da altre lande la luce crepuscolare.
Si fa avanti con la sua fragilità di piuma
una dialogante venuta a portarmi magre ceneri
e Pasque illuminate.
“Se scriverai un cantico per me”, trafora il silenzio
la sua voce, “aggiungi alla fine che niente più minaccia
da vicino o da lontano, il colle antelucano,
nè il lume di muta fede
ravvivato per anni e anni nella mesta casa
come per una lunga attesa.
Questo dirai, per amore e per saggezza
con quieto parlare onesto”.
E forse ero io il timido beghino
lasciato solo ai camini vuoti di calze e di befana,
ai graffi della neve, al vento,
al tepore di un’età che più non c’era.

C’era con la spera di maggio
l’orto che non dava più una cicala,
l’eco di una voce assai velata:
“Mario, già si spoglia il bosco del suo colore
e da noi allontana il sole il suo docile splendore….
Oh amaro, lento inondare delle ore!….”
Mi distraeva allora la giornata corta,
la lunga fila dei Martinitt davanti alla stazione,
poi più nuove soffuse aurore.

IV

Lungo un fiume silente nacque un dì l’amore per la vita,
ma un inverno corsaro dovè mettersi a centro,
stringere d’assedio il rivo amico.
Ora tutto presto annotta
e lungo il fiume fa mercato una buia malinconia.

“O donna mia, già tace ogni sentiero…”
Questo è il castello, il cataletto,
queste le dolci lacrime,
le belle e poche pagine della Storia Universale,
questa è la terra promessa e desolata,
questi sono i fiumi, i lumi, il Canto di Sweeney
questo il guscio di noce, il nocino….

Sulla soglia del mio tugurio
vanno e vengono le belle lumachine
come un nero corteo di tacite clarisse.

Vanno, vengono con le mille e più parabole dell’Ecce Homo,
Le Mistère de l’Homme,
l’inesauribile tomo di nascite e morti,
le meste ariette ai bordi degli orti
come un mieloma d’amore.

V

Ha mura altissime la mia città: cancelli a barre fitte
e cariatidi per chi attende canti di mura e feritoie,
dopo i mille e più lumini e i folti pini,
tra allergie di parietarie
e fobie di galassie collassate,
nè so andare oltre questi sassolini,
queste fitte nebbioline di marzo
nel breve giro di vita o di passo.

Qui mi chiudo e circoscrivo,
resto nel mio abbondante maggio di visi e figurine,
qui mi trapasso e vedo
in lampeggiamenti e oscuramenti di buie colline.

Chi si ferma scruta l’orizzonte
se mai verrà acqua dalla nuvola sul monte,
prevede mesi oscuri,
poi riparte come rondine dopo l’acquazzone.

Così ogni mattina si screzia un’avventura di luci d’oro
quando su te scende l’alba come un varco sopra i tetti
e mi riporta come in un sogno la lunga storia dei graffiti
e dei Numisi.

Altro non giunge o sopravviene da oltre le mura.

VI

Madame, i giardini d’Oriente danno profumo di mirra
e àloe, spingono oltre le savane il ghiblì di pollini odoroso,
resterò in ombra, sarò per voi le mille e più tristezze della sera,
ripeterò, se lo vorrete, a voce bassa e a mani giunte:
“non è questa la mutevole forma, la Pasqua dai lunghi lavacri,
discesa nelle grotte, calata come l’ombra del passato,
con le sue polveri e detriti, quando marzo s’allontana
e poi torna come luce di biancavela”.

Che sarà di noi?
E che si dice di là nella vita
di là da quelle parti là in parte?
E che fanno i grandi oggetti
e tutte le cose-cause
e il radiante e il radioso?

Meglio sarebbe parlarne al settembre vespertino
a chi promette un giugno di pace
come una danza o giga,
ora che tutti hanno punte per ferire
e si tramuta in guerra anche l’ultimo pensiero.

Di nuovo altri passaggi,
altri cunicoli lungo la città di merli e feritoie.
A sera porremo per tutti un bouquet di loto e di talee.
Ognuno avrà freschezza di lini e di rugiada
e tutto si compirà in prodezze d’oracoli e scritture,
fuori da ogni cancello a barre fitte,
in un tempo oscuro e breve,
poco più d’un attimo, una stagione…..
“O fronda mia….pur aspettando, io fui la tua radice!

VII

Senza danno maturano gli ovi e le rosse uvette.
A sciame tornano le vertigini e i lievi acufeni.

O dolce luna, lucina,
se tutto ho perduto sotto l’acero amaro
che cosa ancora mi chiedi e affastelli
ch’io non sappia o non veda,
qui aggrumato, esiliato,
io già eclissi, già bosco disboscato?

Scuote la sera la vigile pietà dei pioppi.
Riporta messaggi e tracce
di là dai morti lungamente abbandonati.

Dunque miei veli, miei geli invernali
che fate corona ad un ceppo di memorie,
quando più lunga si fa l’ombra sopra i muri,
dite ora se, sognando o trapassando,
di là dalle nere carbonaie,
tra grappolini d’uva asprigna e rosse uvette,
resti di noi, dopo il crollo degli sfaceli,
solo un addio o la brezza che muove i rovi
e fa ogni cosa primavera?

Questo suppongo e presumo,
oppure che qualcuno parli chiaro dopotutto.

VIII

I pochi rimasti nella veglia
non attendono miracoli dal guru.
Guardano le sfere passare oltre,
dilagare gli anni in lutti e gioie,
mentre un astro, tagliato dalle rondini,
mette in luce la trama delle felci.

Chi parla avverte il peso dell’età,
sentenzia che il tempo brucia più della lama
in mezzo al petto,
torna in me, in certe pause nella stanza,
più di una volta e anche meno,
quel vento, quel turbine che non finisce mai.

IX

“Se mai verrà il rovello di novembre”,
mi dice uno uscito dalla penombra,
uno dei pochi rimasti nella veglia,
“sarà solo pausa di un momento,
frutto acerbo di stagione”.

Il giorno se non muta
prepara ovunque tragedie o esche.

A quel nunzio fattosi avanti,
un poco per saggezza e per sorpresa,
chiedo se è verità o menzogna
la chiusa del suo discorso.

Mi dice che la vita è pietà e remissione,
caduta e ascesa,
e così parlando non va oltre il lampo,
il taglio di rondini in verticale.

Ciascuno, a modo suo, porta speranza e umile certezza,
poi nel fondo della stanza tornano a smarrirsi
quelli rimasti nel sonno o nella veglia
fino a quando brucia la fiamma o si spegne la memoria.

X

Nell’ora adusa a ricordi e amore,
finiva l’ultimo tumulto,
tutto rinasceva in luce e ombra
anche il sentiero aperto alla campagna.

A tratti subentrano voci nuove,
affermano che nulla varia nel circondario,
ripetono, ciascuna per proprio conto,
come vedette o pattuglie sgusciate fuori
da qualche stanza o feritoia,
che niente passa tra foglia e ramo, tra nido e albero,
mentre tenta di salire in alto la bufera
su un muro che è piramide del tempo,
secolarità mai infrante dai cumuli degli anni e dei preevi,
in una zona che è luogo o corte di foglie e di viventi,
non oltre la porta, non più di là dall’acciottolato del decumano,
in una città senza croci e nomi,
una necropoli sabina con crepidine in mezzo al verde,
in un altro proscenio o teatro della vita
dove irrompi ad occhi mesti
e il gallo mattutino non ha voce, nè coda
per segnare la strada di vipere e lucertole..

XI

L’avessi trovata tu la via dei fiordalisi,
fuori dall’ombra, noi ombre di noi stessi,
tristezza del – qui e ora -,
come un perdurare di nebbie sopra le colline;
l’avessi trovata tu la strada che porta al mattutino
oltre i rovi bagnati dalla brina!

Qui da molti anni mi avvolgono le nevi.
A goccia scende l’amara digitale
come una elegia di passeri tra le fitte selve.

Torna dal monte il mese sui folti pini,
mi lascia nei lini, nelle mie lane caprine,
passa su selve e slavine,
mi cuce con gli aghi di ghiaccio
il bosco d’acacia e di parietaria.

A Natale i fiori mettono ombra sui campi e sulle fosse
come se in un solo colpo tutto fosse dato o nato.

Mi spigolo nel mio sum, nel mio fuit,
come il piccolo enfant
che una volta sognava allegorie
all’ombra della balaustra antica.

Qui nulla sappiamo delle nevi
che ancora cadranno su piume e licheni,
nulla ancora del nostro dolore
e di tutto il fitto e oscuro fogliame.
Ritorno alle Pasque di nevi, al transene,
ai Quaderni di Malte Brigge
o Signora di glicini e giardini, mia dolcissima musique!

XII

Ci vuole poco alla stagione, all’arrogante arpia
cancellare tutto con un colpo di cimosa,
portare colpi, annullare nomi, luoghi, tracce….
Mai ho creduto, neppure per un istante,
che questo albume d’alba potesse allontanare
il folto di selve e slavine.

“Oh la rue de la vie e il nido d’ape dei giorni a croce”!
Me ne stavo all’ombra del patio antico
tra avvitamenti e spasmi multipli….

“Monologare acerrimo e crudele,
dimmi tu, sono cresciute le brecce sui muri
e dove vanno, dove portano i lievi franamenti, oscuramenti,
sine verbis, sine dolore?”

“Nel fluttuante volo della stagione
ondeggiami al ritmo della tua storia.
Che vuoi, che speri che salga in superficie,
che porti il tiepido favonio?”

“Danson les mille tours de la vie,
la chanson de l’Amour!”
Così a lungo parlava il transumante,
a modo suo la voce della interiorità,
risalita dai fondali, liberata dalle liane
passata per mille e più gironi
nella nebbia del bosco ombroso,
mia lucciola, lucina,
ancora tu, di nuovo qui su selve e slavine,
aspettando l’inverno, lo scricchiolio dei tetti.

XIII

Oh dolcissimo amore, lento a morire,
senza oscuramento nè orientamento,
salutare di qua dalle erbe e calcine,
celato in alchimie di giorni,
la sera bruciava con sè tutto il nulla del mondo.

A volte bvrividi porta l’amarezza,
non ha pietà, non indugia neppure per un attimo,
tra dune di vene e viottoli di sangue,
col suo strascico di visi, cespi, morti….
nè tu sai del Dio venuto nella sera
a scompigliare la somma degli errori,
il Dio del tuo e mio armistizio,
bruciato con le penne, caduto sul suo rovo,
portato a viva forza, a vivere, a esistere
in qualche androne di memoria o angiporto.

Ancora scendono le stagioni,
fanno valanga, ci mettono in ginocchio.

Qualcuno guarda il campo che non mette erba,
segue la pista delle rondini a cerchio sulla certosa,
sparge semi, controlla le morti di ieri
e le nascite di oggi, si difende come può
da ciò che è sterile oppure falsa primavera.

XIV

Fuori il fossato genera paura,
ingigantisce pensieri e ombre
in chi uscito nella notte
va in cerca di case e tiepidi motel,
lungo un muro di cinta per anni e anni
di staffilate, colpi secchi senza frusta.

Qui tra dirupi e fossi, mia luce ardimi dentro,
bruciami in silenzio.

Risaliva la china l’astuto bengalino.
La sera che scese ci colse delusi per il suo ritorno.
Restano a tratti gli anni, i giorni…
A poco a poco sciamano veloci
verso una sommessa quiete
come alla riva il cuore del gabbiano.
Quante volte, quante, passando lungo la strettoia
mi dicevo”si scende nel profondo, si va come il fiume
nella gora, dopo le porpore, i viaggi d’inverno
nel mondo di gelo, di bucaneve,
col suono fondo della martinella”.

XV

“Sostano ogni tanto all’ombra della casa
i canovacci per l’aldilà”.

Parlotta così tra sè e sè il transumante,
il predatore di conchiglie e perle.

Sfugge alla memoria, ignora i transiti, non sa,
neppure immagina come il tempo rallenti
la moviola dell’inverno
il falsoverde nella piana, come altro resti dentro di sè,
di noi, in piccole bolle, in abrasione:
tutto bruciato, defoliato,
raso a pista come un valico dello Spluga o di passo Rolle.

Scatta il non tracciabile, il non visibile,
torna l’ora ladresca, lascia all’addiaccio i trasmigranti
tra rogge d’acqua e malebolge, i visi passati nel pliocene.

Di molti mancano le tracce. Perduti sono i segni e i codicilli.
Nessuno riferisce più notizie, nessuno ritorna
alle balaustre antiche.

XVI

A vortice si disfano i ventosi autunni.
Non vanno oltre il tumulo di pigne e sterpi.
Lasciano poco o nulla a chi rimane nella valle
d’anno in anno sempre più chiusa nel silenzio,
luogo oscuro di qualche fantasma o anima,
mentre la notte porta via quel poco che rimane
e fuori dalle case s’odono gemiti,
lamenti di cani,
passi d’uomini che vanno dove nessuno crede
che vi sia più speranza
là dove Dio coltiva fiori nei bui giorni di disfide o rese,
nel mite vento che avanza
fino all’altopiano segnato dalle slitte,
anche se non è ancora troppo caldo o freddo
e qualcuno di rado passa leggendo breviari
o il Libro dei Proverbi.
Manderò, se posso, altri messaggi da questo luogo,
piccole epistole, frammenti…
La stagione è ancora mite,
per questo hanno chiamato a valle i battitori,
messo a tacere ovunque parole e dubbi.

XVII

Mi sentivo trasmigrare nel lume di Merlino,
fuori dal passato, abbandonato fiore senza nome,
una storia di eclissi e di calde valeriane:
tutta la dolce estetica dell’inverno,
la musica di fiumi e di disgeli.

Torna nel buio la voce cresciuta nella notte
tra vertigini e abissità marine
come una leggera febbre
o un seme buttato nella risiera.

Non ha minacce, nè trappole lontane;
solo mi chiama, perchè così le piace:
– poeta notturno dalle ali di crisalide -,
sempre contro di me rivolta come uno stiletto.

Allontanala quest’eco che non finisce,
spinala fuori dal mio cuore
quando si svuotano i cesti,
i mesti battelli delle ore,
affonda a piene mani,
rapinami in silenzio l’invisibile assioma,
la paloma del Tempo,
i mesti infiniti del verbo…sognare…finire….

Sfogliami piano come un vento d’autunno
o un gelo di maggio, questa eutanasia,
questa eutimia dell’essere e del fuisse.

PICCOLI VIVAI

Al fuovo del bivacco

Si fermarono all’alba, stanchi ma felici
di ritrovarsi al fuoco del bivacco
con vecchi indirizzi di quartiere
e pensieri brevi come nuvole,
un vocabolario per cercare parole non più nuove,
come -casa o albergo-
o un piccolo gazebo con suonatori d’arie viennesi
e il bel volto di Sara, pochi figli mandati in mezzo ai lupi
nella notte di agosto, quella di San Lorenzo,
con molte lucciole a convegno
e il silenzio del nulla sopra il mondo.

Nè più sogni, nè giovinezza ci porterà il domani..
Voli, non voli,
brevi soste lungo i murales dai colori di Gauguin
di una mai spenta città, memoria di giorni e di sommesse voci:
– Sara non abita più qui-
e anni e anni di solitudine e di effimere presenze.

– Chi si ricorderà di noi?
E che diranno mai i viaggiatori venuti dall’Oriente? –
Forse metafore, improbabili guarigioni, letture dalle epistole,
poche tracce dal passato
anche se bisognava attendere alla frontiera,
aprire i bagagli, lasciare i passepartout
al giovane doganiere che chiedeva un rublo
per passare all’altra riva,
e se tutti andassero a Pietroburgo
prima di fermarsi a Medjiogourie.
Fui allora che molti tacquero
lasciando al silenzio la risposta,
perchè è giusto che la fede resti viva,
brilli negli occhi,
rimanga nelle oscurità dell’anima
e nel segreto della sera.

PICCOLI VIVAI

Da questo bosco (un poco brullo per la troppa neve di dicembre,
un tempo senza viottoli o passaggi,
con le fiere che si partono “dinanzi al volto”,
come un’ombra nella mente
o un muro di là dal giardino delle ortensie),
si forma la vita, si dilata in un tenue verde
di quadri e piccoli vivai
tra tiepide tisane e amare pozioni ai pasti o a ore
e le oneste figurine di mestiere
quando dicono che il mondo è “altro”
non questo bosco brullo per la troppa neve di dicembre

dove ogni tanto qualcuno passa,
portatore di notizie e di sventuire,
e molto si discute della lunga barba di Dio
come una cometa nella notte più silente dell’anno,
quando qualcosa s’attende che sopraggiunga per incanto,
nella casa di fumo e lumicini,
come se molta gente fosse venuta a cercare una verità
che da tempo non esiste,
perchè fuori fa freddo,
mancano le luci
e qualche insegna per andare oltre.

Il luogo è quello della volpe
che ansima a metà gola nella neve.

D’altro non c’è traccia
e niente è riportato dagli scribi e amanuensi.

UNA DOMENICA
A Massimiliano

Una domenica serena che poche se n’erano viste
nella stagione assai crudele,
esplose dove bruciavano gli sterpi,
brillò sui fiori oltraggiati dalla brina,
lungo i pendii segnati dalla schiera di bambini,
chi gemendo per il freddo,
chi sognando una città di luci e di mite popolo,
dopo la fuga dai vecchi borghi
dove tutti si è un pò stranieri
anche se c’era chi raccontava storie di lupi
e passatori discesi a notta fonda da oscure piste o valli,
di là dalla campagna, troppo deserta,
per essere luogo di pace e di ristoro,
di qualche viaggiatore
giunto chissà come,
fino al colle delle beatitudini
dove Dio era un signore venuto ad ascoltare delitti e pene,
mentre la turba, uscita dai tuguri,
calava da sopra i tetti
ciechi e monchi per un prodigio
che da secoli nessuno ha mai più visto per le vie del mondo;
poi con un gesto divise chi visse poco
e chi soffrì abbastanza,
prima che le anime, uscite da una nuvola di fumo,
portassero miele e uvette nelle mani di Giantonino.

UNA STANZA

Una stanza troppo angusta, piena di cose inutili,
di libri passat nell’oblio, piccoli progetti di scrittura,
tra rametti di felicità che non danno più fiori
o foglie da mesi e anni ormai,
li ha bruciati il tempo, non hanno età,
rosi come sono da qualche tarlo venuto chissà come,
dopo un lungo scorrere di eventi,
di messaggi mai cifrati e abbandonati tra scaffali
e umidi ripiani:

è vuoto mondo dentro e fuori
quando nel cielo qualche lampo brilla come un segno
sulla terra dalle mille nascite e morti,
prima che faccia troppo freddo e buio
e per le strade tornino le fitte schiere degli infelici
a fare domande, a chiedere notizie dell’angelo nocchiero
che da secoli passa indisturbato in mezzo ai vivi,
mentre si fa gelo tutt’intorno, cade la pioggia
ed è tormenta per le anime all’aperto.