La Poesia nel Sud

La Poesia nel Sud

 

La poesia nel Sud tra dimenticanze e annessioni.

Non dubitiamo che l’opera letteraria, e più in specifico quella in versi, sia un mondo simbolico rivolto al gruppo sociale, secondo la definizione di Matthias Wlatz. Il fatto è che oggi la poesia non è più collettiva. Molti laboratori di scrittura non fanno più ricerca, né si propongono, come forza alternativa, alla dilagante koinè che racchiude un po’ tutte le correnti letterarie del Novecento. Il risultato è un avvilente vuoto operativo, dopo l’abbandono di linguaggi progettualmente utili per la nascita di un nuovo modello poetico, osteggiato dalle case editrici, le cui scelte si riflettono, negativamente, sulla poesia del Sud, per le omissioni e le dimenticanze, che hanno emarginato poeti d’indubbia rilevanza, lasciando aperte tutte le ipotesi di colpevolezza.
“Chi scrive poesie”, ha rilevato Adam Zagajewski, “si ritrova talvolta impegnato, in una difesa delle medesime”, a causa di continue delegittimazioni nel Novecento “che è stato il secolo ammalato di amnesie,” secondo un giudizio di Claudio Magris (in occasione della pubblicazione del volume di Barbara Spinelli — L’Europa dei totalitarismi, – Mondadori-), quando rileva che “la memoria è soprattutto giustizia resa alle vittime di violenza che la falsificazione ideologica cancella dalla coscienza o di cui deforma la verità”. In questo sistema di dimenticanze rientra anche la poesia del Sud, sulla quale pendono diversi capi d’accusa. Con molta probabilità, la nostra emarginazione nasce con il monopolio dei temi intorno alla civiltà contadina e all’immobilismo di un popolo vittima di clan e di malavitosi, nel momento in cui il Nord trovava la strada verso i poli industriali, e nella poesia le ragioni di una progettualità rimodellata sul finire degli anni Sessanta, dai poeti dell’area napoletana e campana, in particolare, da Giuseppe Bilotta, Salvatore Di Natale e Raffaele Perrotta, impegnati in un freework di mutazione verbale di ideologia scissionista, portata avanti anche dal gruppo redazionale della rivista Risvolti con Giorgio Moio, Carlo Bugli e Pasquale della Ragione, col loro linguaggio geometrico o del rischio -tra forme allitterative, visive e citazioniste-: una letteratura, in massima parte, correlata ai materiali verboiconici, arditamente traslativi e disgiuntivi, funzionali ad un extralinguismo intermaterico nella più ampia libertà postmodernista, la stessa di cui si avvale la ludopoesia di Mariano Baino, contagiata da una ipercreatività giocosa; non a caso il burattino di Collodi,- Pinocchio — che dà il titolo a un volume del 2000, si presta a una teatralizzazione della favola, regalando “a profusione: personaggi, situazioni, nuclei, suggestioni, ma tutto liberamente reinterpretato e rimontato in uno scenario poetico mobile e personalissimo, per poi liberarsi dell’incanto del gioco, e interagire con la realtà, immettendo figure retoriche, come l’ironia e la citazione nell’assemblaggio di forme tensive, determinate dal flusso polisemantico della scrittura e dei suoi allegati parodistici; o alla designificazione e all’agrammatismo di Tommaso Ottonieri, il più accanito sperimentatore della cellula linguistica in — Atropina remix — e in quel caleidoscopio letterario di diafore nel volume Dalle memorie di un piccolo ipertrofico e in — Coro da l’acqua per voce sola — , per cui si può senz’altro affermare che“tra le molte polarità di questo realismo informale sta dunque sospesa, in costante squilibrio, la scrittura di Ottonieri”(Massimiliano Manganelli): o alle proposte interlinguistiche di Carmine Lubrano, che mettono in crisi l’ordine naturale della parola, per fare della lingua un locus di aggregazione sulfurea e surreale, attraverso testi nei quali si accomunano tutti gli strumenti operativi, per una ipotesi di scrittura erratica, spostata in un’atmosfera linguistica, atomizzata dalle componenti poetiche e dai contrasti sintattici; o alle condensazioni ironico-metaforiche di Costanzo Ioni, assimilate da un proficuo tirocinio praticato con il Gruppo 93, per averne condiviso sia i presupposti teorici che la pratica letteraria; o ancora, all’impegno decostruttivo di Lello Voce, il quale viaggia su binari di mutevole percorrenza stilistica nella dismisura delle disuguaglianze sintattiche e delle paronimie in “uno strano mix di arcaico, e ultratecnologico, di sciamanico e insieme cibernetico, di pre-orale e post-linguistico”, (Massimiliano Manganelli), che danno anche a Biagio Cepollaro l’accesso a un significante, collocato tra il postmoderno e le vie traverse della letteratura“laudata”:un’operazione di ritraduzione e innovazione della parola che permette una lettura generalmente asimmetrica dei testi. Altri metodi meno utopici, ma più significativi, collocati tra il rinnovamento e la trasgressione, li troviamo negli anni Settanta-Novanta, in Franco Cavallo, con le sue frammentazioni, tra surrealismo e aggancio alle avanguardie storiche, teorizzate su Altri Termini e, ricondotte sul filo di una rappresentazione fonometricofigurativa che trova in Fètiche il senso di un’operazione liberatoria contro gli istituti-tabù della civiltà (Giuseppe Zagarrio); o in Ciro Vitiello, il quale non si estranea da formule verbali di protocollo avanguardista e di miscidanza novecentesca, per disperdersi nella mortificazione della realtà e del suo nihil, in una poesia che convoca una moltitudine di ricognizioni allucinanti, allegoricamente trasposte e correlate con il poeta stesso, tanto che corpo e anima si integrano e si perdono in un mondo larvale di una vita non vita, tra la dissezione del reale e la metafora del vuoto; o ancora, nelle composizioni verbo-visive e negli esicasmi di Stelio Maria Martini, cui vanno ricondotti gli esiti sperimentali di Schemi, con i suoi soggetti complementari e primari, interagenti in tante forme e tecniche compositive; oppure nel discorso ironico-satirico-drammaturgico di Alberto Mario Moriconi, che si distingue per il “plurilinguismo spregiudicato, quella particolare architettura di registri diversi (narrativo, drammatico, allegorico, parodico), che fanno dell’autore un singolare sperimentatore” (Giorgio Patrizi), o nelle anamnesi temporali, per indagare sugli aspetti della vita, sfocianti in un generale senso negativo dell’esistenza, in Carlo Felice Colucci, che metaforizza la morte in efficacissime rappresentazioni allegoriche, in “un pessimismo che appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann che identificò l’universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”, (Giancarlo Rugarli); o ancora nel linguaggio perlustrativo e psicoattivo intorno all’inferno quotidiano in Franco Capasso: un poeta-maudit, che meglio interpreta l’exilium e il senso dello smarrimento — qui e ora — , con percorsi mentali confluenti in un opus metricum fatto di iterazioni ossessive e di disperazione esistenziale, di fronte al tema del fuoco, simbolo psicanalitico e regressivo della memoria ferita dalla realtà; o nelle composizioni ipertematiche e di collage linguistico, tra mito e slogans pubblicitari in Ugo Piscopo, rilevabili soprattutto in Jetteratura: un vero e proprio condensato di genetica letteraria, riportato in superficie attraverso un discorso che rivisita luoghi e culture diverse messi sotto esame e criticamente relazionati, deviando il discorso con Haiku del loglio, in un universo poetico di delicata venatura vegetale, nella piena libertà delle forme comparative e dei registri dell’impressione; o ancora, nei doppi codici strutturali, tra sperimentalismo e forme novecentesche nell’illusione dell’Eros, come sopravvivenza al vivere quotidiano in Antonio Spagnuolo; o nei sussulti poetici di tramatura flegrea, con il recupero di personaggi mitici in G.B. Nazzaro: un poeta che traccia una scrittura poematica nel carteggio di episodi fantastici, proposti in Melusina, con la germinazione di figure riportate “in superficie da una parola convocata nell’attrito dei lessemi attigui fino a produrre un senso luministico e etico”(Ciro Vitiello), e a determinare nella sezione Mitologie, interna a Melusina, un rapporto plurale con gli altri, che in Roditore e cancro si fa isolato e conflittuale, di fronte alla necessità del dire, e al drammatico angosciante senso della morte della parola, oltre la quale non è più possibile fare poesia, o reinterpretare la vita “E in questo universo di codici infranti, il poeta pur cosciente della tragedia che lo sovrasta continua a rappresentare la sua — finzione — attraverso le immagini, ricorrenti del mito”. (Franco Cavallo), o ancora, nel surrealismo metaforico di Alessandro Carandente, integrato in un sistema di correlazioni verbali e di cadenze poliritmiche, e paronomasie, nell’impatto dei sensi e della memoria di cui Corpo in vista ne rappresenta il culmine biopsichico ed estetico, ma anche il viaggio umorale e umano nei dintorni del quotidiano e del passato, riportati in un review poetico, che — vezzeggia il protoritmo — per inseguire le richieste di una forma che non arriva, e che, tuttavia, tende a esprimersi nella serietà degli eventi, mai mimetici o debordanti dalla realtà, con pause giocose e allitterative, brulicanti di extravaganze, ecrivoci e screzi d’alfabeto in Bon Ton Bonsai Bonbon: un singolare regesto di procedimenti verbali, combinatori ed omofonici, che si susseguono nel vortice del suono e delle rime, per riposizionare, subito dopo, il pensiero, in altrettanti nuclei linguistici plurisensoriali, nella ritraduzione della parola e dei segni del mondo: ed è proprio qui che si agglutinano gli elementi più autonomi e personali di questo autore la cui poesia non può prescindere dalla negazione che si estrinseca nell’ironia (G.B.Nazzaro); o nei molteplici esiti operativi di Gerardo Pedicini, con i suoi libri-d’arte e libri-oggetto, impreziositi da calcografie, disegni, e incisioni varie, oggi introvabili. Ci troviamo di fronte a un altro caso d’nvisibilità, ma di certezza della poesia, quest’ultima calendarizzata in volumi e tempi diversi, in Dodici sonetti ancipiti per dodici capricci incisi, pubblicati nel 1986, in Canto e Controcanto del 1991, in Buthos del 1992, e in alcuni testi di datazione più recente, che fissano nel ricordo della guerra, momenti di forte tensione emotiva, rilevabili in Lilacs, A’rebours, Quattro tempi e Sipari, attraverso il recupero di figure familiari ricomposte da un linguaggio dai toni bassi, ma altamente melodiosi, modulati dagli scatti psicoemozionali provenienti da un repertorio letterario d’area neorealista; o ancora, nell’approdo ai porti sepolti della memoria in Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli, che istituiscono, entrambe, la religione del tempo e degli affetti dilacerati, nello sfondo di una natura ancora non violata dai danni della civiltà; oppure, nel puntismo cromatico e figurativo di Franco Riccio, con le sue rivisitazioni esistenziali e di recupero del rapporto umano, confluenti in un dire poetico, autenticamente novecentesco, che getta una luce d’incontaminato amore e di nostalgia sulla città: o nel teatro di poesia, esposto con abile giuntura degli endecasillabi, che costituiscono la chiave di lettura dei Frammenti di Aristide La Rocca, legati alle figure di Teodora e di Zenobia e agli splendidi testi presenti ne I soli, “che rappresentano un giudizio severo sopra le istituzioni e i fenomeni del mondo in cui viviamo” (Giorgio Bàrberi Squarotti); o nella captazione di lessici pluriespressivi di Alfonso Malinconico, il quale mette in circolo nuovi codici aggregati a una vigile narrazione dei dati storici e contemporanei, contribuendo non poco ad ampliare il campo dei generi letterari in un metricismo geometrico e visivo, riportato in Sul rame dei sogni: un volume che si dispiega nella moltiplicazione di “pulsioni personali, intellettuali, emotive, ideologiche” (Giorgio Patrizi); o ancora, nelle sequenze negative del vivere quotidiano in Giovanni Ruggiero, sempre più infiltrato nell’effimero delle cose e delle annotazioni della memoria, che costituiscono un album della propria condizione esistenziale; citando, necessariamente, le voci che hanno ereditato una continuità estetica riproposta, senza eccessivi sbilanciamenti da Raffaele Piazza con i suoi testi en plair air, ricondotti al binomio —natura-amore, come un unico universo interattivo, produttore di flussi emozionali, regolati da un epidermico lirismo intertestuale; o da Eugenio Lucrezi, con un proprio codice strutturale e psicolinguistico, che chiameremo on the road, per quel particolare vagabondaggio del cuore e della mente; o da Domenico Cipriano, che con Free Jazz,- una sezione del volume Il continente perso-, riesce ad armonizzare sound e parola poetica; o ancora da Giuseppe Vetromile, introverso e conflittuale nel suo rapporto con l’effimero e l’assoluto all’interno di una poesia riflessiva e anacoretica, vivificata dagli impulsi della coscienza e da una linea sinceramente fideistica, particolarmente significativa in Cantico del possibile approdo; o da Enrico Fagnano, che non elude l’ironia e la casualità delle occasioni poetiche, nelle quali si vengono a inserire elementi multipli e comparativi, correlati a imprevedibili scatti impressionistici, sarcastici e dissacranti; o da Vittorio De Asmundis, riconoscibile per le sue tematiche social-esistenziali, che sono gli unici format di una poesia, che si misura con gli ingranaggi della fabbrica e dell’alienazione quotidiana; o ancora, da Raffaele Urraro, fedele a un discorso poetico, chiaro ed estetizzante, non immune da intrusioni grafico-sperimentali; o da Pasquale Martiniello, il quale si aggancia a pluritematiche storico-contemporanee, dove non manca l’inserimento ideologico, nella piena concretezza dell’obiezione e dello spunto polemico e ironico rilevabili nel volume I ragni, proseguendo con Giovanni Ariola, il quale percorre varie esperienze letterarie, non esclusa quella sperimentale di Discronie, per riagganciarsi con Sinoli ad una poesia che nasce per sillabe, per parole, per musica, da cui partono e si definiscono le fusioni psicosoggettive come —controdiscorso- al fluire caotico e ininterrotto del tempo e degli eventi, per finire con Michelangelo Salerno: un poeta appartato, che vive la sua solitudine urbana, tra memoria e delusione del presente, cercando approdi salvifici nella ricerca etico-morale. Svincolato da un certo grado di fragilità sentimentale sembra essere il discorso di Maria Papa Ruggiero e di Carmina Esposito, nomi che prendiamo a riferimento e che meglio esprimono i tracciati psicologici della poesia al femminile, collocata in un habitat linguistico fatto di proiezioni psicofigurative ed esistenziali. Apparentemente ricostruttiva sembra essere la proposta di Felice Piemontese, come formulazione di una nuova ipotesi di poetica dopo la fine della Neoavanguardia, senza particolari rovesciamenti linguistici, se non nei termini di una creatività riflettente il datum verbale retroattivo, nella coesistenza di pluriaccorgimenti semantici e di calcolo estetico. Altro, invece, è il rischio a cui si espone, con grande disinvoltura, Gabriele Frasca con le sue terzine e quinari, che costituiscono l’oggettistica letteraria, secondo le ragioni di una poesia che si dilata oltre i normali campi di applicazione. E’ come se il poeta lavorasse per tempi epocali e registri diversi. Il tecnicismo non annulla la cantilena autobiografica e psicologica. Questo modo di procedere toglie ogni possibilità alla lingua di giungere verso approdi emotivi, non che questi debbano essere indispensabili, ma, qualche volta, sono necessari del concetto stesso di poesia.
Un poeta che sembra orientarsi verso aree semantiche miste, senza proporre importanti innovazioni, tali da modificare il significante nella sua struttura generale, è Michele Sovente che in Carbones inserisce un linguaggio triadico, con la commistione del latino, del dialetto e dell’italiano, legando le occasioni poetiche ad un humus flegreo, che in vario modo asseconda i giri dell’anima, tra frustrazione dell’urbanesimo e carbonizzazione del tempo.
Per Wanda Marasco i gironi della vita sono esposti con un linguaggio rivolto ai fatti accaduti, in cui il senso del tempo non si separa dalla storia, semmai lo brutalizza in un confronto con un indivisibile -tu- protetto da una parola fasciata di ricordi e adeguata alle circostanze del reale, con scambi di notizie, paure insostenibili, portate in superficie dalle crepe della mente e del subconscio, come in Metacarne, che si collega a tante microstorie tra prosa e poesia, portate avanti da una coscienza frustrata e infelice.
Non c’è dubbio che proprio da Napoli sia nata la — resistenza — alla koinè poetica, con nomi accolti nell’Almanacco dello Specchio, in varie Storie della Letteratura Italiana, e su Altri Termini, mentre le altre regioni del Sud si attestavano su posizioni letterarie neonaturalistiche, con rarissimi episodi di proposte alternative, come engagement alle forme avanzate del metalinguaggio e della poesia tecnologica e postlineare, presenti in alcuni centri urbani, come fenomeno teorico-formale, sbilanciato nella trasgressione e nella tentazione riformatrice del significante.
L’innovazione non fa parte, se non in pochi casi, del metabolismo linguistico di molti poeti dell’Abruzzo e del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Sicilia e della Sardegna, rispetto alla Campania, che ha fornito più delle altre regioni, le coordinate di una poesia in progress.
In questa direzione cercheremo di formulare una campionatura che ha solo valore informativo, provando a indicare un’anagrafe di nomi, senza formare una gerarchia di raggruppamenti e di valori, fornendo un elenco provvisorio e marginale, che non include i poeti emergenti, anche se qui interessano, più di ogni altra cosa, le risposte socioculturali e linguistiche date da ciascun poeta per svincolarsi da una letteratura logora e abusata, segnalando per l’Abruzzo i nomi di Antonio Allegrini, Daniele Cavicchia, Rita Ciprelli, Igino Creati, Rolando D’Alonzo, Ubaldo Giacomucci, Dante Marianacci, Francesco Paolo Memmo, Renato Minore, Massimo Pamio, Giuseppe Rosato, Benito Sablone; per il Molise: Gennaro Morra, Giose Rimanelli, Angelo Ferrante, Mario M. Gabriele, Filippo Poleggi, Giuseppe Pittà, Giocondo Colangelo, Pier Paolo Giannubilo; per la Puglia: Lino Angiuli, Raffaele Antini, Carlo Alberto Augeri, Raffaele Nigro, Paolo Polvani, Michele Rotunno, Daniele Giancane e Matteo Bonsante; per la Calabria: Giusi Verbaro Cipollina, Isabella Scalfaro, Domenico Cara (da anni trapiantato a Milano) e V.S. Gaudio; per la Basilicata: Raffaella Spera, Rosa Maria Fusco, Antonio Lotierzo; per la Sicilia: Alfio Fiorentino, Emilio Isgrò, Lucio Zinna, Ignazio Apollonio, Helle Busacca, Andrea Genovese, Stefano Lanuzza, Govanni Occhipinti, Giovanni Giuga, Emanuele Schembari, Sebastiano Saglimbeni. Quanto alla Sardegna, essa non offre elementi innovativi, per la resistenza di una linea poetico-conservatrice, che si riflette nelle opere degli scrittori attraverso il legame biopsicologico con la propria terra, anche se non mancano intelligenze sacrificate alla emarginazione. Utili, ci sembrano anche le campionature di alcuni poeti transatlantici, quelli che pur essendo meridionali non si sono distaccati dal paese d’origine, vivendo all’estero, spesso presenti in Italia, con opere in linea con le tendenze attuali sempre più variegate e plurietniche. E’ il caso di Luigi Fontanella e di Giose Rimanelli; un poeta, quest’ultimo, con una vasta produzione di romanzi, racconti, saggistica, critica e volumi in dialetto e in lingua, già noto negli anni 50 per il romanzo Tiro al piccione. Di Rimanelli, segnaliamo Sonetti per Joseph, un volume edito da Caramanica nel 1998, nel quale il dissidio e la nostalgia di due anime: quella molisana e quella metropolitana, si fondono sinergicamente, producendo effetti di risonanza interiore e di malinconica trasfigurazione del passato. Ma più in specifico, va segnalato il volume dal titolo Alien Cantica dove Anthony Burgess rileva la presenza di materiali “esilici” che costituiscono l’autentica meridionalità di questo scrittore. La poesia italiana agli inizi del Terzo Millennio ha davanti a sé l’affascinante compito di voltare pagina a tutti gli ismi del Novecento, ma anche di fondare una letteratura rivolta verso il futuro, in contrapposizione con lo strapotere del mercato letterario, che non può dichiarare guerra ad ogni ricerca poetica legata alle esigenze psicoculturali della società.
Gli ultimi trent’anni del secolo scorso, si sono caratterizzati da fusioni verbali, fuori da ogni centralità poetica, anche se non sono mancati tentativi di riprogettazione della parola da parte del Gruppo 93 e dei poeti della Terza ondata, o da sigle linguistiche costituite, più o meno, dai nipotini dell’ -immaginazione,- che in vario modo, hanno tentato di occupare gli spazi lasciati dalla postavanguardia, col risultato che ancora oggi si torna a parlare di crisi della poesia e della sua impossibile riscrittura, davanti alla “fine dei modelli”.
Si tratta, per il momento, di una situazione da stand-by, in quanto non si vedono né al Nord, né al Sud, intelligenze critiche e poetiche capaci di entrare in una nuova civiltà delle lettere, quanto basta per estinguere posizioni di comodo e di privilegio, e instaurare così nuovi modelli di estetica strutturale, attraverso il riscatto formale del significante e del significato, come unico discorso, secondo la tesi espressa da Ch. S. Peirce.

Mario M. Gabriele

(Pubblicato sulla Rivista “Secondo Tempo“, Libro ventiseiesimo -)

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Un commento su “La Poesia nel Sud

  1. Mario M. Gabriele il said:

    Si tratta di una storia poetica che riguarda il Meridione, ma è come se riguardasse anche il Nord e le altre regioni d’Italia. Quanto alle storie della letteratura italiana, un grande omicida rimane il critico, che riporta e analizza i testi a suo piacimento, facendone un esempio di come debba essere la poesia secondo il proprio gusto.
    Per questo motivo la critica è morta. Sono scomparsi critici e scrittori, a causa di un -pensiero debole-, non in grado di trovare una poesia dominante per le astruse forme lessicali. Ancora oggi continuano le ridondanze filosofiche, nel giustificare i troppi paradisi linguistici, al di sopra dell’ipermodernismo.
    Il ruolo dello scrittore e del poeta è quello di trasmettere esperienze che i lettori possano riconoscere, ma non allucinogeni presi la sera prima.
    Deleuze, nelle sue opere si soffermava sul senso delle poesie da cui poi trasse motivo di dissertazione critica con il volume La logica del senso.
    I primi decenni del Terzo Millennio non hanno fatto altro che proseguire il Vuoto, l’Assenza, nonostante i vani tentativi di rimodernizzazione confluiti in passaggi traumatici del verso. sempre più traumatici ed evanescenti.
    Mario M. Gabriele

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