Barista: Oggi è venuto a trovarci Berry Stone.
Mary: Sembrava un acchiappafantasmi
dopo il film Ghost.
Barista: Non è che lui abbia visto
la luce del faro sparire e luccicare
ai bordi di Terranova
fino a trovarsi un lavoro in città
con pochi dollari al giorno,
perdendo tempo
con la metafisica dell’Essere?
Mary: Non ti rispondo. E’ un problema
così ostico da restare muti.
Barista: Provò a resettare la caldaia.
Fuori faceva freddo e non c’erano alcove.
Mary: Buona norma è passare il tempo
bevendo Apple jack.
Barista: Il buffet è pieno di pop corn e Kitch
puoi prendere ciò che vuoi!
Mary: Berry dice che il vero paradigma
è ciò che resta nella mente.
Barista: Certe volte mi chiedo
come abbia fatto Mister H
ad aprirti il cuore?
Mary: Sono cose che accadono.
Come già ti ho detto,
il Signor H significava tutto per me:
amore, HI FI, Count Basie e Eagles
e Hotel California.
Barista: Devi sapere, secondo quanto dicono
quelli della King Dome House,
che egli aveva uno strano rapporto
con le camicie Paul Smith
e con Sara Zucker quando riprese
il programma Next Gen della Nba.
Mary: Me ne parlava sempre
tutte le volte sotto il Ghetto di Varsavia.
Barista: Lei sa come vanno a finire certe cose.
Dimmi solo da che parte si va nel bosco
a cercare gli Elfi.
Mary: Hai sette colpi per il Winchester,
una tazza di tequila,
e una donna per coprirti
lungo il viaggio inutile.
Barista: Forse sarebbe meglio dilatare i tempi,
mettere a fuoco chi va e chi viene
con un nuovo plot, tanto da finire
Beat Beat Gasoline di Gregory Corso
con un fiuto verso l’anima
e il cimitero degli inglesi accanto a Shelley.
Mary: Il paesaggio è quello onirico
ma di un blu di microtesti
con approdi nell’ignoto.
Barista: A volte penso a Isea, donna di musica e polvere,
un Nulla con le sue ottave genesi,
come nuvole di fumo
spinte in futuro dal fiato del vento.
Mary: Con il Signor H abbiamo parlato
di galassie in espansione,
di mondi finiti in trucioli e frammenti
come in una story-board.
Barista: Dico ciò che vedo e sento.
Guardo lo spazio antistante il negozio
dove sostano le matrioscke.
Ho tanti conflitti da sub-plots
da non portare mai la pace sul sagrato.
Mary: Si stacca dal cane Chaney,
apre scatolette di Arcaplanet,
tiene in mente la Lambada,
il ballo di Al Pacino nel remake
“Profumo di donna”.
caro Mario,
la tua poesia dialogata o dialogica dimostra che non è possibile liberarsi totalmente dalla signoria del linguaggio storico, liberarsene per scrivere, magari, l’archeologia del silenzio, o del rumore. La tua poesia è in egual misura, archeologia del silenzio e del rumore, perché quel silenzio è nient’altro che rumore indifferenziato, al pari dei rifiuti indifferenziati che produciamo ogni giorno. Al contrario di certa poesai da trivio che non si accorge di utilizzare un linguaggio contaminato dal mutismo, tu hai compreso che il miglior modo di indicare il silenzio è enunciare gli enunciati del silenzio, il bric à brac del rumore indifferenziato che dà luogo al silenzio indifferenziato. La tua poesia è, se così possiamo dire, rumore contenuto nel silenzio indifferenziato, o silenzio indifferenziato contenuto nel rumore. «Non c’è cavallo di Troia di cui la Ragione non abbia ragione», dice Derrida, ed è vero, contro di essa non si può combattere che con le armi della Ragione, il suo spazio è totale e onniavvolgente, e allora non resta che dichiarare davanti al Tribunale della Ragione il silenzio indifferenziato del rumore, o il rumore indifferenziato del silenzio. Niente sfugge al collasso dell’ordine Simbolico se non frammenti insignificanti e lacerti strappati dai manifesti, ed è di essi che la tua poesia si nutre. E poi: il silenzio ha una sua storia? E il rumore? Il rumore ha una sua storia? Ha senso una archeolgia se tanto trovi tutto in superficie, rottami e rifiuti che galleggiano sul mare dell’essere? Allora, non resta che fare una archeologia della superficie, di ciò che si trova in superficie.
La petizione per una archeologia del silenzio, vagheggiata e corteggiata dagli esegeti del monismo elegiaco e dell’agriturismo turistico di certo ritorno alle origini della bellezza e della cultura del bel tempo che fu, è una pretesa purista, intransigentemente reazionaria, apparentemente non-violenta, a-dialettica; ebbene, questa petizione è contro bilanciata e messa in sordina dall’altra petizione, quella di una archeologia del rumore messa in atto da Mario Mario M. Gabriele, l’unica in grado di rappresentare oggi l’irrappresentabile, di parteggiare attivamente per la demistificazione della ideologia del silenzio che si sposa con nozze curiali con lo status quo del presente, con le trombe di Trump.
Il testo qui riportato da Giorgio Linguaglossa e apparso su Altervista è il proseguimento della poesia con due soggetti il Signor H, e una Signorina i cui dialoghi si intersecano nei fatti, negli eventi, nelle esposizioni delle dicotomie personali, tra asserzioni, stati d’animo che si offrono al lettore come spazialità poetica. Sulla traccia di questo ultimo testo si intersecano, tra passato e presente in una bifocalizzazione e correlazione fra individuo e ambiente, fattori microindividuali e personali, che stanno a rivelare lo scatto psicologico del poeta su due soggetti principali: il Barista e la Signorina Mary. Fare il poeta è un mestiere difficile perché bisogna rinnovarsi sempre per poter trasferire al’esterno il fondo in cui si depositano le storie aggiornandole con la realtà dei nostri tempi. Ciò non vuol dire abbandonare i distici, conclusivi e autonomi, preferendo una esposizione estetica da manuale di sceneggiatura, ma di concepire un sistema di investimenti poetici e linguistici onde evitare la stagnazione creativa che rimane il vero Keep out della poesia.I due commenti di Giorgio e Lucio si integrano perfettamente con le loro esposizioni e di tutto ciò li ringrazio vivamente.
caro Mario,
domani mattina alle ore 8,20 sull’Ombra apparirà il tuo inedito con dei commenti. Un saluto
It’s Wonderful!