GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

Il discorso sulla salvezza e sulla perdizione trova in Giorgio Barberi Squarotti uno dei più acuti osservatori della realtà contemporanea dove la vita è già predestinata al nulla e in questa percezione trovano ospitalità storie, profezie, ammonimenti, descrizioni di uomini e donne collocati in bolge sulfuree e senza via d’uscita, il tutto magnificamente trasposto in una ampia galleria di personaggi di dantesca memoria, che discutono ”dell’inesistenza del Nulla”, tra finzione e realtà, in un clima di sangue e orrori, di storie e luoghi non facilmente individuabili, eppure straordinariamente (pseudo)reali, collegati da un ininterrotto continuum lirico che ha nel suo interno il ritmo incalzante delle favole.
Solo quando il tema esistenziale si complica metaforicamente allora si fa più complesso il discorso di Squarotti che affida al significante ogni forma di messaggio posto come veicolo di indagine sui grandi temi contemporanei e metastorici.
Ciò che colpisce è la capacità del poeta di riproporsi come soggetto abilitato a trasmettere il codice della realtà secondo le proprie chiavi di lettura, con la presenza di Dio che, secondo un verso di Barberi Squarotti, “c’è capitato in mezzo da sempre”.
In quest’ambito si colloca una delle sue opere : “Notizie dalla vita”, Bastogi Editore, 1977 , a metà strada tra la poesia-racconto e le infiltrazioni sperimentali dell’Avanguardia.
Trattasi di un dossier-poetico sull’agonia di eventi storici e sociali nei quali la spinta emozionale di tipo privato forma un’unica e organica rappresentazione della vita, vista come una via crucis con tante stazioni di dolore.
La fustigazione e lo strazio delle carni sono il risvolto metaforico di un clima politico e sociale concomitante agli esiti storici che caratterizzarono la presenza al potere dei colonnelli in Grecia, “il Cile di Pinochet, la guerra del Vietnam e la nostra stessa esistenza in Italia, fra sussulti , rinnovamento e complotti oscuri e crisi economica”.
Più in specifico si può dire che il volume è la rappresentazione di corpi violati e battuti a sangue, in un passaggio di anime destinate al dissolvimento e avviate verso un luogo “ove è tenebra e stridore di freni e fiamme”..
Certamente in una operazione poetica dove l’occasionalità dei dati a disposizione è spesso molteplice e pseudoreale, la letterarietà assume un ruolo egemone sui sentimenti a tutto vantaggio di un prosaicismo lirico per una grandiosa visione della realtà riportata come Storia e Commedia.
Ma già con le raccolte successive riunite nel volume antologico “Dalla bocca della balena”, Genesi Editrice, 1986, si assiste ad una personale adesione ad un codice linguistico tutt’uno con l’io narrante che si sviluppa attraverso una ”scrittura straordinaria, che dà fondo al massimo delle risorse psicolinguistiche per denunciare l’onnipotenza della “Morte” nel suo globale aspetto del “Nulla”, ma anche della “Vita” come tale, a partire dalla megavita cosmica a finire a quella microbiologica dell’uomo e della sua storia e fino alla cronaca del suo “non essere” spicciolo e quotidiano”. (Giuseppe Zagarrio, da “Febbre, furore e fiele” Mursia 1983, pag. 577).

DA UN TRENO

La ragazza nuda (dal treno, mentre andavo a Milano
per parlare di Gozzano o di altri prodotti di bellezza,
non ricordo), fra i rami giallo-rosei dei salici e
le fogliette pallide, appena esplose dalle piogge
di primavera, non altro che un’immagine, e già più non ricordo

forse bionda o, e rosei i capezzoli, la mano
sopra il pube oppure sotto le pallide mammelle? soltanto
ormai una macchia bianca nella memoria come dentro il verde

del fosso, dopo Vercelli, non altro e presto una
vuota voragine che inghiotte questa giornata di aprile (o
di dolce autunno, ancora tiepido?) come quarantaquattro anni di

quasi vita e troppe parole scritte e dette e altre non
pronunciate quando era il tempo, tutto quello che
non ho fatto o ho visto o non saputo, e
anche questa ragazza che
forse soltanto un luogo letterario o un’occasione per
parole parole parole sulla pagina in realtà sempre bianca dove

dovrebbe essere scritta una storia mal raccontata ma viva
almeno un poco,
e tu allora, così chiara distesa sopra il letto
nel tramonto quieto di Pasqua, dopo la grandine livida nei fossi

dove? o la luce del tuo corpo nudo nella notte di?
o fra l’erba e le canne, quando? Dieci
inverni prima o domani? O solo una confusa fantasia,un pò

morbosa, un sogno di solitario? Ecco: restano poche
parole sopra fogli
quasi illeggibili, il fantasma di un aprile improbabile
di gioia e lacrime (quanto diverso da questo e da ogni altro,

qualche reminiscenza letteraria, ma nulla della vita se mai ci

fu vita, neppure un’ombra, dentro o fuori, di
ciò che è stato o ho creduto di vedere, chi sa dove.
aprile-agosto 1974

*
Tre soli anni, e già più non ricompongo i
tratti del tuo volto che per quarant’anni e più mi ha vegliato,
e allora che posso dire ormai di te, di me, di una vita d’amore e
pena per un’altra di parole e vento e gesti
venuti sempre troppo tardi, all’orlo di
una stanchezza mortale o anche un poco oltre, dove è
lo scherno dell’inutile e del vano, e non c’è più risposta,
da nessuno ?
Se ti riporta il sogno, ma sei tu se ora
il tuo passo è così lieve e rapido, i capelli neri il
volto senza rughe, la voce non interrotta dall’affanno?
Mi dicono che ora sei così, nell’altro spazio
dove nulla si perde, e nella noia dei vizi ripetuti, delle
viltà moltiplicate nello specchio di ogni anima,
nei rancori, nelle ire, nelle quotidiane crudeltà
così uguali per tutti che neppure Dio distingue vittime e
colpevoli, il bene che solo è tuo risplende. Io non
vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro
a sé, e
preferisce le voci d’altri libri i cataloghi gli archivi;
ma so forse che questi colpi da basso, fitti contro la
porta, e i passi più numerosi nella strada delle
scarpe chiodate, e i lamenti e le grida e i colpi di
frusta e anche questa primavera stenta e le tempeste
che abbattono alberi e uccelli e l’acque torbide,
sono perché il mondo t’ha perduta, e
il giudizio di Giona può ormai compiersi.
(in treno, 18 aprile 1974)

LO SGABELLO DI DIO

ad Angelo Jacomuzzi

Sì, è vero, anche se accumuli a migliaia
fogli su fogli scritti ai margini
(e anche qualche disegno d’angelo, una rondine
in un angolo del cielo bianco), il tremore di una foglia
dove è caduta una riga, forse, un volto
vecchio si affaccia da una macchia bruna,
sembra voler parlare, poi gli occhi come se
per la prima volta avesse visto davvero il libro scritto
del mondo, troppo lungo e confuso, pieno
di storie senza senso e tutte di morti da chi sa
quanto tempo o uno traballa un poco, poi si lascia
cadere troppo lentamente a terra,
allargando le braccia, mentre ancora
in una mano convulsamente stringe
una bandiera vuota); ecco, neppure —
mettendo l’uno su l’altro tutti i sogni
sognati sul Parnaso e altrove si può giungere
anche soltanto a intravedere lo sgabello
dove i suoi piedi a volte posa Dio —
un passo lento, un’orma pesante sul broccato
rosso, la punta di una pantofola un po’ lisa
nel tremare dell’aria come dopo
il primo tuono della primavera
proprio niente di tutto questo, solo un muro
di carta o di cartone, e quale spazio
può rimanere oltre un angolo d’aria muta e morta,
un lembo di tenda grigia che un vento
inesistente a volte spinge fino
ai fogli, una mano di bambino che saluta
in un’alba d’inverno, il punto animato di una mosca
che cerca a lungo la parola fine
dove fermarsi.

Squarotti si serve dei dati minimi della quotidianità per approdare ad una sorta di spartito teatrale dove i personaggi sono presenti con tutte le loro pene e le loro confessioni, che la Storia o il semplice Caso mettono a centro di una Commedia nella quale sempre più incisiva e persistente è la denuncia del Nulla .
Il risultato è quasi sempre una sconcertante ed epica rappresentazione della realtà nella quale si vengono a inserire alcuni rapporti autobiografici come consuntivi di una vita .
A ciò si aggiunga una insistente accentuazione del racconto tra “finzione e dolore”, dove i dati esterni sono sì denunciati con vigore e ironia, ma si propongono anche come visione dell’occhio interno del poeta che non concede nulla al patetico o al mimetismo emozionale.

XXXV

Una lenta vecchiaia, lunghi anni vuoti ormai
di lamenti di ire, di perdute profezie, di
affannose occasioni, e anche della fatica di vivere:
in riva a qualche collina senza venti
o accanto a un antico fiume che non varia
con le stagioni e nulla scorre in esso né
foglie né le ore della luce e dell’ombra né barca più
che l’attraversi carica di anime tenere e nude e un po’
piangenti
al contrario di te, aveva molta paura della morte
o forse troppo amore per i corpi nuovi in ogni primavera
subito
scoperti un poco nella luce ancora cruda senza
verde di foglie, per la ripetizione delle
albe, per l’arrivo dei merli, per le viti
nere sullo sfondo di neve, per i ritorni trepidi di te,
per la fuga della ragazza bionda avanti al dio che ride:
troppo poco ti ebbe, il tempo fu quasi
tutto sprecato senza che se ne accorgesse, scrivendo
parole come chi beve vino per stordirsi di
qualche cosa che neppur più ricorda: ecco, anni
avrebbe voluto per guardarti con i suoi occhi sempre
meno capaci di riconoscere quel che non c’è oppure non esiste
una vecchiaia anche con tutti i mali e uno spazio esiguo,
una finestra, una poltrona, pochi passi pieni di fatica fino al letto .e
anche un lungo tempo per morire in una nebbia
lentissima, ma per riempirsi la memoria di te,
e le carezze e i baci e la tua anima
più chiara della luce di quell’alba di luglio, quando
capì che l’ironia di Dio lo avrebbe inviato molto
lontano da te, in qualche nobile castello d’anime
eloquenti, che discutono dell’inesistenza del nulla.
(Venezia, 5 settembre 1975)

XXXIX

Ecco che cosa ti lascerò: questi cinque altri morti
dopo un’infinità di altre morti che neppure
tutte le foglie di tutti gli autunni di tutti i
tempi da che c’è l’autunno; in fila, di corsa o
legati a qualche albero, bendati o con gli occhi pieni della
luce splendente del mattino o trascinandosi ai piedi
di Creonte
o nudi e già mangiati un poco dalla morte e quale
scriba nella cancelleria di Dio più ne tiene il
conto per l’improbabile resurrezione della polvere:
la Storia, insomma, che anch’io ebbi da mio padre,
ufficiale sul Carso e su chi sa quali altre montagne dell’
inesistenza, questo dominio del nulla dove tutti
(anche tu, dopo di me) abbiamo un posto
inutile.
Porto Sant’Elpidio, 28-29 settembre 1975)

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