FINALITÀ DEL BLOG

Abbiamo voluto presentare ai lettori una piattaforma critico-poetica tendente a esaminare lo stato di poesia del Novecento e della N.O.E. (Nuova Ontologia Estetica),quest’ultima intesa come nuova proiezione linguistico-formale e di cui L’Ombra delle Parole ne accoglie un’ampia documentazione, per seguire costantemente gli elaborati di 5 poeti: Giorgio  Linguaglossa, Mario M.Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, e Antonio Sagredo, con testi poetici costantemente aggiornati, per evidenziare, come  quest’ultimo linguaggio, già formalizzato con esiti editoriali, stia sommuovendo vecchie cancellerie estetiche, non più vocabolarizzate da chi ritiene necessario un ricambio formale alla luce delle nuove esigenze culturali. Ovviamente qui non si tratta di sovvertire il piacere del testo a cui ogni lettore è legato, perché non siamo né ci riteniamo nuovi profeti della poesia, ma scrutatori di un mondo che cambia continuamente e a cui bisogna avvicinarsi anche attraverso una più variegata mappa della realtà,, rifacendo il vestito  linguistico ex  novo, a ridosso di ciò che è stata la passerella poetica del 900 con i suoi blazer avvolgenti un mondo, oggi completamente trasformato.

 FRANCO RICCIO

Individuare una scrittura poetica diversa dalla fitta platea degli sperimentalisti napoletani sembra difficile, perché gli esempi autentici da proporre non sono molti e per di più collegati alle forme linguistiche ermetico-neorealistiche, che sembrano quelle verso le quali si è indirizzato Franco Riccio (1923), sempre vigile nella propria esposizione semantica, come a voler salvaguardare la parola dalle intrusioni metasperimentali e dalle contaminazioni plurilinguistiche, riuscendo alla fine a fare un tipo di poesia che scorre tra esposizione autobiografica ed espressionismo.
In effetti, Franco Riccio si muove in un’area che gli è molto congeniale: quella della registrazione del quotidiano e delle cifre del vissuto, con ampie raffigurazioni che mettono in luce testi di malinconico codice esistenziale, all’interno di un agglomerato urbano a cui si accede per trasposizioni umorali e sentimentali, che si fissano come su una pellicola fotografica riproducente i colori del tempo e lo sfondo ambientale, in una variegata metamorfosi dell’oggetto poetico che lascia nell’occhio-anima l’effetto-luce delle stagioni e i frammenti di una vita minore e interiore. L’universo esterno permette la rappresentazione di elementi ipertematici in visibili segni che scandiscono i tempi della rimozione e induzione del dolore.
Lacerazioni, (1989), Parole per dirsi, (1994) e Vita Minore, (1999), tutti pubblicati presso le Edizioni del Leone, brillano come tanti flash back su I giorni dell’ansia, un altro volume di Riccio, fatto di piccole cose e grandi abrasioni. E sono propri i dati quotidiani, con tutto l’apparato esplorativo delle rivisitazioni, che fanno di questa poesia un canovàccio propulsore di spiragli e appuntamenti con gli affetti ricercati, che mettono allo scoperto personaggi e volti illuminati dalla luce dell’amore e del ricordo.
Franco Riccio da anni misura il proprio rapporto umano con il mondo esterno, restituendo alla parola il potere autobiografico delle sintesi dell’anima, lasciando alla purezza del verso l’allarmante profezia dell’effimero, con un’onesta e sincera affabulazione quintessenziata in una poesia prevalentemente novecentesca, che è nello stesso tempo, puntismo cromatico rivolto ad attenuare le cupe ombre sottostanti, distribuite per sensazioni soggettive e labirintiche esposizioni; le stesse che confluiscono nel recente volume dal titolo Canzoniere, Edizioni del Leone, Venezia, Aprile 2003, che racchiude nella sua proposizione antologica, testi di diversa datazione e di estrema leggibilità.
Questo osservare le cose dal loro ambiente naturale costituisce, il più delle volte, l’accesso ad un mondo dove ogni mutamento è occasione di un procedimento poetico ”caratterizzato da un’inquietudine sottile, da una mobilità dinamica, da un contiguo far festa e far lutto per ogni diversa cosa che passando dagli occhi arrivi al cuore o nella mente”. (Paolo Ruffilli, Prefazione al Canzoniere).
La città, in questo caso, Napoli, diventa luogo privilegiato nella poesia di Franco Riccio che sa cogliere la sorprendente metamorfosi della realtà, fino a rendere percettibili la solitudine e il piccolo gaudio, in una scrittura che passa dalle conversazioni intimistiche ad un più aperto spazio colloquiale, come storia di un uomo e di una vita segnati da un precario orizzonte e da ricorrenti fantasmi di tristezza.
Alla fine ciò che emerge è una sorta di esilio urbano dove il poeta annota fatti e accadimenti traducendoli con la voce dell’anima che evoca sia il momento storico sia il mistero dell’attimo, fissandoli tra il cronachistico e l’aneddotico.
Ma se questi sono i tratti specifici su cui si basa gran parte della poesia di Franco Riccio, altri sono i dati che vanno a incidere i tornanti della memoria e i rapporti con il quotidiano, riportati con sapiente referenzialità in testi che si pongono in un procedimento accumulativo di presenze-assenze, funzionali ad una poesia che ripristina la tecnica compositiva dell’esterno e dell’interno di cui Passato per Firenze. Non c’eri, ne è un modello esemplificativo pari ad altri testi rivitalizzati da una sorta di stream of consciousness, attraverso il soprassalto dell’Io che rimarca i tratti psicologici, con velate nostalgie e topici sentimenti. “E in questa forza di trasfigurazione risiede l’originalità di Franco Riccio, la non contrabbandabilità della sua cifra”. (Walter Nesti, Quinta Generazione, nn. 149-150 novembre-dicembre 1988).

Sisma 1980

Nel paese si sono creati
spazi imprevisti, ombre
impervie, prospettive
inconsuete.
Si svegliano
macerie che furono case,
scuole, chiese
(intimi pudori,
segrete povertà denudate).
Si resta,
nondimeno, sulla terra
che ha rullato pérversa per gli ottanta
lunghi infiniti secondi.
Si piange di rabbia e di dolore:
in silenzio o gridando, s’impreca.

Altrove, ripristinate pareti
scoprono nuove mutilazioni.

La luna, innocente, sta sulle rovine.
(da: Lacerazioni,1989)

****
Questo aprile filamentoso di nebbie
incostanti se n’è finalmente andato.
Pure se lascia pause ad incisivi squarci
di sereno per fugace apparizione.
La primavera è in agguato, disposta
ad instaurarsi stabilmente dopo
i primi inattesi indizi sugli alberi.
Timidi, interrogativi gli sguardi
al cielo per scoprirne gli umori;
già si pensa di alleggerire il peso
dei vestimenti.
Tentano le vetrine,
precoci, i primi chemisier multicolori.
Si ha voglia di sorridere al passante
che incrociamo; mentre, un’occhiata ai giornali,
e subito riappare la furibonda minaccia
dell’acqua per nuove alluvioni.
(da: Vita minore, 1999)

Passato per Firenze. Non c’eri

Passato per Firenze. Non c’eri.
Forse- era di sabato — a cena
con amici o in riunione
a ragionare con lena
di cose astratte e concrete:
o, più sicuro, un concerto.
Lasciati
in un angolo dell’orto, vuoto,
il bidone del “solfato”, il grembiule,
gli occhiali da saldatore.

Era rinato
il pesco dalle tue mani accorte.
Forse il ciliegio, se s’innesterà….
(stavano già “incannati” i pomodori,
esalavano acri sentori).
Cresciuta la sera
nella pescaia era
riflessa la luce puntigliosa
che declinavano le stelle.
C’era ancora una pace sull’umida,
liscia criniera dei prati:
l’accarezzavamo beati.
(da: I giorni dell’ansia, 1984)

ARISTIDE LA ROCCA

Un poeta che ha affidato il proprio canto a strutture metriche tradizionali, in particolare all’endecasillabo, come induzione espressiva verso gli aspetti drammaturgici del presente e del passato; è Aristide La Rocca (1925), che riscopre un mondo appartenente ad una civiltà letteraria e storica dagli autentici valori, repertati nel Frammento LXXX da Scene Augustee che, con accurata ricostruzione dell’epoca, ripropone la vicenda umana del poeta Ovidio e una interpretazione di fantasia, singolarmente utile allo sviluppo della trama, dei motivi dell’esilio decretato da Augusto.
Si accede con questo volume ad un ambiente poetico classico che rimette in circolo schiavi, danzatrici, senatori, liberti, guardie, sudditi dell’impero a fianco dei personaggi maggiori in una Roma tra il 30 a. C. e l’8 d. C. nei pressi di Nola 14 d. C.
Il risultato è il sorprendente connubio tra la fiction e la realtà di un medaglione storico che ha nell’esposizione delle scene la riscoperta del teatro di poesia all’interno del quale si viene a realizzare un’unità semantica, che ci riporta indietro nel tempo e nel reportage di un evento. Ma è con “La casa nel sole”, Cappelli 1969, e con “I soli”, Loffredo 1971, che La Rocca si avvicina al mondo linguistico contemporaneo, per rientrare nei canoni di uno stile parasperimentale e simbolico, con stilemi che irrompono nella struttura del testo e ne fanno un esempio di autentica proposizione linguistica.

“I soli” rappresentano un giudizio severo sopra le istituzioni e i fenomeni del mondo in cui viviamo (Giorgio Bàrberi Squarotti), dove il linguaggio transita in partiture poetiche che comprimono la realtà in flussi dinamici, raggiungendo una cifra espressiva in cui si vengono ad inserire improvvisi colpi d’ironia nel ritmo percussivo di giunture strofiche, a sbalzo intermittente.
Nel 1979, per le edizioni Hyria, vedono la luce Dieci Frammenti che riprendono sul piano formale le condensazioni drammaturgiche, specie nel Frammento X riproducente il clima letterario delle Scene Augustee, come momento isolato, posto all’interno di un più organico e complesso discorso nel quale diversi sono i passaggi tematici collocati in un sistema di figure e sentimento, dall’inarrestabile flusso narrativo e scenico, come nel Frammento VIII, che riporta l’estremo passaggio del paziente in un’atmosfera di forte dramma e delicata privacy:“e per le quattro del pomeriggio il carro / sarà puntuale anche il prete la gente / senza avvisi poca solo qualcuno / del vicinato lo sapranno dopo / diranno e potevate anche avvisarci / per non dare disturbo la domenica / forse eravate fuori per distendervi / non abbiamo creduto non abbiamo/ ritenuto scusateci scusateci /”.
Ci troviamo di fronte ad un autore dalle ampie aperture poetiche, capace di “captare” i segni della quotidianità e del passato con umana introspezione e sensibilità culturale, fino ad armonizzare gli elementi concettuali e meditativi, parodizzando pregiudizi e comportamenti umani, secondo un avvolgente schema di rapporti e storie di grazia figurata e di armoniosa musicalità.
Con L’amore randagio,2000, si entra in un piano poetico a più mitografie, con il tema dell’amore, trasposto con intensa luminosità e tristezza, come nell’ipnotico Frammento LXI, che brucia nel nulla il sogno finale del poeta, e che segna una svolta di grande penetrazione realistica nella cadenza ossessiva anaforica (L’amore è passato); proclive, altresì alla nostalgia delle passate cose e della lingua materna; aperto a un futuro imminente transitorio nel quale è la fretta del “secolo breve” e (“le domeniche passano passano”) che sta per passare la mano: doloroso nell’asseverante constatazione della fine dell’imperium cordis. (Gennaro Mercogliano). Le più recenti Scene bizantine — Teodora, (frammento XC), (2001), recuperano figure e fatti del mondo classico verso il quale La Rocca sembra essere oggi l’unico erede e relatore di una cultura dal grande fascino sommerso. Oltre ai volumi di poesie e di racconti, citiamo gli atti dei Convegni dell’84, curati e pubblicati da La Rocca: Le ragioni del Sud nella vita e nell’opera di Rocco Scotellaro, del 93 Il Mezzogiorno da Scotellaro a oggi. Economia, Letteratura, Società, Liguori, Napoli., e Il mare ciclope-Terzo Concerto Spettacolo per una identità mediterranea, in collaborazione con A. De Crescenzo, Liguori, 2003.

Taccuino 68

Ritonfano acque terremoti
sui giornali è tuttocchi
la negra col bimbo stremato
solo ossa e ginocchi.
Sorrisi frontali a Parigi.

Giusto per un fucile lontano
come John ora è King poi Bob
a svolgere pensieri
eredità di fratelli
destino di fratelli
“lo uccideranno un giorno in qualche luogo”
(il video allunga l’orario
ed abbassa la voce)
ma è già stato per Cesare
chi si rammenta di Cesare
senza monete né fede?

E’ sempre il terribile giugno.
Accorsata all’inutile urlo
dell’ambulanza d’Amalfi
(quasimorto salvarlo
ma i medici che sono padreterni?)
smentisce la morte
“Più nessuno mi porterà nel Sud”
(era Napoli il Sud
quattro ceri affiammati
quattro poeti che piangono).

Chi parte dal cielo per nuovi
pagani dissolto amore di tutti
alloquisce in divisa esperanto
ma amore reiettano a gesso
destino di fratelli
i fratelli agostani
Palach brucia e non sta all’inferno.

Sabato sale alla rampa
chi vive un sepolcro di luna.
O mia luna schiomata
il silenzio ti passa
come a un fitto d’alberi
il colloquio del merlo.
Siamo d’ali. In cielo c’è Borman.
(da: I soli, 1971)

Frammenti di stagioni

Più dolgono ombra i boschi
alla collina ogni sole è in questa
vertigine luce ottobrina.
Immota l’aria accicca
gioie speranze foglie.

Un rosso di tramontana
un terso caldo ai vetri
la scuola per mano a due passi
suonava lontano il tramonto
invernava così senza neve
(ora commiato l’atteso sabato
s’arrissa di rientri la domenica
e di piangere).

Nelle canne gravi del silenzio
irrompono pioggia
tuoni caldi odori
primaverano larve seni sangue.

Si straccia di nubi
la canicola faccia del sole
linda d’acqua l’erbetta
sfiata calura.
Vestiamoci pettiniamoci.
(da: I soli, 1971)

Frammento VIII

Crepita a scaglie e chicchi nel silenzio
pesante delle gomme il ghiaccio poi
si scurisce in fanghiglia aggruma cicche
bucce d’arancio vendono prolunghe
per la corrente accendini pupazzi
all’uscita carica a porta sci
mezzo intontito da rumori e gas
l’esattore occupato a sistemare
moneta ma scontento del lavoro
del suo prossimo tanto risentito
che pilucca la fila dà il biglietto
col denaro e guarda al piazzale libero
sente nel palmo ricacciato il resto
ha la prima già dentro imballa allenta
spinge forte appena svincolato
e lascia a ghirigori sui lunotti
bimbi amore saluti maninplastica
agli sportelli certe occhiate come
si dice solo con lo sguardo è grave.
Ma chi scorge luci avanti l’alba esce
presto di casa parte con le stelle
nel pensiero l’albergo prenotato
con l’acqua che nel bagno è poca e sputa
se rivede le stelle accosta gente
che fuma beve gioca a carte ascolta
hifi racconti s’accovaccia in cori
pensa alla strada al ghiaccio alle catene
alla stufa di casa all’ammalato
che a portata di mano ha quel che resta
della sua vita una bottiglia farmaci
boccette un vecchio libro di preghiere
una forbice nuova un po’ di zucchero
al fondo d’un bicchiere un bastoncino
per scostare la tenda il copriletto
un cuscino la speranza d’apprendere
la nuova cura della malattia
viene la notte torna il giorno il sole
lo ristora di caldo e di splendore
lo consola la pioggia e ricantuccia
il vento un po’ maldestro e fracassone
sembra smarrirsi il freddo a uno sbaraglio
di nuvole disfatte di scirocco
che accenna ad altra pioggia si fa tardi
questo sabato sera appesantisce
di sonno il lume schermato di carta
il respiro s’approfonda dirada
in lunghe pause riprende svanisce
torna impigliato tra bocca e narici
inarca il collo ad occhi spenti il capo
ricade inerte s’impenna poi tenta
un estremo sospiro che non termina
crolla resta si fissa nessun tratto
più muta è fisso e immoto anche chi scruta
e pensa ecco è finita domani
è domenica l’accompagnamento
è per le quattro al pomeriggio il carro
sarà puntuale anche il prete la gente
senza avvisi poca solo qualcuno
del vicinato lo sapranno dopo
diranno e potevate anche avvisarci
per non dare disturbo di domenica
forse eravate fuori per distendervi
non abbiamo creduto non abbiamo
ritenuto scusateci scusateci.
(da: Dieci Frammenti, 1979)

CARLO FELICE COLUCCI

Carlo Felice Colucci è nato a Riccia (Campobasso) nel 1927, ed è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico e di ricercatore. Fra l’altro, nel corso degli anni Settanta, ha svolto originali ricerche sui ritmi circadiani, ricevendo consensi internazionali. Ha pubblicato le raccolte di versi: Fenèste’int’o scuro, (Roma, 1960), Una vita fedele (Guanda, Parma, 1963), La pagaia, (De Luca, Roma, 1967), Poésies, (Millas-Martin, Paris, 1969), Placebo, (Lacaita, Manduria, 1975), Preghiera occidentale, (Guida, Napoli, 1981), Check-up, (Almanacco dello Specchio Mondadori, Milano, 1983), La bella afasia, (Lacaita, Manduria, 1983), Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1987), A fuochi spenti, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1992), Il viaggio inutile, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia.2003), Selected poems, Edizione bilingue italiano-Inglese, (Gradiva Publications, New York 2003). Ha pubblicato i romanzi: La corsia, (Rebellato, Padova, 1972), I figli dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma, 1979), I fuochi di Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna, 1985), Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi, Milano, 1993), ed una cospicua raccolta di saggi ed elzeviri dal titolo: La parola perduta, (Guida, Napoli, 2001). Sono in corso di stampa una raccolta di racconti (Non sparare all’ombra) ed un romanzo breve (L’appello). Per cui riteniamo che il Colucci abbia già al suo attivo-decisamente- la doppia veste di poeta, nella quale è nato alla letteratura e di narratore tout court (a partire dagli anni Settanta), appartenendo di diritto alla sparuta schiera di scrittori in utroque del nostro Novecento che va da Palazzeschi a Saba, Pavese, Bassani, Compagnone, Tobino, Scotellaro, Volponi, Pasolini, Rimanelli, Bevilacqua ed a pochissimi altri. Ciò che caratterizza la poesia di Carlo Felice Colucci è il costante lavoro sul significante a cominciare da la Pagaia dove già si formulano i primi contatti linguistici innovativi, che si faranno più chiari e distinti in Placebo, “in una temperie stilistica di ironia tragica di sequenze appositive e comportamenti verbali nel rispetto però delle forme linguistiche e del nucleo del sintagma.”(Lanfranco Orsini, Otto-Novecento- tra poesia e prosa, Napoli, S..E.N., 1980, pag. 358); per poi “passare”, “attraverso l’avanguardia con grande intelligenza e saggezza”,(G.B. Squarotti: dai Postermetici alla postavanguardia, in Letteratura Italiana Contemporanea, Lucarini, 1982 vol. III, pp.545-546); pervenendo con Preghiera occidentale ad uno dei documenti poetici tra i più significativi degli anni Ottanta. La poesia di Colucci, prevalentemente logica e antropocentrica, gira intorno al tema della memoria e al dramma della vita in cui vengono esaminati e ritracciati i filamenti della realtà con conclusivi epitaffi e infausti pronostici per tutti. Si fanno così strada gli spazi del tempo dove mancano i giorni per seminare o per sperare e la Morte ha le sembianze dell’arrotino nel volume Il viaggio inutile. Questa visione culturale e psicologica viene correlata alla vita, con l’occhio spietato del medico-poeta che ricorre ad un glossario scientifico per analizzare, con metafore e sintagmi, il destino dell’uomo.
In questo caso, l’unica solidarietà possibile di fronte al negativo, è la propria testimonianza esposta a quelle scarne profezie / tumori adiesse denutrite magie. Il futuro si identifica con il lessico del nichilista tout court, e il risultato è un evidente schiacciamento dell’esistenza fuori da ogni considerazione metafisica, in un pessimismo che “appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò l’Universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”.(Giancarlo Rugarli, Il Mattino, 20 luglio 2003).
Il paesaggio esterno è marcatamente sassoso, tragico, freddamente lunare, ma di una luce che rischiara la memoria e gli immutati affetti verso i cari estinti, attraverso il recupero antologico di figure e volti che transitano in un’atmosfera sempre più mitica e sacrale, franta ed epigrafica, in vicende che rimarcano il senso proustiano del tempo, dove i suoni dell’anima si amplificano in un umanesimo esistenzialistico. A questo punto si potrà parlare di Colucci pure come di un poeta sotterraneo, in grado di sondare a fondo il vissuto esistenziale, fino a sezionarlo, penetrando “lo sguardo o il bisturi nella tragicità della vita”. (Giuseppe Zagarrio, da Febbre, furore e fiele, Mursia, 1983, pag. 328), in una sorta di “veggenzialità postuma” (idem, pag. 346). Ma forse non si capirebbe appieno il substrato più riposto e pregnante di codesta poesia, senza mettere mano ad un’altra icastica citazione:”Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe, rivela un sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad organizzare fra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto se non di salvezza, almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò che abbiamo definito il “folclore medico”: definizioni di stati patologici senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali (e non ultime, di recente, le serie patologie personali dell’Autore n.d.r.). Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di profondità spirituali insospettate”. (L.Sbragi, Nostro Tempo, 1982-1983, pp. 25-26). E’ codesta la “centralità concettuale” di Colucci, donde partono le onde “psicoespressive” dentro un’operazione poetico/testamentaria che, attualizzando l’effimero dell’umanità, ci restituisce il caos delle cose e degli eventi: da cui è impossibile il tentare di uscire, se non dopo aver conosciuto (e vissuto) tutto il dolore possibile, che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi.

Paesaggio

E certi hanno profonde cunette
ho finito i gettoni, altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva si
l’uniforme, da Lotta continua
ed uno vorrebbe alla spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza gioco di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre,
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia,
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie
(da: Preghiera occidentale, 1981)

Detto tra noi

Io sarò sempre incerto semmai,
degli uccelli hanno preso a cantare
in modo così orrendo da angosciarmi,
se con la penna col bastone o con
se una lunga fila d’auto e requiem
diagnosi prognosi e autopsia
ritornare nell’Acqua Primordiale
con tanti miti e qualche fiore in tasca,
è metafora sublime
il vostro guano ubiquitario
popolo eletto degli uccelli addio
la vita scelta fra mali
e tu a darmi ragione torto niente
nessuno ci offriva più niente più mance
solo una debole nenia di futuro
le iniziali sul destino e si disfiora
l’hashish nel vaso dei gerani,
vi troveranno vi prenderanno sempre
fin dentro malfide riserve;
non me, la breve avventura
nell’epitaffio di riguardo
io traverso sempre sulle strisce
fedele nei secoli nei vicoli
quelle farse per sopra e sotto su e giù,
il resto è tutto sul fondale disfatto
una toga d’ermellino per giustizia
la città sul banco degli accusati
adoro fresche basiliche d’estate
le donne di statura media
e il sorriso idiota del vicino,
decidono domani i sindacati
non io, né mai troverò le siepi
dove imberbi ci masturbammo né
mio nonno il biroccio e la cavalla
venduta anche la stalla d’adozione,
misura il volo compagno di paura,
io sarò sempre incerto semmai
il verso lungo o la memoria corta.
(da: Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983)

Totem, tabù e infanzia

Totem annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroschima, Dio mio, Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino
(da Il viaggio inutile, 2003)

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